di Silvano Danesi
Qual è la dottrina massonica? Lo svelamento.
Una frase ambigua è quella relativa all’obbligo di studiare la “dottrina”. La dottrina, normalmente intesa nell’accezione comune, è l’insieme dei precetti o delle teorie in cui consiste un movimento scientifico, filosofico, politico, religioso e simili; anche, l’insieme dei principi sostenuti da un autore o relativi a un determinato problema: la dottrina evangelica; la dottrina di Aristotele, di Platone; la dottrina dell’evoluzione; ecc.
La Massoneria, in questa accezione di dottrina non dovrebbe riconoscersi.
Se dottrina è, al contrario, insegnamento (da docere), allora la dottrina massonica è ben identificata in quanto, come afferma Dante: “Mirate la dottrina che s’asconde/ sotto il velame delli versi strani”. (Inferno, IX, 62).
Ecco che ritorna in primo piano il vero insegnamento, la vera dottrina massonica: il togliere i veli.
Bacone la Nuova Atlantide
L’affermazione della Massoneria di essere erede della sapienza egizia antica, ci riporta a ritualità analoghe, quali quelle contenute del Libro dei morti (Per em Ra, Per salire al giorno) e nel “Libro di Ciò che è nel Duat”, dove al tuffo nelle profondità e all’incontro con energie di varia natura, segue l’acquisizione dello stato di Akh, lo stesso del Sé delle dottrine induiste e tradizionali e della psicologia junghiana, che della Tradizione si è nutrita.
Un riferimento, per quanto ben celato, alla tradizione egizia è contenuto nella Nuova Atlantide di Francesco Bacone.
Sull’isola governa il re legislatore Solamona (Sol Amone, ossia Amon Ra), il quale ha fondato l’Ordine o la Società Casa di Salomone (inversione voluta), guida e luce di Nuova Atlantide. Fine dell’istituzione è “la conoscenza della cause e dei segreti movimenti delle cose per allargare i confini del potere umano verso la realizzazione di ogni possibile obbiettivo”.
I membri della Casa di Salomone vengono inviati nel mondo per riferire su usi, costumi, conquiste scientifiche e tengono nascosta la loro origine. Essi portano a Nuova Atlantide libri, sommari ed esemplari delle scoperte di tutti gli altri paesi e sono chiamati «Mercanti di luce».
Un riferimento al rapporto del 18° Grado del Rito Scozzese Antico e Accettato con questa salomonica istituzione e con i suoi «Mercanti di luce» è evidente.
Assai interessante è la ritualità relativa all’ambito famigliare.
La famiglia costituisce la base portante della società di Nuova Atlantide ed è governata da un rito dove il padre è il Tirsano (evidente il riferimento al tirso dionisiaco) e il figlio prescelto, che starà accanto al padre e gli succederà, è il “figlio della vite”. A questo figlio prescelto viene consegnato un grappolo d’uva d’oro e nella cerimonia di iniziazione ha un ruolo importante l’edera. Tirsano, inoltre, offre ai suoi figli eccellenti, per meriti e per particolari virtù, un gioiello raffigurante una spiga di grano. Il rimando a Dioniso e Demetra e ai riti eleusini è evidente. Meno evidente, in quanto poco conosciuto, è il possibile rinvio ai riti della celtica Ceridwen, assai simili a quelli di Cerere e di Demetra.
I misteri di Ceridwen, segnalati da Artemidoro (simili pare a quelli di Cerere) e trasformati dal bardismo, conservavano ancora i loro fedeli nel VI secolo, al tempo di Taliesin ed erano vivi nel XII secolo. “Il re stesso, come si vede dai canti di Hoël o Hywel, re del Galles, morto nel 1171, era onorato di esservi ammesso. Esiste una preghiera curiosa, nella quale, già ammesso ai gradi inferiori dell’iniziazione, sollecita al Collegio di Ceridwen con espressioni di fervente pietà, il favore dell’iniziazione superiore”. [1]
Cercate la verità nella sua ombra profonda
“Cercate la verità nella sua ombra profonda. E’ la voce del lavoro e della libertà. Voi conoscerete la legge che governa il mondo”.
La voce del lavoro e della libertà è la Parola, Vac del Lógos, che è il Demi Ergon, il “Lavoratore pubblico”, il Grande Architetto dell’Universo in azione.
“Un’intelligenza che è un’armonia invisibile governa l’universo e questa intelligenza e questa armonia è il Lógos eracliteo, che nel Prologo di Giovanni è theos ed è in Arché presso theon e poiché una parte del Lógos è compresa in noi, ecco che noi possiamo accedere alla sua conoscenza ed ecco il motivo per il quale il Lógos “è la luce degli uomini”. [2]
Ad aiutarci nel cammino sono gli archetipi, Arché typos, impronte dell’Archè (neter egizi, dèi greci, angeli e geni), principi che dal Principio principiante, l’Archè, il Puro Pensiero, emergono in forza del Logos , che è theos, ossia manifestazione.
Il vocabolo theos deriva dalla sostantivazione del verbo theeîn, correre e del verbo theâsthai, vedere. Pertanto il potere improntante e determinativo dell’Arché, ossia il Logos, agisce inducendo un correre verso l’evidenza, ossia un manifestarsi (uscire alla luce), di ciò che è tenebroso, un distendersi ordinato di ciò che è racchiuso e caotico.
Questo il vero significato del “lavoro”.
La luce del Logos e il soccorso degli archetipi comunicano con il linguaggio simbolico, il quale è la lingua esoterica che conduce al vero sapere. Il vero sapere, infatti, non consiste nel conoscere una moltitudine di cose, ma nel conoscere il pensiero dal quale sono governate tutte le cose e questo vero sapere è la saggezza, che deriva dall’esperienza di vita (Venere), dal superamento delle prove (Ercole) e dal soccorso della Sapienza (Minerva).
Il percorso per trovare la Parola è il ritrovare se stessi, ossia il proprio Sé, l’Akh delle ritualità iniziatiche egizie, per essere nello stato di coscienza del Sé, per essere realizzati nello stato di Akh (la forma sottile, il corpo di Luce).
La pietra cubica suda sangue e acqua.
Il riferimento al sangue e all’acqua, come quella del costato di Cristo, che sarebbe stato versato nella coppa del Graal, è solo una modalità essoterica per dire che il sangue e l’acqua della pietra è l’effusione di un segreto nascosto che la pietra cubica nasconde dentro di se.
Il cubo ha sei facce, otto vertici, dodici bordi: 6-8-12.
I rapporti tra questi numeri sono armonici.
12/6= 2 ossia l’ottava musicale: Do – Do.
12/8= 3/2 ossia il rapporto di quinta: Sol – Do.
8/6 = 4/3 ossia il rapporto di quarta: Fa – Do.
Il cubo è armonia, musica, rapporto armonico. Ed è con l’armonia che si giunge al centro del cubo, ossia al centro della pietra, al centro del corpo di carne, che suda sangue e acqua, per trovare, il baricentro, il centro di gravità permanente (come canta opportunamente Franco Battiato): il Sé.
Ed ecco che dal proprio centro ci si proietta al vertice della piramide: dal fuoco interno al fuoco universale. Ogni riferimento alla ritualità egizia e alla geometria sacra ci porterebbe lontano, ma è un percorso di grande interesse.
Nel cubo, che è fatto di quadrati, si nasconde anche il rapporto tra l’irrazionale (infinito) e il razionale (finito).
Nel cubo sovrastato dalla piramide si nasconde il segreto della porta apparente.
“Gli antichi Egizi – scrive Shwaller de Lubicz – sapevano benissimo come si entra nell’invisibile: attraverso la porta apparente”[3], che ha molti stipiti e si restringe, come la pietra cubica che, continuamente levigata, porta all’invisibile punto centrale, dove il visibile si espande nell’invisibile.
La cavalleria dell’Aquila e del Pellicano
Scrivere senza alcuna specificazione che “durante l’oscura epoca medioevale, la Cavalleria rappresentava la rivendicazione del diritto individuale: la difesa del debole, il giusto orgoglio del buon diritto, la protesta contro l’arbitrio” è un non senso storico e pertanto quanto è scritto va condiderato come un modo allegorico per indicare il dovere.
Anzitutto l’epoca medioevale non è stata, come è ormai acclarato da innumerevoli studi, un periodo oscuro. In secondo luogo, la cavalleria medioevale è stata, per la sua gran parte, un insieme di bande armate violente, più simili a predoni che a difensori del diritto, sicuramente non difensori dei più deboli.
Il fatto che i pellicani adulti curvino il becco verso il petto per dare da mangiare ai loro piccoli i pesci che trasportano nella sacca ha indotto all’errata credenza che i genitori si lacerino il torace per nutrire i pulcini col proprio sangue. Il pellicano è divenuto pertanto il simbolo della carità (I care, mi occupo di), dell’abnegazione con cui si amano i figli.
Si deve invece, per l’analogia di forme, l’assonanza al nome con cui gli stessi greci principalmente lo chiamavano: pelekos, da pelekus, l’ascia, a causa dell’apertura del suo becco smisurato, uncinato alla punta che, slargandosi a ventaglio, risulta essere simile ad una antica scure; questa, un segno simbolico del sacrificio di sangue, potrebbe far risalire l’origine delle leggende sul pellicano a tempi antichissimi.
In ogni caso il pellicano è divenuto simbolo di carità, di abnegazione e di sacrificio.
In tutte le tradizioni l’aquila incarna la potenza cosmica; è il re di tutti gli uccelli, avendo il dominio assoluto dell’aria, così come il leone è il re della savana e il cervo è il re della foresta. Dalle sue qualità reali o presunte deriva la sua simbologia. Il suo librarsi verso l’alto nel cielo, fino ad altezze impossibili per l’uomo, lo rende simbolo di qualsiasi movimento ascensionale, dalla terra al cielo, dal mondo materiale al mondo spirituale, dalla morte alla vita. Elevandosi verso l’alto, può alimentarsi del fuoco superiore. L’aquila, alla quale è assimilato il falco, è considerato un uccello solare, detto anche “uccello di fuoco”, per la sua immaginaria capacità di guardare il sole senza bruciarsi. Il rapporto aquila-sole è ben presente nel rapporto falco-Horus.
Essere cavalieri del pellicano significa essere caritatevoli, capaci di abnegazione e di sacrificio (sacrum facere) ed essere cavalieri dell’aquila significa percorrere le vie della conoscenza, per tendere verso la Luce, simbolizzata dal sole, ma ben più consapevolmente presente dentro di noi, in quel centro di gravità permanente, in quella G intima che sa collegarsi alla G universale, nel punto di equilibrio ove l’infinito e il finito si toccano e si trasformano incessantemente l’uno nell’altro.
[1] Jean Rainaud, L’esprit de la Gaule, Firne, Paris, 1864.
[2] Silvano Danesi, Pitagora, Il mio libro.it
[3] R.A. Schwalle de Lubicz, Il Tempio nell’uomo, Mediterranee