IL 18° GRADO DEL RITO SCOZZESE 3 : IL SACRIFICIO VEDICO

Mag 11, 2024 | MASSONERIA, RITO

di Silvano Danesi

Pramantha, l’agitatore, e il sacrificio vedico

Nel Rito è prevista l’accensione della “pramanta”, che ricorda, con qualche importante variazione, lo strumento arani usato per l’accensione del fuoco nel sacrificio vedico.

“La croce inferiore di legno di mimosa [una specie simile all’acacia], per il tipo di legno e per la sua posizione orizzontale ricettiva, è –scrive Mario Polia – considerata la parte femminile dello strumento ed è assimilata all’energia cosmica «femminile» (çacti). Il piolo verticale è la parte maschile dello strumento ed è assimilata al dio fecondatore. L’accensione del fuoco rappresenta pertanto una vera e propria riattuazione della cosmogonia”. [i] “La parte girevole dello strumento – aggiunge Polia – era detta anche pramantha, «l’agitatore»”. [ii]

Salvatore Farina, a proposito della “pramantha” massonica, scrive: “L’istrumento consiste in una croce di legno, a bracci disuguali, di 10 o 15 centimetri di spessore, e 20 o 25 centimetri di lunghezza, tagliata grossolanamente, e aventi l’apparenza di rami di un vecchio albero. Al centro della croce è un foro cilindrico coperto da un coperchio a forma di rosa. La pramantha propriamente detta dovrebbe essere un cilindro di legno dolce di 8 o 10 centimetri di lunghezza adattantesi al foro della croce, cilindro che, col solo strofinamento, dovrebbe infiammarsi”.[iii]

Dopo che il saggissimo, tolta la rosa, introduce nel foro la pramantha, dice: I.N.R.I.

Tralasciamo i vari significati, per concentrarci su quello che viene fortemente indicato nella sua valenza sacra dal Fratello Sacrificatore con un inno a Agni che si ispira al sacrificio vedico. Tale inno è stato tolto arbitrariamente dal rituale in uso e va reintegrato nella sua valenza e nella sua bellezza.

F:. Sacrificatore: “Salute a te, fanciullo celeste, alla triplice nascita che Prometeo apportò agli uomini, figlio di uomo e figlio di Dio; a te che i nostri antenati hanno adorato sotto il nome di Agni e venerato sotto le sembianze di un agnello che libera il mondo dalle impurità. Salute a te, rivelatore del cielo e della terra, vincitore dei mostri, dell’uragano, delle notti e del verno. Sei tu che mostri le meraviglie del Tempio, che accendi, al di sopra delle nostre teste, le luci celesti, che ci abbagli col lampo, che ci riscaldi coi dolci effluvi del focolare domestico, che doni agli uomini il mezzo di rendere se stessi simili agli dei. Ovunque in germe od al potere, padre di coloro che ti generarono, tu simboleggi ai nostri occhi come per gli Atarvani dell’antica Ariania, il principio di tutte le combinazioni che si verificano nella natura, l’essenza del movimento della vita e del pensiero, la Ragione che rischiara ogni uomo nato al mondo. Aumenta in vigore ed in luce: spandi di lontano i tuoi bagliori folgoranti, rimonta fino al cielo donde sei disceso, mediatore fra i mondi, per fortificare i nostri corpi, per illuminare la nostra ragione, per purificare i nostri esseri, per rischiarare la nostra coscienza. E quando un giorno noi avremo compiuto il nostro dovere su questa terra, forse porterai gli elementi sottili del nostro Essere lontano dalla corruzione che è la legge fatale delle cose quaggiù”.

Fuoco, simbolo dell’Essere unico

L’inno è preceduto da tre affermazioni essenziali.

La prima.

Saggissimo: “Nell’origine del movimento della vita e del pensiero, vale a dire di tutti i fenomeni naturali senza eccezione, gli Ariani, nostri antenati, ammisero un principio che non era un’astrazione, ma una forza reale e visibile: il fuoco; da prima fuoco terrestre, l’Agni del sacrificio. Poi il fuoco atmosferico o lampo, infine il fuoco celeste rappresentato dal sole. Il fuoco concepito dapprima come una personalità divina non differenziantesi dall’uomo che per l’estensione meravigliosa delle sue facoltà, divenne il simbolo dell’Essere unico che è la sorgente e la trama dell’Universo”.

La seconda:

Oratore: “Ma fu sempre temeraria l’impresa dei mortali quando pretesero imporre un nome al G..A:.D..U:.”.

La terza.

Il Maestro delle cerimonie alla domanda: “Chi vi ha guidati?” risponde : “Raffaelo”.

L’arcangelo Raffaele, il cui nome ebraico (Rafa-El) significa “Medicina di El” o “El guarisce” è l’arcangelo delle cure fisiche e spirituali. I viaggi, pertanto, sono volti a guarire spiritualmente, a confrontarsi con idee, credenze, ideologie, per poi abbandonarle, in quanto relative, e concentrarsi sul viaggio interiore, alla ricerca del proprio centro di gravità permanente, del proprio Sé, il lapis exilis.

Il numero, archetipo degli archetipi

La complessa figura di Agni merita qualche accenno di riflessione.

Agni, quando nacque come Ahi, era privo di piedi e di testa e nascondeva le due estremità nella sua matrice, ma quando divenne manifesto assunse la forma del «dotato di piedi».

Nel mito si cela un linguaggio matematico, dove lo zero è l’ofidico cerchio, ouroboros, senza testa e senza piedi, l’Uno è pedomorfo (un piede) e il molteplice (la serie 0 1) è dotato di piedi e di mani.

Sotteso al mito è il linguaggio degli dèi: il numero, l’archetipo degli archetipi.

Il sacrificio è anche la separazione della Persona (Purusha) e della Parola (vâc). L’unità Persona-Vâc è suddivisa nel primo sacrificio. “Per mezzo delle loro parole i cantori co-creatori (Viprab Kavayah) lo concepirono molteplice, lui che rimase uno”.(Rig Veda X, 114,5).Nel primo sacrificio la Parola (vâc,a Vacca di Luce, come Brigit, Bo Vinda) è separata dal Purusha.

Concetti simi quelli che si leggono nel Prologo di Giovanni: “Nel Principio era il Logos e il Logos era presso Theon e il Logos era Theos”.

La separazione della Parola dà luogo al tempo (Purusha è l’Uomo Universale e Agni è l’Anno) e così “nel” diventa “in”: in principio era il Verbo.

Il Verbo che è Theos si separa da se stesso e dà luogo a un prima e a un dopo e con il tempo nasce lo spazio.

La Parola è la circolare racchiusa Virgo (Zero) uscita dalla sua circolarità nel pedomorfo (Uno).

“Grazie al sacrificio, seguirono le orme dei piedi della Parola, la trovarono che dava asilo ai Profeti; la condussero e la suddivisero in molte parti; i Sette cantori la intonarono in ogni luogo”. Rig Veda, X, 71,3.

Il latte (luce) della Parola (vâc) è soggetto alla burrificazione, ossia l’avvolgimento della vibrazione dà luogo alla luce (Dio disse: “Sia la luce…”), fotoni.

La vibrazione avvolgendosi su se stessa dà origine alla luce e alla materia.

Il rito come imitazione dell’atto emanativo

Il rito umano del sacrificio è un’imitazione di ciò che fu fatto in principio, è innegabilmente una mimesis, ma è anche un rito di ricomposizione.

“Di conseguenza – scrive Ananada Coomaraswamy – lo scopo finale del sacrificio non è solo di continuare l’operazione creatrice iniziata «una volta» dalla decapitazione, ma anche «di capo volgerla» con la ricostituzione totale della divinità divisa, e con ciò il sacrificante stesso, identificato con la divinità e con il sacrificio. Abbiamo già visto che con il Sacrificio Prajapâti ritrova la sua integrità, ma soprattutto che non è unilaterale, poiché la divinità dev’essere guarita da coloro stessi che l’avevano divisa”. [iv] ( Tre hanno ucciso Hiram e tre lo fanno risorgere).

In Shatapatha Brâmana (II,2,2,8-20), citato da Ananda Coomaraswamy, gli Dèi e i Titani erano sprovvisti di Sé spirituale e di conseguenza mortali. Solo Agni era immortale. Gli Dèi sacrificarono il fuoco in se stessi: diventarono immortali e invincibili. I Titani edificarono il fuoco esternamente e rimasero mortali.

“Analogamente – scrive Ananda Coomaraswamy – ora il sacrificante edifica il Fuoco sacrificale in se stesso. Per quanto riguarda questo Fuoco così acceso in lui pensa: «Qui stesso sacrificherò, qui farò il buon lavoro». Nulla può intromettersi tra lui e questo Fuoco. «Sicuramente, finché vivrò, questo Fuoco che è stato edificato all’interno di me stesso non si spegnerà»”.[v]

L’Agni hotra, l’offerta del Fuoco, è un rito di avvio al riconoscimento e alla ricostituzione del Sé e la Massoneria ne fornisce un preclaro esempio nel 18° grado del Rito Scozzese Antico e Accettato, purché il rito sia eseguito nei dovuti modi, con la giusta voce, con la corretta drammatizzazione.

Il sacrificio di Prajapati e l’altare di Agni

 Nei Vangeli cristiani, il regno dei cieli “è più piccolo di un granello di senape che un uomo semina nel suo campo. Il seme è piccolissimo, ma quando è cresciuto diventa la più grande fra tutte le piante dell’orto”. [vi]

Nell’Atharva Veda, l’Uno “è più fine di un capello, l’Uno è completamente invisibile; e tuttavia questa divinità a me tanto cara, è più vasta di tutto il grande universo”. [vii]

Il punto di partenza e la base di tutta la riflessione filosofica indoeuropea è il sacrificio, Yaina, di Prajapati, il quale smembra se stesso per far si che il mondo sia e sia ciò che è. La creazione, pertanto, è il sacrificio di Prajapati (signore della creazione): un dono che è un atto di auto-immolazione. Un atto che ricorda altri smembramenti archetipici, come quello di Osiride o di Dioniso.

Tapas, ardore, sollecitato da kama, amore, desiderio, penetra nell’In-Sé al punto da smembrarlo. L’In-Sé, Prajapati, si sacrifica, si smembra, si disperde. “E’ il sacrificio di Parajapati – scrive Panikkar – in termini mitici che dà vita all’Essere e agli esseri, e che libera l’Essere dal peso di dover essere l’origine e la causa degli esseri … All’origine di ogni essere c’è il sacrificio che l’ha prodotto. Il tessuto dell’universo è il sacrificio, che è l’atto per eccellenza, e che produce tutto ciò che è”. [viii]

Nasce l’universo e con esso Ŗta, l’ordine cosmico che ispira l’energia dell’atto sacrificale ed è alla radice del tutto: il principio, non ontologico, di ordine e di attività.

Ŗta è un elemento essenziale della cosmogonia vedica; è l’elemento relazionale ed è l’energia stessa del sacrificio; è Prajapati in formazione e come informazione; è intimamente connesso all’ardore (tapas) e alla verità (satya), in quanto senza Ŗta la verità non sarebbe vera. “Tutti i poteri di ardore, concentrazione, energia e simili sono collegati a Ŗta. In effetti l’intero ordine dell’universo proviene ed è mantenuto da Ŗta.

“La caratteristica di base di Yaina sembra essere – suggerisce ancora Panikkar – quella di un’azione che giunge dove intende giungere, che realmente e veramente offre qualcosa, che estende e amplia sé stessa. In altre parole il sacrificio sembra suggerire un’azione che effettivamente «crea», vale a dire, agisce, è efficiente e produce ciò che intende”.[ix]

Il sacrificio è l’atto per mezzo del quale il mondo è e, dunque, questo atto viene ad essere, diventa manifesto, nasce e cresce continuamente.

René Guénon, nel suo saggio sugli stati molteplici dell’Essere, affronta la questione premettendo il concetto di Infinito, che considera non definibile e il concetto di Possibilità, la quale è altrettanto infinita e, conseguentemente, non definibile.

Ciò premesso, René Guénon scrive che l’Essere non racchiude in sé tutta la Possibilità e non è identificabile con l’Infinito.

Guénon precisa che “l’Essere non è infinito dal momento che non coincide con la Possibilità totale; tanto più che l’Essere, come principio della manifestazione, contiene in sé tutte le possibilità di manifestazione, ma soltanto in quanto si manifestano”.

L’Essere, conseguentemente è limitato, non è infinito e non comprende il Non Essere, che Guénon afferma essere “più dell’Essere”.

L’infinità, afferma Guénon, appartiene all’insieme dell’Essere e del Non Essere ed è nell’insieme di Essere e Non Essere che risiedono tutte le possibilità.

L’Essere è dunque il prodotto del sacrificio del Non-Essere, ossia di Prajapati, dell’In-Sé che si estende nello spazio-tempo secondo le leggi dell’ordine cosmico Ŗta.

E Ŗta, in quanto relazione, consente all’uomo vedico di compiere a sua volta il sacrificio, ossia di celebrare, di concelebrare con l’universo. “Potremmo dire che il nucleo dell’esperienza dell’uomo vedico sta nel fatto che egli è chiamato a compiere il sacrificio che fa sussistere il mondo e persino gli Dèi”. [x]

Sull’altare del sacrificio, che è il limite della condizione umana, e dove si incontrano i tre aspetti di Agni (spirito – adhiadaivika, uomo – adhyatmika e materia adhibhautika), grazie a Ŗta, in quanto relazione, l’uomo vedico non compie una manipolazione del divino, “ma il balzo esistenziale con il quale l’uomo si tuffa, per così dire, nel non-ancora-esistente con la sicurezza cosmica che il tuffo stesso causi l’emergere di quella realtà nella quale si tuffa”. [xi]

Oggi la fisica quantistica esprimerebbe lo stesso concetto con l’osservatore che osservando fa emergere dalle probabilità una determinata realtà.

Agni, archetipo del redentore

L’altare del sacrificio offerto e praticato dagli uomini ha, nella cultura vedica, un officiante divino: Agni.

Agni è la divinità più frequentemente citata nei Veda; eternamente giovane, eterno fanciullo, è il soccorritore, il mediatore tra il dio inconoscibile e gli uomini; è l’amico dell’uomo. Agni è anzitutto epifania divina, aspetto benevolo e incarnato del Divino, rappresenta la dimensione teantropocosmica trascendentale di tutto ciò che è. E’ un archetipo.

Agni è il primogenito: Agre (principio) purva (primo) ed è Vaisvanara, colui che appartiene a tutti gli uomini; è il legame tra gli uomini e gli dèi. Conosce il filo. E’ il dio onnisciente. Agni ha un corpo d’oro (aur = luce), quindi corpo di luce, viene identificato con il sole, rappresenta la sacralità del fuoco ed è figlio di Dyaus (dal significato di splendore). Nasce in cielo, da dove scende in forma di lampo, ma si trova anche nell’acqua, nel legno, nelle piante.

Embrione delle acque (ha penetrato le acque primordiali e le ha fecondate), lo si rappresenta, secondo una concezione cosmologica piuttosto arcaica: la creazione compiuta attraverso l’unione di un elemento igneo (fuoco, calore, luce, semen virile) e del principio acquatico (acque, virtualità, seme) mentre si distacca dalla matrice delle acque, il Mare.

Agni, fuoco è chiamato infatti “embrione delle Acque”. Si ritiene che egli abbia penetrato dall’alto le Acque primordiali e le abbia fecondate. [xii] Siamo di fronte alle nozze alchemiche tra l’elemento igneo e il principio acquatico.

Agni “è il messaggero tra Cielo e Terra ed è per il suo tramite che le offerte giungono fino agli dèi. Ma Agni è soprattutto l’archetipo del sacerdote; lo si chiama il sacrificatore o il «cappellano» (purohita)”. [xiii]

Capo degli dèi e loro messaggero (come Thoth, Hermes, Mercurio) Agni è il fuoco dell’ispirazione vedica, il fuoco sacro e sacrificale, il fuoco che è nel sole, nelle cose e nel cuore dell’uomo; il focolare domestico, legato alla vita; è l’agente divino sacerdotale e sacrificale, colui che fa venire all’esistenza l’intera realtà; è il fuoco sacrificale che trasforma tutti i doni materiali e umani in realtà spirituali e divine, così che possano raggiungere la loro destinazione definitiva; è il Fuoco primitivo, cioè la Luce stessa, nella grande dimora chiamata l’Antica. Non è difficile vedere l’equivalenza simbolica con i concetti di Arché e di Lógos.

Direbbe Eraclito: “Fuoco semprevivente”.

Nell’Aitareya Brahmana (II,36) si afferma che “il Serpente Ahi Budhnya rappresenta in modo invisibile (paroksena) ciò che Agni è in modo visibile (pratyaksa). Il Serpente è, in altre parole, virtualità del Fuoco … “.[xiv] Lo Sathapatha Brahmana, infine, dichiara che “la scienza dei Serpenti (sarpavidyâ) è il Veda”.[xv]

Agni il redentore uno e trino

Agni ha una struttura marcatamente trinitaria: triplice nascita, tre teste, tre corpi. Gli dei lo hanno reso triplice ed egli dimora in tre luoghi.

La funzione e il privilegio di Agni, che potremmo chiamare redentore divino, è di ricomporre Prajapati, ovvero recuperare le scintille divine disperse nella manifestazione, rendendole coscienti (risvegliando la consapevolezza) del loro essere parti essenziali del Tutto.

L’altare di Agni, così come è descritto nel Śulvasūtra, dove śulva è la corda che assieme a dei paletti consente le misure rituali, con lo stesso metodo usato in Egitto e dai Druidi, è costruito con la regola dell’accrescimento, che utilizza lo gnomone (descritto nel Libro I degli Elementi di Euclide, il quale ha attinto evidentemente alla sapienza vedica), che si ritrova anche in Pitagora e che ingrandisce o diminuisce mantenendo inalterata la forma: “In ogni parallelogramma i complementi dei parallelogrammi posti intorno alla diagonale sono uguali tra loro”.

 

Se inseriamo a squadra su un quadrato 4 (possiamo immaginarlo anche come 4 punti) 5 quadrati (o punti), otteniamo un quadrato 9 .

La squadra assume in questo contesto l’importante ruolo di strumento creativo della frattalità.

Squadrare è costruire un altare ad Agni, al sacro fuoco della ricomposizione: un altare alla umana consapevolezza dell’essere umano una scintilla divina, frattale dell’Essere creato dal sacrificio di Prajapati.

“La prescrizione per la costruzione dell’altare di Agni – scrive Paolo Zellini – era la seguente: iniziare con un piccolo quadrato di 4 mattoni; poi, con l’aggiunta di 5 mattoni, proseguire con un quadrato di 9; poi ancora, con l’aggiunta di 7 mattoni, con un quadrato di 16”. [xvi]

Il numero sedici è il quadrato di quattro.

La progressione è: 4 (+5) 9 (+7) 16 (+9) 25 (+11) 36 (+13) 49 (+15) 64, ecc.

La costruzione dell’altare di Agni ha, dunque, un significato sacro, in quanto riguarda la ricomposizione del corpo disperso di Prajapati, così come in Egitto accade a Iside, che ricompone il corpo disperso di Osiride.

Nella squadratura sono sottesi i grandi temi della crescita e della decrescita nella conservazione della forma, ossia la questione delle questioni: la frattalità, dove frattale significa frazione del tutto e introduce il concetto di ologramma.

La squadratura assume il significato della “possibilità di sottrarsi all’accidentalità del divenire per mezzo di configurazioni relativamente stabili, ove prevalgono lógos e morphé”. [xvii]

Rapporto, relazione, lógos e forma, morphé, delimitano, poiché con una crescita e una decrescita illimitata “finisce con il prevalere il non-essere dell’ápeiron” [xviii], il senza limite, indefinibile e inconoscibile.

 segue

 

 

[i] Mario Polia, Le rune e i simboli, Il Cerchio-Il Corallo

[ii] Mario Polia, Le rune e i simboli, Il Cerchio-Il Corallo

[iii] Salvatore Farina, il libro completo dei Riti Massonici, Gherardo Casini Editore

[iv]Ananada Coomaraswamy, La dottrina del sacrificio.

[v] Ananada Coomaraswamy, La dottrina del sacrificio

[vi] Matteo, 31.

[vii] Atharva Veda X,8

[viii] Raimon Panikkar, I Veda, Bur

[ix] Raimon Panikkar, I Veda, Bur

[x] Raimon Panikkar, I Veda, Bur

[xi] Raimon Panikkar, I Veda, Bur

[xii] Mircea Eliade, Storia delle credenze e delle idee religiose, Sansoni

[xiii] Mircea Eliade, Storia delle credenze religiose, Sansoni

[xiv] Mircea Eliade, Storia delle credenze e delle idee religiose, Sansoni

[xv] Mircea Eliade, Storia delle credenze e delle idee religiose, Sansoni

[xvi] Paolo Zellini, La matematica degli dèi e gli algoritmi degli uomini, Adelphi

[xvii] Paolo Zellini, La matematica degli dèi e gli algoritmi degli uomini, Adelphi

[xviii] Paolo Zellini, La matematica degli dèi e gli algoritmi degli uomini, Adelphi

Silvano Danesi

Silvano Danesi

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