di Shabbat Menkaura
Qualche tempo fa sono rimasto piacevolmente sorpreso dalla domanda che mi ha posto una giovane persona interessata ai riti di ispirazione egizia; la sua curiosità riguardava il motivo per il quale il gruppo di cui faceva parte Marconis de Négre avesse scelto proprio il nome di Memphis per il rito e se tale scelta si potesse ancora considerare adeguata, visti i grandi progressi intervenuti nello studio dell’Antico Egitto dai primi decenni del XIX secolo sino ai giorni nostri.
Il quesito si presentava complesso, insidioso e meritevole di una risposta articolata.
La mente umana, a volte, accetta notizie o concetti senza verificarne i fondamenti unicamente perché tali nozioni derivano da fonti ritenute aprioristicamente corrette.
A maggior ragione ciò accade in relazione ai dati che provengono dalle nostre strutture tradizionali, dati che riceviamo con lo stesso atteggiamento di reverente accoglienza che spesso è riservato ai dogmi di fede nelle religioni rivelate.
Questo atteggiamento non risulta però iniziaticamente corretto, sia in quanto l’iniziato possiede una personale fonte di ‘conoscenza’ diretta delle cose divine (concetto su cui molto insistono i Sufi) sia perché l’iniziato stesso dovrebbe mantenere nei confronti della tradizione un atteggiamento di irrispettoso rispetto.
Tornando al valore della conoscenza tralatizia, come ci insegnano i Saggi, in nessuna istanza possiamo abdicare al nostro discernimento, perché non ci è concesso farlo.
Qui risiede l’essenza del libero arbitrio che deve sempre essere esercitato al meglio delle nostre possibilità.
Precisato ciò, l’accoglimento fiducioso degli insegnamenti e delle regole tradizionali è fondamentale per chi segua un percorso iniziatico, soprattutto nei primi tempi, con il limite però di non accettare supinamente eventuali errori, anche se vengono da lontano, magari per non apparire presuntuosi o irriverenti, ovvero per paura di sbagliare.
Un errore resta un errore punto e basta anche se proviene da fonti autorevoli e se si nutrono dubbi su di una questione, si abbia il coraggio di domandare, questo è il diritto/dovere dell’iniziato.
Nella tradizione poi, intesa nel senso latino di trasmissione, gli errori accadono, come la storia ci insegna.
Con grande probabilità, Gesù non parlò mai di CAMMELLI che passavano allegri per la cruna di un ago, bensì di GOMENE, cioè di spesse corde usate sulle imbarcazioni.
Grazie all’errore di un copista, la bella ed efficace immagine della fune grossa che non entra nell’ago è stata sostituita da quella un po’ dadaista del simpatico animale che chissà per quale motivo cerca di infilarsi in un così stretto pertugio.
Di questi esempi nelle Scritture ce ne sono diversi e se ciò è accaduto alla Parola Sacra, figuriamoci se non può essere avvenuto anche per i rituali e le scelte degli iniziati nostri predecessori.
Nella tradizione iniziatica esistono numerosi percorsi che si richiamano espressamente all’antico Egitto ed è preciso dovere di chi percorre il sentiero tracciato da tali tradizioni di porsi le giuste domande sulla correttezza dell’apparato simbolico e delle strutture spirituali che formano il veicolo, per utilizzare un termine che viene dall’oriente, per ottenere l’ascesa della Scala di Giacobbe.
Inoltre, abbiamo la responsabilità di saper spiegare al meglio gli elementi presenti nei nostri rituali, soprattutto senza dare per scontato che i riferimenti simbolici in essi contenuti raggiungano sempre menti ove la storia e la simbologia proveniente dalla Khemet sia sufficientemente chiara, seppur per sommi capi.
Allo scopo di fornire alcuni elementi fondamentali a chi sia interessato da tali questioni e senza possedere alcuna velleità scientifica o accademica, appare opportuno analizzare le scoperte e le interpretazioni, anche recenti, degli studiosi per rispondere al quesito specifico e nel contempo meglio comprendere il contesto culturale ed esoterico dei nostri riferimenti rituali, nei quali la tradizione egizia si fonde con quella giudaico-cristiana.
Non si tratta di dar sfoggio di erudizione: concetti come maat o heka, per fare degli esempi concreti, sono così complessi che ogni minimo contributo può risultare prezioso per illuminare aspetti sempre più profondi di tali strutture.
Come vedremo innanzi, le apparenti contraddizioni e inconsistenze nella teologia dell’Antico Egitto, sono appunto solo apparenza e non sostanza, anche se spesso possono confonderci.
Al tempo dei faraoni non la pensavano come noi e poiché questo spazio temporale è durato per millenni, gli stessi faraoni non la pensavano in modo eguale l’uno all’altro, essendo separati da secoli e secoli di storia.
Analizzeremo in seguito la lapide che un faraone nubiano, uno dei famosi faraoni neri, dedicò ad una teologia che lo precedeva di mille e cinquecento anni, pretendendo di essere un devoto discendente chiamato dal cielo a fungere da salvatore della venerata tradizione menfita, negletta dagli egiziani ‘veri’ (simboleggiati da un papiro roso dai vermi lasciato a marcire nel tempio di Memphis).
A parte il valore propagandistico del gesto, se facessimo lo stesso percorso logico di Shabaka (2023 minus 1500), per noi ciò significherebbe aderire tout court a fatti e idee del 500 d.c. come se fossero attuali e contemporanei.
Premesso ciò abbiamo tutto il diritto di domandarci perché il più diffuso rito di ispirazione egizia porti Memphis nella sua intitolazione e non, per fare un esempio, Tebe “la possente” che da un punto di vista storico ha ricoperto un ruolo anche più importante della stessa Memphis e per un tempo .
Si noti, ad esempio, che nelle titolature reali di molti faraoni è ben presente l’appellativo heqa Waset (che regna in Tebe) chiamata anche Heliopolis del Sud (Iunu shemau) per sottolinearne la santità pari a quella dell’antico luogo della creazione.
Si aggiunga che visitando il sito oggi denominato Mit Rahina (probabilmente dall’antico nome tardo egizio mjt-rhnt (Strada delle Sfingi con la testa d’ariete), la strada rituale che collegava Memphis e Saqqara, come avveniva peraltro a Tebe tra i due templi principali, visto che le criosfingi sono uno dei simboli del dio Amun-Ra) non è che si rimanga proprio folgorati dall’importanza dei monumenti (quasi inesistenti) e dei reperti (pochi) conservati nel museo locale.
Si aggiunga che il sito di Memphis è appunto molto vicino alla meravigliosa Saqqara e al luogo chiamato Dahshur ove si trovano le piramidi sperimentali di Snefru e non è lontano dalla stessa piana di Giza, per sottolineare come il visitatore medio dei monumenti egizi possa provare un po’ di delusione per le rovine della città e l’annesso museo in confronto con ben più augusti scenari.
Malgrado la capitale del nord, contrapposta alla più meridionale Tebe, abbia raggiunto il proprio zenith sotto la VI dinastia (Antico Regno, dal 2350 a.C. al 2190 a.C.) nel museo di Memphis il pezzo forse più pregiato risale alla XIX dinastia (Nuovo Regno, 1291-1185 a.C.), circa mille anni dopo il periodo di massimo splendore della città ed è costituito da una statua colossale di Ramses II, non proprio una novità per gli amanti delle cose egizie che di tali esempi di glorificazione del famoso faraone ne possono reperire a bizzeffe in molti luoghi della ‘Terra Nera.’
Ma per quale motivo i Ramessidi, i quali ebbero per capitale Pi-Ramses (Casa di Ramses), citata nella Bibbia come le città deposito di Pitom e Ramses, il luogo di nascita di Mosè e il punto di partenza dell’esodo del popolo ebraico dall’Egitto:
«Allora vennero imposti loro dei sovrintendenti ai lavori forzati per opprimerli con i loro vincoli, e così costruirono per il faraone le città-deposito, cioè Pitom e Ramses.» (Esodo 1,11)
Per quale motivo, dicevamo, i Ramessidi che si erano trasferiti da Tebe ad un luogo come Pi-Ramses, ancora più a nord (nordest) di Memphis, al fine di contrastare la minaccia Hittita e non solo quella, trovarono della somma importanza attestare la loro legittimazione collocando le loro statue in Memphis?
Una risposta la possiamo trovare nella titolatura reale del più celebre dei faraoni della XIX Dinastia, forse di tutti i faraoni, cioe’ Ramses II.
La sua titolatura è stata rinvenuta ovunque in Egitto e presenta numerose versioni dei cinque nomi reali che la compongono; eccone alcuni, rilevanti per il nostro discorso, tratti dalle varianti del primo nome della titolatura quello di Horus, il più importante per la legittimazione divina del faraone:
Variante B5: Ka nakht mery Maat neb habu sed mi itef Ptah Tatenen
Il forte toro, amato da Maat, possessore delle feste di Sed come suo padre Ptah-Tatenen
Variante C6: Ka nakht sa Tatenen
Il forte toro, figlio di Tatenen
Varianti C7-C8-C9: Ka nakht sa Ptah
Il forte toro, figlio di Ptah
Variante F: Ka nakht mery Ptah
Il forte toro, amato da Ptah
Variante I3: Wer habu sed mi Tatenen
Grande delle feste Sed come Tatenen
Come si può rilevare molti sono i riferimenti a Ptah-Tatenen e, per associazione, a Memphis.
E i riferimenti ad Amun e Tebe?
Variante C1-C2: Ka nakht sa Amun
Il forte toro, figlio di Amun
Variante W: Ka nakht seqa Waset
Il forte toro, che ha innalzato Tebe
Variante Y: Ka en heqau mery Amun
Il forte toro dei governanti, amato da Amon
E sebbene negli ultimi due nomi della titolatura, quello del trono (User Maat Ra – La giustizia di Ra è potente) e quello di nascita (Ramessu mery Amun – Ra lo ha plasmato, amato da Amon) di Ramses II, troviamo la variante User Maat Ra, heqa Waset (La giustizia di Ra è potente, sovrano di Tebe), per ben due volte si rinviene la variante Ramessu mery Amun, netjer heqa Iunu (Ra lo ha plasmato, amato da Amon, sovrano divino di Eliopoli) un chiarissimo memento che Ramses sarà anche stato l’amato da Amun, ma Ra lo ha generato (e non Amun) e sebbene regni su Tebe (ci mancherebbe!), lui e’ soprattutto il divino sovrano di Heliopolis e di Memphis, associato al dio Ptah-Tatenen.
Confrontando questa grande titolatura con quella, ad esempio, di Amenophi III o di Amenophi IV (Amenhotep – Amun è contento) prima che divenisse Akhenaton, le differenze sono evidenti: Amun e Tebe sono assolutamente predominanti nelle titolature di questi due faraoni.
La XVIII dinastia inizia con uno sbilanciamento evidente a favore del culto tebano di Amun-Ra e, conseguentemente del suo clero, e termina con il vecchio generale Horemheb (Horus è in giubilo) che passa le consegne al suo fido visir Ramessu ed alla sua discendenza.
Ma Horemheb non aveva legami con la famiglia reale, quindi quale poteva essere il suo nome di Horus, quale legittimazione poteva invocare per il suo regno questo militare che era uscito indenne da una delle crisi più gravi nella storia della monarchia egizia, crisi apertasi con la morte del celebre faraone Tutankhamon?
Ka nakht seped sekheru – Il toro forte, i cui piani sono intelligenti
Se non puoi rivendicare l’appoggio divino almeno usa la testa …
Quanto sopra esposto è già una chiara dimostrazione che, se risulta vero che con la fine della VI dinastia termina anche l’Antico Regno e si apre il primo periodo intermedio, periodo nel quale Memphis vede grandemente scemare la sua rilevanza politica, è anche vero che la città rimase comunque un punto di riferimento essenziale non solo per la tradizione religiosa, ma anche quale luogo di legittimazione del potere del sovrano per altri millecinquecento anni almeno.
Come vedremo, sin dall’Antico Regno la monarchia faraonica ha cercato e spesso trovato la sua legittimazione nel culto solare esplicitato dalla cosmogonia eliopolitana e dal suo successivo sviluppo rappresentato dalla cosmogonia menfita, sino al punto che, in piena XXV Dinastia, un faraone nero, proveniente dalla Nubia, sentì l’esigenza di collegare la sua tenue pretesa al trono, se si esclude la forza bruta, proprio alla teologia menfita.
La questione non era solamente teorica: come abbiamo già rilevato, nel Nuovo Regno (XVIII Dinastia) già Amenophi III, padre del faraone eretico Akhenaton, entrò in scontro diretto con il potentissimo clero tebano di Amun-Ra e il tentativo di spostare la capitale al nord fuori dal centro del potere sacerdotale, fallito proprio sotto il visionario profeta dell’Aten, fu successivamente portato a termine dalla dinastia seguente, la XIX, quella dei Ramessidi.
Detto ciò, possiamo ora domandarci se la connessione spirituale con l’antica Memphis sia stata quindi solo un ghiribizzo di alcuni intellettuali francesi, come Marconis De Negre, resi entusiasti dalla spedizione dell’imperatore corso in Egitto ovvero se ci si trovi innanzi ad un legame spiritualmente degno di essere coltivato nel tempo.
Stiamo per entrare nel cuore del problema, ma prima precisiamo meglio i termini della questione.
In quasi quattro millenni Memphis ha cambiato nome varie volte dall’originario Inebu-hedj (le mura bianche) che faceva riferimento probabilmente alle mura del grande tempio, Hut-ka-Ptah (Recinto del ka di Ptah, dio patrono di Memphis), una delle strutture più importanti della città.
Il nome di questo tempio, reso in greco come Aἴγυπτoς (Aiguptos) da Manetone, si ritiene sia l’origine etimologica del moderno nome italiano dell’Egitto e in generale del nome della Khemet in tutte le lingue non semitiche[1].
Nel Primo Periodo Intermedio, la citta’ era nota come Djed-Sut (luoghi eterni), che è il nome della piramide di Teti nella vicina necropoli di Saqqara, poi (Medio Regno) fu chiamata Ankh-Tawy (Vita delle due terre), per la sua posizione strategica tra l’Alto e il Basso Egitto.
Non a caso Teti, primo faraone proprio della VI dinastia, adottò nella sua titolatura reale come nome di s3 Rˁ (Sa Ra – Figlio di Ra), l’ultimo e principale dei cinque nomi della cosiddetta Grande Titolatura, l’appellativo di Teti Merenptah, amato da Ptah, il dio menfita.
Nel Nuovo Regno, la città era conosciuta come mn-nfr (Men-nefer, duraturo e bello), che divenne “Memfi” in copto e “Memphis” (Μέμφις) in greco, mentre nella Torah Memphis è chiamata Moph.
Osea 9:6 ‘Ecco sono sfuggiti alla rovina, l’Egitto li accoglierà, Moph sarà la loro tomba. I loro tesori d’argento passeranno alle ortiche e nelle loro tende cresceranno i pruni.
Per comprendere appieno l’importanza di Memphis dobbiamo però arrivare ad un’epoca molto più tarda, quella della Venticinquesima dinastia d’Egitto, nota anche come Dinastia Nubiana, ovvero come Impero Kushita, celebre per i suoi Faraoni Neri, o Napatani, dal nome della loro capitale Napata, che fu l’ultima dinastia del Terzo Periodo Intermedio dell’Egitto, evento scatenato proprio dall’invasione nubiana.
La Venticinquesima dinastia fu una linea di faraoni che ebbe origine nel Regno di Kush, situato nell’attuale Sudan settentrionale e nell’Alto Egitto, terre dalle quali gli Egizi avevano tratto per secoli e secoli le loro truppe migliori.
La maggior parte dei re di questa dinastia considerava Napata come la propria patria spirituale.
Regnarono in parte o in tutto l’Antico Egitto per quasi un secolo, dal 744 al 656 a.C.
Uno di loro Neferkare Shabaka, terzo faraone Kushita che regnò dal 705 al 690 a.C., fece due gesti di grandissimo valore simbolico nei confronti di Memphis, il cui splendore era lontano più di 1500 anni dal suo tempo: per prima cosa adottò come faraone il nome egizio di Neferkare (Bello e’ il ka di Ra) lo stesso nome di Pepi II, ultimo faraone dell VI dinastia, quella della grande Memphis; in secondo luogo fece erigere proprio nel tempio di Memphis una stele ricca di incisioni geroglifiche della massima importanza per la nostra conoscenza, dea teologia menfita, a stele che e’ passata alla storia come ‘Pietra di Shabaka.’
Dal suo luogo di elezione all’interno di Hut-ka-Ptah, la pietra per ragioni a noi sconosciute fu a un certo punto rimossa e trasferita ad Alessandria d’Egitto. Da lì, fu trasportata come zavorra da una nave della marina militare inglese da Alessandria all’Inghilterra ove fu poi fortunatamente recuperata da George Spencer, (1758-1834), Primo Lord dell’Ammiragliato e dal 1794 fiduciario del British Museum e fu proprio il conte Spencer che la donò alle collezioni del noto museo.
Nel 1901, la stele fu decifrata, tradotta e interpretata per la prima volta dall’egittologo americano James Henry Breasted.
Ma cosa dice l’inscrizione di 62 linee sulla Stele di Shabaka e perché è così importante anche per noi?
Ecco il testo, purtroppo danneggiato in alcuni punti:
L’Horus vivente, che prospera le Due Terre; le Due Signore, che prosperano le Due Terre; l’Horus d’oro, che prospera le Due Terre; Re dell’Alto e del Basso Egitto: Neferkare; il Figlio di Re: Sha[baka], amato da Ptah-Sud del suo muro[2], che vive come Re per sempre.
Questa scrittura fu ricopiata da Sua Maestà nella casa di suo padre Ptah-Sud-della-Sua-Parete, perché Sua Maestà trovò che era un’opera degli antenati mangiata dai vermi, così che non poteva essere compresa dall’inizio alla fine.[3] Sua Maestà la ricopiò di nuovo in modo che diventasse migliore di quanto fosse prima, affinché il suo nome durasse e il suo monumento durasse nella casa di suo padre Ptah-Sud-della-Sua-Parete per tutta l’eternità, come opera fatta dal figlio di Re [Shabaka] per suo padre Ptah-Tatenen, in modo che potesse vivere per sempre.
/// [Re dell’Alto e del Basso Egitto] è questo Ptah, che si chiama con il grande nome di [Ta-te]nen [Sud del suo muro, Signore dell’eternità] ///. /// [l’unificatore] dell’Alto e del Basso Egitto è lui, questo unificatore che è sorto come re dell’Alto Egitto ed è sorto come re del Basso Egitto. /// /// “autoprodotto”, così dice Atum: “che ha creato i Nove Dei”.
[Geb, signore degli dèi, ordinò che i nove dèi si riunissero a lui. Giudicò tra Horus e Seth; pose fine alla loro disputa. Fece di Seth il re dell’Alto Egitto nella terra dell’Alto Egitto, fino al luogo in cui era nato, cioè Su. E Geb fece Horus re del Basso Egitto nella terra del Basso Egitto, fino al luogo in cui suo padre fu annegato, che è la “Divisione delle due terre”. In questo modo Horus si trovava su una regione e Seth su una regione. A Ayan fecero pace sulle Due Terre. Questa fu la divisione delle Due Terre.
10 Le parole di Geb a Seth: “Vai nel luogo in cui sei nato”.
Seth: Alto Egitto.
Parole di Geb a Horus: “Vai nel luogo in cui tuo padre fu annegato”.
Horus: Basso Egitto.
Parole di Geb a Horus e Seth: “Vi ho separati”.
/// Basso e Alto Egitto.
Allora a Geb sembrò sbagliato che la porzione di Horus fosse come quella di Seth. Geb diede a Horus la sua eredità, perché era il figlio del suo primogenito.
Le parole di Geb ai Nove Dei: “Ho nominato Horus, il primogenito”.
Parole di Geb ai Nove Dei: “A lui solo, Horus, l’eredità”.
Parole di Geb ai Nove Dei: “Al suo erede, Horus, la mia eredità”.
Parole di Geb ai Nove Dei: “Al figlio di mio figlio, Horus, lo Sciacallo dell’Alto Egitto” /// Parole di Geb ai Nove Dei: “Il primogenito, Horus, l’Apritore delle vie”.
Parole di Geb ai Nove Dei: “Il figlio che è nato /// Horus, il giorno del compleanno dell’Aprire le vie”.
Poi Horus si pose al di sopra della terra. Egli è l’unificatore di questa terra, proclamato nel grande nome: Ta-tenen[4], Sud del suo muro, Signore dell’Eternità. Poi sulla sua testa spuntarono i due Grandi Maghi[5]. È Horus, sorto come re dell’Alto e del Basso Egitto, che ha unito le Due Terre nel Nome del Muro, il luogo in cui le Due Terre furono unite.
Canne e papiri[6] furono posti sulla doppia porta della Casa di Ptah. Questo significa Horus e Seth, pacificati e uniti. Essi fraternizzarono in modo da smettere di litigare in qualsiasi luogo si trovassero, essendo uniti nella Casa di Ptah, la “Bilancia delle Due Terre”[7] in cui erano stati pesati l’Alto e il Basso Egitto.
È la terra ////// della sepoltura di Osiride nella Casa di Sokar[8]. ////// Iside e Nefti non tardarono, perché Osiride era annegato nelle sue acque. Iside [e Nefti] si affacciarono, [lo videro e lo assistettero].
20 Horus parla a Iside e Nefti: “Presto, afferratelo ///”. Iside e Nefti parlano a Osiride: “Veniamo, ti prendiamo ///”.
////// [Lo ascoltarono in tempo] e lo portarono a [terra. Entrò nei portali nascosti nella gloria dei signori dell’eternità]. //////. [Così Osiride entrò] nella terra presso la fortezza reale, a nord della [terra in cui era giunto. E suo figlio Horus sorse come re dell’Alto Egitto, sorse come re del Basso Egitto e si alzò in piedi.
nell’abbraccio del padre Osiride e degli dei davanti e dietro di lui].
Lì fu costruita la fortezza reale [per ordine di Geb ///]. Geb parla a Thoth: ////// Geb parla a Thoth: //////. //////. [Geb parla a Iside: ////// Iside fa venire Horus e Seth. Iside parla a Horus e Seth: “[Venite] /////////”. Iside parla a Horus e Seth: “Fate la pace //////”.
30 Iside parla a Horus e Seth: “La vita sarà piacevole per voi quando //////”. Iside parla a Horus e Seth: “È lui che asciuga le vostre lacrime //////”.
//////.
40 //////.
Gli dèi che sono nati in Ptah:
Ptah-sul-grande-trono //////.
50 Ptah-Nun, il padre che [fece] Atum.
Ptah-Naunet, la madre che partorì Atum.
Ptah-il-grande è il cuore e la lingua dei nove [dei].
[Ptah] ///////// che ha generato gli dèi.
[Ptah] ///////// che ha generato gli dèi.
[Ptah] /////////.
[Ptah] ///////// Nefertem al naso di Re ogni giorno.
Nel cuore ha preso forma, sulla lingua ha preso forma la forma di Atum. Perché il grandissimo è Ptah, che ha dato [vita] a tutti gli dèi e ai loro ka attraverso questo cuore e questa lingua, in cui Horus aveva preso forma come Ptah, in cui Thot aveva preso forma come Ptah.
Così il cuore e la lingua governano su tutte le membra secondo l’insegnamento che esso (il cuore, o: lui, Ptah) è in ogni corpo ed esso (la lingua, o: lui Ptah) è in ogni bocca di tutti gli dèi, di tutti gli uomini, di tutto il bestiame, di tutti gli esseri striscianti, di tutto ciò che vive, pensando tutto ciò che esso (alt. lui) vuole e comandando tutto ciò che esso (alt. lui) vuole.
La sua Enneade (di Ptah) è davanti a lui come denti e labbra. Sono il seme e le mani di Atum. Perché l’Enneade di Atum è nata attraverso il suo seme e le sue dita. Ma l’Enneade è costituita dai denti e dalle labbra di questa bocca che ha pronunciato il nome di ogni cosa, da cui sono usciti Shu e Tefnut e che ha dato vita all’Enneade.
La vista, l’udito, la respirazione: sono riferiti al cuore, che fa scaturire ogni comprensione. Quanto alla lingua, essa ripete ciò che il cuore ha concepito. Così nacquero tutti gli dèi e la sua Enneade fu completata. Infatti, ogni parola del dio è nata da ciò che il cuore ha concepito e la lingua ha comandato.
Così sono state create tutte le facoltà e determinate tutte le qualità, quelle che fanno tutti i cibi e tutte le provviste, attraverso questa parola, a colui che fa ciò che è amato, a colui che fa ciò che è odiato. Così si dà la vita ai pacifici e la morte ai criminali. Così si fanno tutti i lavori, tutti i mestieri, l’azione delle mani, il movimento delle gambe, i movimenti di tutte le membra, secondo questo comando che è concepito dal cuore ed esce dalla lingua e crea l’esecuzione di ogni cosa.
Così si dice di Ptah: “Colui che ha fatto tutto e ha creato gli dèi”. Ed è Ta-tenen, che ha dato vita agli dèi e da cui è nato tutto, cibi, provviste, offerte divine, tutte le cose buone. Così si riconosce e si comprende che egli è il più potente degli dèi. Così Ptah fu soddisfatto dopo aver creato tutte le cose e tutte le parole (geroglifici[9]) divine.
Ha fatto nascere gli dèi,
ha creato le città,
ha fondato i nomi (province),
60 ha collocato gli dèi nei loro santuari,
ha stabilito le loro offerte,
stabilì i loro santuari,
fece i loro corpi secondo i loro desideri.
Così gli dèi entrarono nei loro corpi,
di ogni legno, di ogni pietra, di ogni argilla,
di ogni cosa che cresce su di lui
in cui sono venuti ad essere.
Così si riunirono a lui tutti gli dèi e i loro ka,
contenti, uniti al Signore delle Due Terre.
Il Grande Trono che dà gioia al cuore degli dèi nella Casa di Ptah è il granaio di Ta-tenen, la padrona di tutta la vita, attraverso il quale si provvede al sostentamento delle Due Terre, grazie al fatto che Osiride fu annegato nella sua acqua. Iside e Nefti si affacciarono, lo videro e si presero cura di lui. Horus ordinò subito a Iside e Nefti di afferrare Osiride e di impedirne l’annegamento (cioè, l’immersione). Esse lo accolsero in tempo e lo portarono a terra. Entrò nei portali nascosti nella gloria dei signori dell’eternità, sui passi di colui che sorge all’orizzonte, sulle vie di Re il Grande Trono. Entrò nel palazzo e si unì agli dèi di Ta-tenen Ptah, signore degli anni.
Così Osiride entrò nella terra presso la Fortezza Reale, a nord della terra in cui era giunto. Suo figlio Horus sorse come re dell’Alto Egitto, sorse come re del Basso Egitto, nell’abbraccio di suo padre Osiride e degli dèi davanti e dietro di lui.
Nelle pagine seguenti analizzeremo il testo e le sue correlazioni con le altre principali cosmogonie egizie, nonché con il racconto di Genesi che, in alcuni punti, sembra riprendere concetti tratti dalle fonti faraoniche.
Proseguiamo, quindi con un’analisi puntuale della Pietra di Shabaka.
Il testo comprende due suddivisioni principali completate da una breve introduzione e un riassunto finale, in tutto quattro sezioni.
La prima parte riguarda l’unificazione dell’Alto e del Basso Egitto. Ptah (che incorpora l’Atum eliopolitano) opera attraverso Horus per realizzare questa unificazione.
La seconda ci narra un mito sulla creazione del mondo, la “Teologia menfita” o “Cosmogonia menfita” che stabilisce che Ptah è il creatore di tutte le cose, compresi gli dèi.
Il testo sottolinea che è a Memphis che ha avuto luogo l’unificazione dell’Egitto. L’iscrizione afferma anche che questa città è stata il luogo di sepoltura di Osiride, dopo che è andato alla deriva.
Questo particolare risulta della massima importanza.
A ribadire lo stretto legame tra regalità e mito di Osiride Seti I, padre di Ramses II e vero fondatore della regalità della XIX Dinastia, nel costruire il bellissimo tempio di Abydos, celebre per la sua lista di faraoni, fece inserire nella struttura un anche un Osireion, un cenotafio del dio Aser che fungeva da porta per il Duat.
Ma torniamo al testo.
Introduzione e titolazione reale
La prima riga della pietra presenta il quintuplice titolo reale del re:
– Horus vivente: Sebaq tawy – Che ha benedetto le Due Terre;
– le Due Signore: Sebaq tawy – Che ha benedetto le Due Terre;
– Horus d’oro: Sebaq tawy – Che ha benedetto le Due Terre;
– Re dell’Alto e del Basso Egitto: Neferkare;
– Figlio di Ra: [Shabaka], amato da Ptah-Sud-del-Suo-Muro, che vive come Ra per sempre.”
I primi tre nomi sottolineano la manifestazione del re come dio vivente (in particolare dell’Horus dalla testa di falco, dio protettore della stirpe reale), mentre gli ultimi due nomi (il nome del trono del re e il nome di nascita) si riferiscono al potere del faraone sull’Egitto, come suddiviso in Alto e Basso e come regno unificato dal potere del sovrano.
La seconda riga, un’introduzione dedicatoria, afferma che la pietra è una copia del contenuto superstite di un papiro mangiato dai vermi che Shabaka trovò mentre ispezionava il Grande Tempio di Ptah.
Tre indizi in questa prima sezione ci mostrano quanto importante fosse per il faraone nero di collegare la sua pretesa al trono alla santità di Memphis e della sua teologia.
Il primo è l’assunzione di Neferkare (Perfetto è il ka di Ra) come nome del trono o, in lingua originale, quale nome di nisu-bity, cioè del giunco e dell’ape, i simboli dell’Alto e Basso Egitto.
Non è un caso. Neferkare fu il Nome del Trono adottato da Pepi II, il celebre ultimo (o penultimo faraone) della dinastia che chiuse l’Antico Regno, la VI.
L’Antico Regno, con il fascino suscitato dalle sue conquiste in ogni campo tra cui le piramidi, rappresentò per tutte le dinastie successive, piccole o grandi che fossero, un’età dell’oro e una pietra di paragone fondamentale.
Il regno di Pepi II, considerato il più lungo di tutti i tempi perché durato ben 94 anni, rappresentava nella storia (forse un po’ mitizzata) della Khemet una sorta di apogeo del potere regale.
Il secondo indizio risiede sempre nella titolatura di Shabaka e precisamente nel suo none di sa-ra, il nome di nascita.
Nelle sue titolature rinvenute in altri luoghi, il nome Shabaka appare da solo o, al massimo, come Shabaka mery-Amun (amato da Amun) in omaggio a quella che a quell’epoca era considerata la divinità dominante nella sua unione con Ra, mentre nell’iscrizione menfita egli si presenta come “ (Shabaka) amato da Ptah-Sud-del-Suo-Muro, che vive come Ra per sempre.”
Risulta evidente che questo titolo ad hoc sia stato adottato per ribadire gli strettissimi legami tra il monarca e il tempio di Memphis, tra la sua regalità e la divinità del dio creatore Ptah-Atum.
Ma si va oltre. Il faraone nubiano vuole giustificare il suo diritto al trono, difficilmente ricollegabile alle dinastie precedenti sul piano della consanguineità, attraverso l’incuria e l’abbandono delle giuste tradizioni da parte degli egiziani “autoctoni”.
Il grande faraone ispezionando il tempio, avrebbe rinvenuto un papiro “mangiato dai vermi” contenente la teologia menfita.
Il topos letterario della “scoperta” e dell’incuria degli eredi della grandezza passata, giustificano le pretese del re venuto dalla Nubia che va a riempire un vuoto di potere e, soprattutto, a combattere l’empietà delle generazioni presenti.
L’unificazione dell’Egitto
Le righe da 3 a 47 descrivono l’unificazione dell’Alto e del Basso Egitto sotto il dio Horus a Memphis.
Il testo dichiara innanzitutto la supremazia politica e teologica del dio Ptah, re sia dell’Alto che del Basso Egitto e creatore dell’Enneade. L’iscrizione descrive poi come Horus, in quanto manifestazione di Ptah, regni inizialmente sul Basso Egitto mentre il suo rivale Set governa l’Alto Egitto.
Tuttavia, Horus riceve l’Alto Egitto da Geb, diventando l’unico sovrano della terra.
La cosmogonia menfita
Le righe da 48 a 64 raccontano il mito della creazione noto come teologia menfita.
Ptah, il dio patrono degli artigiani, dei metallurgici, degli artigiani e degli architetti, era visto come un dio creatore, l’artefice divino dell’universo, responsabile dell’intera esistenza.
La creazione fu dapprima un’attività spirituale e intellettuale, facilitata dal cuore (pensiero) e dalla lingua (parola) divini di Ptah. Poi, la creazione divenne un’attività fisica svolta da Atum, che, creato dai denti e dalle labbra di Ptah, produsse l’Enneade dal suo seme e dalle sue mani.
Riassunto
Le righe da 61 a 64 riassumono il testo nel suo complesso.
I miti relativi alla creazione del cosmo nell’antico Egitto appaiono in diverse fonti: I testi delle piramidi, i testi dei sarcofagi, il libro dei morti, la teologia menfita, nonché in vari inni, testi sapienziali e bassorilievi murali.
Queste fonti dimostrano che la cosmologia egizia possiede una base uniforme ed è allo stesso tempo diversificata. Sebbene esistano quasi una dozzina di miti della creazione egizi, i tre principali sono sorti nei siti cultuali di Eliopoli, Memphis ed Ermopoli.
Questi tre miti sono interconnessi l’uno con l’altro, come dimostra l’apparizione delle stesse divinità in più di una tradizione. Le cosmogonie di Eliopoli e Memphis hanno più punti in comune tra loro che con quella di Ermopoli.
Tuttavia, tutte e tre ci mostrano un comune riferimento ad un oceano primordiale, ad una collina primordiale e alla divinizzazione della natura.
Queste tre cosmogonie si occupano specificamente di come il dio o gli dèi hanno creato il mondo.
Non affrontano direttamente la creazione degli uomini e degli animali.
Gli Egizi svilupparono una tradizione separata per spiegare la creazione degli uomini e degli animali, ovvero il mito di Khnum, il dio vasaio.
Vediamo ora più nel dettaglio le tre maggiori tradizioni egizie sulla creazione del mondo:
ELIOPOLI
Eliopoli fu una delle più antiche città dell’antico Egitto, occupata fin dalla preistoria. Si espanse notevolmente sotto l’Antico e il Medio Regno, ma oggi è in gran parte distrutta: i suoi templi e altri edifici sono stati recuperati per la costruzione del Cairo medievale.
Eliopoli è la forma latinizzata del nome greco Ἡλιούπολις, che significa “Città del Sole”.
Helios, la forma personificata e divinizzata del sole, era identificato dai Greci con le divinità egizie Ra e Atum, il cui culto principale era situato nella città.
Il suo nome nativo era iwnw (I pilastri), la cui pronuncia esatta è incerta perché l’antico egizio registrava solo valori consonantici. La sua trascrizione egittologica tradizionale è Iunu, ma in ebraico biblico compare come ʾŌn (אֹ֖ן,אֽוֹן), e ʾĀwen (אָ֛וֶן) . Il nome è sopravvissuto come copto ⲱⲛ ŌN.
La città compare anche nei Testi delle Piramidi dell’Antico Regno come “Casa di Ra”.
Proprio i Testi delle Piramidi contengono le prime espressioni cosmogoniche conosciute degli Egizi.
I sacerdoti del tempio di Eliopoli registrarono questi testi geroglifici all’interno delle piramidi di Unis, Teti, Pepi I, Merenre I, Pepi II (faraoni delle dinastie V e VI).
Non dimentichiamo che tutte queste sepolture sono situate nella Necropoli di Saqqara, e che Eliopoli e Memphis, citta’ non molto distanti tra loro, gravitavano entrambe sullo stesso luogo sacro per il culto dei defunti, Saqqara per l’appunto.
In questi testi possiamo leggere la cosmogonia eliopolitana.
A Eliopoli, nove divinità costituiscono la Grande Enneade.
Atum funge da dio creatore da cui hanno origine le altre otto divinità. Il testo della piramide n.1655 elenca gli dèi della Grande Enneade e riconosce Atum come padre degli altri otto.
Si legge: “O voi Grande Enneade che siete su On (Eliopoli), (cioè) Atum, Shu, Tefnut, Geb, Nut, Osiride, Iside, Seth e Nefti; o voi figli di Atum, estendete la sua benevolenza a suo figlio nel vostro nome di Nove Archi (i paesi stranieri nemici dell’Egitto)”.
Atum sorge per primo dalle acque primordiali (personificate come Nun) da cui emerge anche la collina primordiale.
Si posiziona sulla collina primordiale e inizia la sua opera di creazione. Non avendo una consorte, si masturba per far nascere altri dei che lo assistano nella sua opera.
Il testo della piramide 1248 descrive graficamente questo evento. “Atum si è evoluto crescendo in modo itifallico, a Eliopoli. Si mise in mano il pene per poter raggiungere l’orgasmo con esso, e nacquero i due fratelli – Shu e Tefnut”.
Tuttavia, i testi delle piramidi 1652 e 1653a descrivono l’evento senza linguaggio erotico: “Atum Scarabeo! Quando sei diventato alto, come una collina, quando ti sei alzato, come il benben (la collina primigenia che emerse dall’oceano primordiale del Nun, e sulla quale il dio creatore Atum generò sé stesso e la prima coppia divina, poi trasformatasi in piramide) nel recinto della Fenice a Eliopoli, hai starnutito Shu, hai sputato Tefnut”
Dal suo starnuto o dal suo sputo hanno origine Shu e Tefnut che divinizzano rispettivamente l’aria e l’umidità. Poi, Shu e Tefnut copulano e producono Geb, la terra, e Nut, il cielo. Geb e Nut generano a loro volta cinque figli: Osiride, Iside, Horus il Vecchio, Set e Nefti.
Tuttavia, Horus il Vecchio[10] (Heru-Wer, chiamato così per distinguerlo dal figlio di Iside e Osiride, Heru-sa-Aset) non diventò mai un membro della Grande Enneade. Invece, insieme a Thot, Maat, Anubi e altre divinità non chiaramente identificate, fu incluso nella Piccola Enneade o Enneade Minore.
MEMPHIS
Abbiamo già descritto la Pietra di Shabaka, fonte principale della famosa Cosmologia menfita.
I teologi menfiti presero come fondamento del loro mito la Grande Enneade di Eliopoli e la modificarono secondo la loro peculiare visione
Ptah apparentemente sostituì Atum come dio creatore, ma quest’ultimo non scomparve dalla nuova teologia. L’Atum divenne il cuore (comprensione) e la lingua (parola) di ‘Ptah il Grande’, come a sua volta Ptah fu definito il cuore e la lingua dell’Enneade.
Ptah (cioè Atum) venne rappresentato come l’enneade in emanazione e manifestazione. Così, le altre otto divinità dell’enneade menfita non potevano che essere che Ptah stesso in manifestazione.
La riga 55 della Pietra di Shabaka sostiene tale visione e rivela che Ptah crea con la parola divina.
Si legge: “La sua Enneade (di Ptah) è davanti a lui come denti e labbra. Sono il seme e le mani di Atum. Infatti, l’Enneade di Atum è nata attraverso il suo seme e le sue dita. Ma l’Enneade è costituita dai denti e dalle labbra di questa bocca che ha pronunciato il nome di ogni cosa, da cui sono usciti Shu e Tefnut, e che ha dato vita all’Enneade”.
In questo testo, l’opera creativa di Ptah attraverso la parola viene contrapposta alla creazione effettuata dall’Atum attraverso la masturbazione, e il metodo di Ptah viene mostrato come la vera causa dietro il metodo di creazione di Atum.
La teologia menfita non raffigura Ptah mentre usa la magia (heka) per creare il mondo.
Il creatore divino non è immaginato come un mago che recita i suoi incantesimi; è visto come colui che prima ha concepito nella sua mente ciò che doveva essere creato per formare il mondo, e poi lo ha fatto nascere pronunciando il comando necessario perché il mondo venisse all’esistenza.
ERMOPOLI
Nella città di Ermopoli[11] fu concepita la cosmogonia dell’Ogdoade, composta da quattro divinità e dalle loro rispettive consorti: Nun e Naunet, Keku e Kauket, Hehu e Hauhet, Amun e Amaunet.
Ognuna delle quattro dee riceve il suo nome dalla forma femminile del nome della sua controparte maschile.
Queste divinità rappresentano le quattro condizioni presenti all’inizio della creazione egizia e sono molte le interpretazioni che gli studiosi hanno offerto su tali figure.
Questa è una delle più popolari:
Nun e Naunet personificherebbero le acque primordiali.
Nun avrebbe incarnato l’oceano primordiale e Naunet, sua consorte, avrebbe dominato l’abisso che giaceva sotto l’oceano primordiale. Per qualcuno, al contrario, Naunet sarebbe la divinità dell’oceano di sopra, con riferimento al successivo concetto biblico di shamayim.
Keku e Kauket personificherebbero l’oscurità che accompagnava lo stato primordiale.
Hehu e Hauhet sarebbero il simbolo dell’assenza di confini e di forma della condizione primordiale.
Amun e Amaunet presentano qualche difficoltà ulteriore nell’accertare il loro significato preciso.
C’è chi ha suggerito che “Amun” derivi dalla radice mn che significa “nascosto”.
Sebbene Amun sia stato identificato già durante il Medio Regno con il dio del sole Ra, in origine era conosciuto come il dio dell’aria e del vento.
Si può notare un’associazione tra l’aria e il vento e l’idea di “nascosto” o “non visibile,” di forza invisibile dotata però di grande potenza, come dimostrano le tempeste tipiche del deserto egiziano.
In tale ottica Amon e Amaunet personificherebbero l’aria e il vento nascosti che avrebbero sferzato l’oceano primordiale.
Altri hanno sottolineato il mutevole ruolo di Amon e la sua diversa funzione nell’Ogdoade, in riferimento alle successive letture simboliche del dio. Amon potrebbe quindi essere stato concepito in tempi successivi come l’elemento dinamico del caos, la molla della creazione, il soffio della vita nella materia morta.
Ma questa non sarebbe stata la concezione originale, che semplicemente, per mezzo dell’Ogdoade e dei suoi diversi elementi, avrebbe reso il caos primordiale più specifico, più adatto a essere compreso.
Riuniti sull’Isola delle Fiamme gli Otto avrebbero fatto misteriosamente emergere il dio Sole dalle acque, e con ciò la loro funzione sarebbe stata assolta.
DIFFERENZE TRA LE TRE COSMOGONIE EGIZIE
Le tre cosmogonie di Eliopoli, Memphis ed Ermopoli presentano somiglianze e differenze. A volte le differenze creano contraddizioni nella mente del lettore moderno.
Tuttavia, queste contraddizioni tra le tre tradizioni e persino all’interno delle stesse tradizioni non costituivano un problema per gli antichi egizi.
Se c’è una cosa che abbiamo imparato attraverso oltre due secoli di studi di egittologia, è la grande capacità degli abitanti della Khemet nel sincretizzare divinità diverse tra loro e di trovare somiglianze e convergenze anche in presenza di apparenti contraddizioni.
Si prendano due macro-concetti come maat e heka con le relative divinizzazioni; si prenda la figura sincretizzata di Amon-Ra e tante altre, ovvero la sovrapposizione dei due Horus etc.
Si pensi, inoltre alle diverse triadi cultuali sul modello padre-madre-figlio/a (n esistevano oltre 15) che caratterizzavano e diversificavano tra loro i diversi distretti (nomi), quali la triade menfita (Ptah, Sekhmet dea leonessa della guerra e della pestilenza e Nefertem dio del loto e della guarigione), la triade tebana (Amon, Mut la dea avvoltoio del cielo e Khonsu dio lunare della fertilità) o la celebre triade di Abydos (Osiride dio della morte, dell’Oltretomba e della rinascita, Iside dea dell’amore, della luna e della magia e Horus dio falco solare, protettore della monarchia).
Per gli antichi Egizi questa complessità simbolica era tutt’altro che caotica; al contrario rappresentava una ricchezza ed un modo per diversificare le varie aree del territorio attribuendo importanza a ciascuna di esse.
Al di là delle discussioni nominalistiche erano i domini funzionali delle varie divinità ad interessare gli Egizi, come dimostrano tutti i diversi titoli e rappresentazione derivanti dal culto solare,
SOMIGLIANZE TRA LE TRE COSMOGONIE EGIZIE
Dallo studio delle varie testimonianze relative alla concezione egizia della creazione, emergono tre concetti comuni che conferiscono unità alle storie della creazione, altrimenti diverse. Tutte le storie di creazione condividono la credenza in un oceano primordiale, in una collina primordiale e nella deificazione della natura.
Questi concetti trovano rappresentazione in ciascuno dei siti templari dell’antico Egitto.
LA CREAZIONE DELL’UOMO NELLE COSMOGONIE EGIZIE
Gli egizi consideravano la creazione del mondo come un atto creativo separato dalla creazione dell’uomo.
Mentre le cosmogonie di Eliopoli, Memphis ed Ermopoli trattano dell’origine del mondo, la creazione degli uomini e degli animali riceve poca attenzione.
Le tre principali cosmogonie egizie si concentrano principalmente sulla condizione dello stato primordiale, sull’origine degli dèi e sulla creazione del cielo, della terra e del sole.
Per quanto riguarda gli altri aspetti, come abbiamo sopra specificato esistevano triadi modellate sul modello della generazione umana che potevano far pensare ad una “procreazione” degli esseri viventi, ma e soprattutto, era diffusissimo il mito di Khnum il dio vasaio.
LA TRADIZIONE DELLA CREAZIONE DI KHNUM
Mentre la creazione di uomini e animali riceve poca attenzione nelle principali cosmogonie, le testimonianze egizie sulla creazione dell’uomo non mancano.
In effetti, una delle scene più familiari dell’arte egizia è quella di Khnum, il dio dalla testa d’ariete, che modella una persona dall’argilla sul tornio del vasaio.
Khnum ha la particolarità di essere una delle prime divinità egizie conosciute. Il suo nome e le invocazioni che lo menzionano sono state scoperte in alcuni dei più antichi monumenti e scritti egizi.
Non a caso il suono nome è stato letto in relazione a radici che significherebbero “unire,” “ congiungere” ma anche “costruire”.
Il suo ruolo era altrettanto importante: in primo luogo era considerato il dio della sorgente del Nilo e, come tutti sappiamo, il Nilo era il cuore pulsante dell’intera civiltà egizia antica; in secondo luogo, era visto come il creatore dell’umanità e degli altri esseri viventi.
Il culto del dio è addirittura predinastico e i luoghi a lui maggiormente dedicati furono Elefantina ed Esna, ove Khnum era visto far parte di una sua specifica triade ed era riverito come dio creatore dell’intero universo, divinità comprese: Khnum, Satet dea della guerra e delle inondazioni del Nilo e Anuket dea delle cataratte[12].
Nel celebre tempio di Deir el Bahari, il faraone donna Hatshepsut (XVIII Dinastia – Nuovo Regno) fece scolpire su una delle pareti un rilievo che raffigura Khnum che modella lei e il suo ka dall’argilla sul tornio del vasaio.
Khnum crea uomini e animali sul suo tornio usando il limo del Nilo, cioè l’argilla e non un’argilla qualsiasi ma quella lasciata dalle inondazioni vivificanti del fiume divino.
Dopo aver modellato una persona, la sua consorte Heket (considerata anche lei moglie del dio come Satet) offre il “soffio della vita”, simboleggiato dall’ankh, al naso della figura di argilla.
Questo anima l’effigie d’argilla e la persona riceve una durata di vita assegnata, personificata come Shay, che significa “ciò che è stato (pre)ordinato”.
Nell’ultima parte di questo scritto ci domanderemo se e in che misura queste concezioni possano aver influenzato il testo di Genesi e procederemo alle necessarie conclusioni.
In questa ultima parte esamineremo i parallelismi tra la cosmologia egizia e il racconto della creazione di Genesi 1-2
Le seguenti caratteristiche della cosmologia egizia condividono aspetti con i racconti della creazione contenuti in Genesi:
– la capacità degli Egizi di avere visioni apparentemente contraddittorie degli eventi della creazione allo stesso tempo,
– i mezzi impiegati dagli dèi creatori nella loro creazione
– la condizione dello stato primordiale all’inizio della creazione.
Adesione a visioni apparentemente contraddittorie della creazione
Il fatto che gli Egizi sostenessero almeno tre diversi racconti della creazione contemporaneamente, senza preoccuparsi delle contraddizioni, può dare una risposta alle due diverse narrazioni della creazione nella Genesi.
Gli studiosi della Torah si sono a lungo confrontati con la presenza di due racconti della creazione nella Genesi.
Come già notato, gli Egizi all’interno delle loro tre principali cosmogonie riconoscevano la creazione per masturbazione (auto-copulazione), attraverso la parola divina e mediante l’opera dell’artefice come avviene per l’azione del vasaio sull’argilla.
Solo due dei tre metodi di creazione presenti nella tradizione egizia mostrano un parallelo con quelli utilizzati da Hashem nella Torah.
In Genesi 1:1-2:3, Hashem crea attraverso la parola divina.
In Genesi 2:4-25, Hashem crea modellando: D-o piantò un giardino, formò l’uomo e formò gli animali.
La creazione per masturbazione (auto-copulazione) apparentemente non trova paralleli nella tradizione ebraica.
Immaginare Hashem in un tale atto di creazione, considerato un peccato grave nella tradizione ebraica, sarebbe stato inconcepibile, anche solo per la necessaria antropomorfizzazione della divina persona che sarebbe implicita in tale gesto, tema assai scottante ma che esula dagli scopi di questo breve studio.
Gli dèi egizi sono normalmente rappresentati anche come antropomorfi, oltre che teriomorfi e con simbolismi ancora più astratti, ad Hashem solo rarissimamente vengono attribuiti tali caratteri antropomorfi come avviene nel celeberrimo brano di Esodo 33:21-23.
“21 E il Signore disse: «Ecco qui un luogo vicino a me; tu starai su quel masso; 22 mentre passerà la mia gloria, io ti metterò in una fessura del masso, e ti coprirò con la mia mano finché io sia passato; 23 poi ritirerò la mano e mi vedrai da dietro; ma il mio volto non si può vedere».”
Ma a ben vedere la generazione per masturbazione, seppure peccaminosa e che crea anime assai potenti ma peccaminose (quantomeno sino alla redenzione finale) è presente anche nella tradizione kabbalistica e precisamente negli scritti dell’Arizal, anche se tale generazione viene necessariamente attribuita a Adam Rishon (Adamo il Primo Uomo) e non all’Essere Supremo.
Leggiamo, quindi dagli insegnamenti di Rabbi Yitzchak Luria (in corsivo), tradotti e commentati da Moshe Yaakov Wisnefsky:
“Il significato di Pesach e dell’esodo dall’Egitto [è il seguente]:
Come sapete, le prime [generazioni dell’umanità] costrinsero la presenza divina a salire [dal mondo fisico] al settimo cielo, a causa dei [loro] peccati. (Bereishit Rabba 19:7; Etz Chaim 36:2)
– Adamo ed Eva fecero salire la presenza divina dal mondo fisico al primo [cioè, al più basso] cielo quando mangiarono il frutto dell’albero della conoscenza.
– Caino fece salire la presenza divina dal primo al secondo cielo quando uccise suo fratello Abele.
– La generazione di Enoc fece salire la presenza divina al terzo cielo quando introdusse l’idolatria nel mondo.
– La generazione del diluvio fece salire la presenza divina al quarto cielo a causa dei loro peccati nei confronti dei loro simili e di quelli sessuali.
– La generazione della torre di Babele fece salire la presenza divina al quinto cielo dichiarando guerra a D-o.
– La generazione di Sodoma fece salire la presenza divina al sesto cielo a causa dei suoi peccati.
– Gli egiziani della generazione di Abramo fecero salire la presenza divina al settimo cielo.
Le [anime degli] ebrei della generazione che fu in esilio in Egitto derivano dalle gocce di sperma che Adamo emise durante i 130 anni in cui fu separato da sua moglie. (Eruvin 18b; Zohar 1:55a)
Dopo che Adamo ed Eva ebbero mangiato del frutto dell’albero della conoscenza, D-o li informò che loro e la loro progenie sarebbero morti.
In preda al rimorso per aver portato la morte nel mondo, Adamo cercò di pentirsi e di correggere il suo peccato.
Come parte di questo processo, e poiché pensava che non ci fosse alcuno scopo nel mettere al mondo dei figli se questi erano comunque destinati a morire, si separò da Eva.
Solo 130 anni dopo si rese conto dell’erroneità della sua logica, perdendo una discussione con le mogli di Lamech.
Durante questi 130 anni di celibato, Adamo non fu apparentemente in grado di controllarsi completamente e commise il peccato di spreco di seme.
In precedenza, si erano incarnati come la generazione del diluvio, che era solita spargere il proprio seme sul terreno, in quanto derivavano dalla stessa origine. (Zohar 1:56b, 66b)
La generazione del diluvio fu la prima incarnazione delle gocce di seme sprecate di Adamo.
Essendo la prima “generazione” di questo seme mal concepito, la loro composizione spirituale era fortemente predisposta alla stessa mentalità che li aveva prodotti. Pertanto, commisero lo stesso peccato che questa mentalità portò.
Alla fine, furono spazzati via. Questo è il significato mistico del versetto (Gen. 6:5), “E D-o vide che la malvagità dell’uomo era grande”, perché lo spreco di seme è chiamato “malvagio”, e chi spreca il suo seme è anche chiamato “malvagio”, come si legge nello Zohar (1:57a) in riferimento al versetto, “il malvagio non rimarrà con Te”. (Salmi 5:5)
Ne consegue che la generazione del diluvio fu veramente il male di Adamo. Questo è anche il significato mistico dell’affermazione di D-o prima del diluvio: “Cancellerò l’uomo che ho creato”. (Gen. 6:7)
Poiché il nome Adamo significa semplicemente “uomo”, l’affermazione “E D-o vide che il male dell’uomo era grande” può essere letta “E D-o vide che il male di Adamo era grande”, cioè D-o vide che [questa generazione, l’incarnazione fisica delle anime prodotte dalla malvagia [emissione di seme] di Adamo, stava [peccando] molto [proprio come lui].
Allo stesso modo, la frase del versetto successivo, “cancellerò l’uomo che ho creato”, può essere letta come “cancellerò Adamo, che ho [personalmente] creato”, il che significa che D-o aveva intenzione di cancellare la generazione perché era un’incarnazione del peccato di Adamo stesso.
In seguito, si reincarnarono nella generazione della dispersione. [Questa generazione, quella della Torre di Babele, è anche indicata come la progenie di Adamo, come è scritto: “E D-o scese”] per vedere la città e la torre che i figli dell’uomo avevano costruito”, cioè la progenie diretta di Adamo, reincarnazione delle sue emissioni seminali. (Gen.11:5)
Anche qui, “i figli dell’uomo” può essere letto come “i figli di Adamo”.
[Erano solo figurativamente i suoi “figli”], poiché derivavano dalle emissioni seminali del maschio senza la femmina. Anche loro hanno peccato.
Dopo [queste due incarnazioni,] dovevano essere purificati. Infatti, come vi ho già detto (Likutei Torah negli scritti dell’Arizal su Ezechiele), erano anime sante e potenti, ma la presa del male le ha rovinate. Una volta purificate e liberate dalla malattia dell’impurità, si sarebbero manifestate come anime sante. Come sapete, sono proprio le anime più sante che il male cerca di afferrare.”
Riassumendo, secondo questo indirizzo kabbalistico esisterebbe una categoria “speciale” di anime potenti e peccaminose, ma con il potenziale per raggiungere la santità più elevata, anime che si reincarnerebbero nei momenti di maggior crisi, tanto che i kabbalisti chassidici ritengono che tali spiriti siano presenti oggi in questo mondo fortemente in crisi nell’imminenza dell’arrivo di Moshiach, del Messia.
Si deve osservare, inoltre, lo strano potere creativo di Adam Rishon, il cui sperma “genera” tali anime speciali e particolari … e qui mi fermo, in quanto detto tema richiede una trattazione autonoma per la sua importanza.
Tornando alla teologia menfita, la creazione di Ptah mediante la parola divina sostituisce l’auto-copulazione di Atum come forza causale dell’attività dell’Atum medesimo.
È interessante notare che queste due forme di creazione (parola divina e masturbazione) trovino espressione nella teologia menfita senza che l’una sia vista quale antitetica all’altra.
Al contrario, si completano a vicenda. Si potrebbe vedere la relazione tra Ptah e Atum rispettivamente come quella che intercorre tra creatore e demiurgo.
Ptah inaugurò la creazione con il pensiero e la parola che sono elementi immateriali tipici del creatore, mentre Atum realizzò la creazione sensibile, cioè quella materiale, realizzando la funzione del demiurgo.
In altre parole, i teologi di Ptah unirono i due concetti di azione materiale tipica dell’artigiano/demiurgo e di (pensiero) parola creatrice in un’unica teoria della creazione.
Un processo simile si verifica nel racconto della creazione in Genesi 1:1-2:3. In alcuni casi, nel corso del racconto, D-o dichiara prima il suo desiderio: “Sia…” e poi crea mediante la parola ciò che desidera.
La differenza tra Genesi 1:1-2:3 e la teologia menfita sta nel fatto che Hashem impiega entrambi i mezzi di creazione senza l’aiuto di un altro dio.
Per esempio, in Genesi 1:6 D-o dice: “Ci sia una distesa (רָקִ֖יעַ rā-qî-a‘) in mezzo alle acque che separi le acque dalle acque”.
Alcuni traducono rakia con “firmamento”, ma in realtà si può preferire di rendere il termine con “distesa” quale “spazio vuoto” in quanto il termine “firmamento” può essere confuso con Shamayim, cioè con le acque di sopra, mentre qui si parla di una separazione che crea un vuoto, cioè dell’espansione di uno spazio che non esisteva in precedenza.
Poi, in Genesi 1:7, Dio crea la distesa stessa (ha-rakia) dicendo: “E Dio fece la distesa e separò l’acqua che era sotto la distesa dall’acqua che era sopra la distesa; e così fu”.
I metodi della creazione
Come già detto, nella teologia menfita Ptah crea il mondo con la parola divina. Ciò forma un parallelo unico tra Genesi 1:1-2:3 e la cosmologia egizia, in quanto la dottrina della creazione in risposta a un comando divino pur essendo diffusa nella letteratura egizia, non sembra reperibile nelle corrispondenti cosmologie babilonesi.
Mentre Khnum crea l’uomo sul suo tornio da vasaio, Hashem crea l’uomo formandolo dalla terra.
Sebbene D-o non sia esplicitamente chiamato vasaio nel racconto di Genesi, l’incipit di 2:7 con la presenza del verbo waYtzer (qd in antico egizio) “formare, modellare” che è la radice di yatzar (iqdw in a.e.) “vasaio,” suggerisce implicitamente che D-o sia visto come un vasaio anche nella narrazione biblica.
Inoltre, il topos relativo a “Dio come vasaio e l’uomo come argilla” ricorre in modo anche più esplicito nelle Scritture, specialmente in Geremia 18:2-9 o nel Libro di Giobbe 10:8-9.
Apriamo una parentesi.
La creazione dell’uomo a “immagine e somiglianza di D-o” non è affatto estranea alle concezioni tipicamente egizie, derivanti dalla credenza che il primo dio primordiale generasse figli “dal suo corpo”, portando così le sue sembianze.
In particolare, uno dei testi più importanti di tutta la letteratura faraonica, il trattato sapienziale della X dinastia detto “Istruzioni per Merikare”[13], afferma che l’uomo è “l’immagine del Dio creatore”. Il termine somiglianza, Snnw, deriva dalla parola che significa “secondo”, quindi “somiglianza”, “immagine”, ed è spesso scritto assieme al determinativo “statua”.
Per inciso, in Egitto anche le statue erano considerate esseri viventi in certe condizioni.
“Gli uomini, il bestiame del dio, sono ben diretti. Ha fatto il cielo e la terra secondo il loro desiderio, ha respinto il mostro delle acque. Ha fatto il soffio della vita (per) le loro narici. Coloro che sono usciti dal suo corpo sono le sue immagini [snnw]. Egli sorge in cielo secondo il loro desiderio. Ha creato per loro piante, animali, uccelli e pesci per nutrirli.” (Istruzioni per Merikare linee 131-133)
Sia il testo egizio che quello ebraico utilizzano l’espressione “soffio di vita” per descrivere la forza vitale che la divinità infonde nelle narici della figura di argilla.
Tuttavia, esiste una differenza notevolissima tra le due tradizioni.
I rilievi egizi di solito ritraggono due divinità coinvolte nella creazione dell’uomo. Una crea l’uomo e l’altra immette il soffio vitale, rappresentato dall’ankh, nelle narici.
Nella tradizione ebraica, Hashem svolge entrambe le funzioni, in espressa contrapposizione con il politeismo (vero o non così completamente vero, a seconda degli studiosi) dell’antica mitologia egizia.
Un punto importante.
– Sembra che le tradizioni di creazione di Eliopoli, Memphis ed Ermopoli siano parallele al primo racconto della creazione nella Genesi, avendo come fulcro la creazione del mondo in generale.
– La tradizione della creazione di Khnum in apparenza traccia un parallelo con il secondo racconto della creazione nella Genesi, concentrandosi sulla creazione dell’uomo in particolare.
La condizione primordiale
La visione egizia dello stato primordiale può contribuire ad aumentare la comprensione ebraica delle condizioni menzionate in Genesi 1:2.
Alcuni scienziati hanno ipotizzato negli stati primordiali della formazione del pianeta la presenza di una calotta d’acqua da cui sarebbe nata l’umidità presente nell’atmosfera.
Immaginare la creazione del mondo nella Genesi da un punto di vista scientifico moderno li porta a vedere il mondo descritto in Genesi 1:2 come un gomitolo ricco di liquido da cui viene trasferita una porzione d’acqua che viene posta al di sopra della terra.
Gli Egizi vedevano la separazione delle acque come una bolla d’aria in mezzo all’abisso acquoso di Nun.
Secondo questa tradizione fu in questa bolla d’aria che sorse la terra (la collina primordiale).
Uno sguardo più attento a Genesi 1 rivela un concetto molto simile.
Genesi 1:1-2:3 descrive la collocazione della distesa (rakia) come “in mezzo alle acque”, cioè come spazio vuoto in mezzo ad una bolla d’acqua.
Questo dà l’idea della creazione di una bolla d’aria in mezzo agli abissi.
Dopo aver creato la distesa, D-o ordina all’acqua sotto il cielo di riunirsi in un unico luogo e di far apparire il terreno asciutto.
L’Ogdoade di Hermopolis, apparentemente la più lontana dal testo biblico, sembra invece suggerire concetti paralleli alle quattro condizioni presenti all’inizio della creazione in Genesi 1:2.
Alcuni studiosi biblici hanno notato le somiglianze tra le divinità dell’Ogdoade e le quattro condizioni presenti all’inizio della creazione in Genesi 1:2.
Anche alcuni egittologi concordano con i significati simbolici che sono stati assegnati a queste quattro coppie di divinità.
Sono stati suggeriti i seguenti parallelismi.
Nun/Naunet, l’oceano primordiale personificato, corrisponderebbe all’ebraico teHom “il profondo”.
Keku/Kauket, l’oscurità personificata che assiste allo stato primordiale, corrisponde all’ebraico veChoshech “oscurità”.
Hehu/Hauhet, gli dèi che riflettono l’illimitatezza e l’infinito, corrispondono all’ebraico tohu vabohu “informe e vuoto”.
Amun/Amaunet, aria e vento personificati, corrispondono all’ebraico Ruach, lo Spirito che può anche significare proprio il vento, l’aria in movimento e che kabbalisticamente fa muovere la nefesh verso l’anima evoluta, la neshama.
Il coinvolgimento di Amon, poi sincretizzato con la somma divinità solare in Amon–Re, nella tradizione della creazione a Hermopolis sembra essere parallelo al ruolo della Ruach o “vento di Dio” in Genesi 1:2.
All’inizio della creazione, la Ruach si libra sulle acque. Si potrebbe immaginare un vento potente che soffia sulle acque primordiali mettendole in movimento, stimolando così l’inizio al momento creativo.
I paralleli tra l’Ogdoade di Hermopolis e le condizioni presenti all’inizio della creazione in Genesi 1:2 possono suggerire ulteriormente che gli Ebrei e gli Egizi condividevano un concetto simile dello stato primordiale.
Tuttavia, esiste un netto contrasto.
Mentre gli Egizi personificavano gli elementi della natura, gli Ebrei vedevano il loro Dio come distinto dalla creazione.
Gli elementi dell’universo primordiale attendono il comando del Creatore piuttosto che agire con una volontà indipendente.
Inoltre, Atum–Re (rispettivamente dio creatore e dio sole) si è evoluto/creato dall’acqua preesistente.
Al contrario, Hashem è eternamente preesistente, è distinto dall’acqua primordiale e non si è creato da solo, in quanto proprio come sarà rivelato a Moshe Rabbeinu, Adonai melech, Adonai malach, Adonai yimloch l’olam va’ed, cioè D-o regna, D-o ha regnato, D-o regnerà nei secoli dei secoli.
Elementi critici verso la tradizione egizia presenti nei racconti di creazione della Genesi.
Alcune parti dei testi della creazione della Genesi non solo si discostano dalle concezioni egizie, ma rappresentano anche una critica nei confronti di tali concezioni.
Lo scopo di questo scritto non consente di elencare in modo esaustivo tutti questi elementi, che potrebbero essere visti in chiave polemica, presenti nei racconti della creazione della Genesi.
Tuttavia, ne verranno citati alcuni.
La creazione della luce da parte di D-o il primo giorno, prima della creazione dei luminari il quarto giorno, costituisce indubbiamente una demitizzazione di Atum–Re, la somma divinità solare.
Ciò dimostra che la fonte della luce non ha origine dal sole o dalla luna (cioè Re, il dio del sole, o Thoth, il dio della luna), ma dal D-o ebraico che è distinto dalla luce e dalla creazione della medesima.
Un altro elemento polemico si trova nel fatto che l’autore non nomina neppure il sole e la luna.
Si riferisce semplicemente a loro come “luce maggiore” e “luce minore”.
Se avesse voluto semplicemente demitizzare le due grandi luci luminari, avrebbe potuto usare l’ebraico shemesh “sole” e levanah “luna”.
Non nominando il sole e la luna, ci si allontana ulteriormente dal culto divino loro attribuito in Egitto.
Questi accenti critici presenti nei racconti della creazione della Genesi implicano che l’autore vedeva la necessità di far capire al suo pubblico che è Hashem e non le divinità egizie l’unico vero D-o e Creatore del mondo.
Ad esempio, una componente importante della narrazione dell’Esodo riguarda la battaglia tra Hashem e gli dèi egiziani (non dimentichiamo che il faraone stesso rappresenta il dio-sole incarnato).
Nel contesto dell’uccisione dei primogeniti in Egitto, Hashem dichiara in Esodo 12,12: “Contro tutti gli dèi dell’Egitto eseguirò dei giudizi”. Durante la nascita di Israele come nazione, gli Ebrei vedevano gli dèi egiziani, non quelli babilonesi, come opposti a Hashem.
Pertanto, una polemica sulla creazione che stabilisce Hashem come creatore al posto degli dèi egiziani sembra più plausibile di una che si oppone agli dèi babilonesi, proprio come è scritto nella Torah stessa.
Un fatto assai rilevante viste le intense relazioni (compresa la forzata cattività) intercorse tra popolo ebraico e Babilonia, proprio nel periodo storico considerato da molti studiosi fondamentale per la formazione del testo biblico come lo conosciamo oggi.
A maggior riprova di ciò, anche la presenza di due storie di creazione in Genesi potrebbe derivare dalla necessità degli Ebrei di confutare le due tradizioni di creazione egiziane, ossia la tradizione di come è nato il cosmo e la tradizione di come sono nati gli uomini e gli animali.
Una sola storia della creazione non sarebbe stata sufficiente per contrastare le opinioni degli egiziani, che vedevano la creazione dell’universo e la creazione dell’uomo in due modi distinti: la creazione per mezzo della parola divina e la creazione per mezzo della modellazione materiale.
Per poterli contrastare entrambi, erano forse necessari due racconti della creazione.
Genesi 1:1-2:3 ritrae Hashem mentre crea il cosmo con la sua parola. Sebbene la creazione dell’uomo e della donna diventi il coronamento della settimana di creazione di D-o, i dettagli di come li ha creati non vengono menzionati se non la loro creazione come immagine di D-o. Per un resoconto più dettagliato della creazione dell’uomo e della donna, il lettore deve consultare il secondo racconto della creazione della Genesi.
Genesi 2, 4-25 mostra D-o che crea l’uomo e gli animali dalla terra.
Egli forma l’uomo dalla terra e gli infonde il “soffio della vita,” la Ruach e a questo proposito vengono in mente le tante raffigurazioni dell’ankh che viene inserito nella bocca degli oranti.
Essa ricorre soprattutto nelle rappresentazioni di Anubi che dona la vita eterna ai defunti, un’immagine comunissima nell’iconografia dell’Antico Egitto.
Attraverso i due racconti della creazione, Hashem si dimostra superiore agli dèi dell’Egitto. Egli crea con la parola divina, pur rimanendo trascendente.
A differenza di Ptah, non deve incarnare la creazione per comandarla, né richiede l’assistenza di un altro dio o demiurgo.
È sufficiente che parli e/o agisca e la creazione è completata. Crea anche formando l’uomo dalla terra.
A differenza di Khnum, non richiede l’aiuto di una consorte. Crea l’uomo e gli infonde la vita. Così, attraverso i due racconti della creazione, Hashem dimostra la sua capacità di compiere tutti gli atti creativi degli dèi egizi, ma senza bisogno di entrare Lui stesso nella materia.
Conclusioni
Le argomentazioni sin qui esposte sembrano suggerire l’uso di immagini provenienti dalle cosmogonie egizie all’interno dei racconti di creazione in Genesi.
Con questo non vogliamo affermare nulla di particolare né aderire alle teorie che illustri studiosi, tra tutti Jan Assman nel suo Mosè l’Egizio e in tante altre opere, hanno voluto sostenere, in particolare sulle corrispondenze tra eresia amarniana ed ebraismo mosaico.
Senza voler minimamente entrare nell’aspetto religioso della questione, cioè quello dei principi della fede sia ebraica che cristiana, si è cercato di dar conto delle somiglianze tra le varie narrative egizie e il testo di Genesi.
Tuttavia, piuttosto che screditare tali racconti della creazione qualificandoli come un prestito diretto dalle credenze egizie, l’analisi sembra suggerire una profonda ed accurata conoscenza di prima mano delle varie cosmogonie della Khemet da parte del popolo ebraico, proprio come suggerisce la vicenda personale di Moshe Rabbeinu, principe egizio e quindi beneficiario di una educazione di altissimo livello in quella terra.
Questo risulta evidente dal testo stesso della Torah, ove alcune immagini sembrano molto simili a quelle della tradizione egizia, mentre altre dimostrano una chiarissima critica nei confronti di quei concetti che erano contrari alla Verità.
In conclusione, gli autori/redattori dei racconti della creazione della Genesi indubbiamente condividono alcuni concetti sulla creazione del mondo con altre culture del Vicino Oriente antico.
Poiché i concetti di creazione ebraico ed egiziano hanno più punti in comune tra loro rispetto a quelli ebraico e babilonese, ciò suggerisce che l’autore o il redattore dei racconti della creazione della Genesi possedesse una visione del mondo più vicina a quella egiziana che a quella babilonese.
Se il Pentateuco è stato scritto da Mosè che è stato educato nelle corti d’Egitto, l’uso di idee egiziane nel racconto della creazione della Genesi non dovrebbe certo sorprendere.
Infatti, è soprattutto con la visione del mondo dell’Egitto che gli autori/redattori di Genesi hanno familiarità.
Ne sono prova le numerose allusioni a motivi di creazione egiziani presenti nei racconti della creazione della Genesi.
Ma, piuttosto che essere un caso di prestito diretto, esse demitizzano i concetti egiziani e mostrano un atteggiamento critico nei confronti degli dèi egiziani.
Così avviene principalmente attraverso il riconoscimento di Hashem come unico vero Dio, trascendente e onnipotente, al contrario del variegatissimo pantheon egizio.
Nel racconto biblico Hashem esprime il suo desiderio di creare e lo realizza e non ha bisogno dell’assistenza di altri dèi per compiere gli atti necessari alla creazione.
Solo Lui possiede il potere e i mezzi necessari per realizzare la creazione del mondo e questa è la narrativa della Torah che chiaramente sia nel redattore (Moshe Rabbeinu, già principe egizio) che nel suo testo, presenta una relazione critica ma profondamente informata delle concezioni egizie.
Tale conclusione non appaia scontata.
La redazione finale della Torah è ampiamente considerata in ambito scientifico un prodotto del periodo persiano (539-333 a.C., probabilmente 450-350 a.C.). Questo consenso fa eco a una visione tradizionale ebraica che attribuisce a Esdra, il leader della comunità ebraica al suo ritorno da Babilonia, un ruolo centrale nella sua promulgazione.
L’ebraismo come religione basata sull’osservanza diffusa della Torah e delle sue leggi emerse per la prima volta nel 444 a.C. quando, secondo il racconto biblico fornito nel Libro di Neemia (cap. 8), uno scriba sacerdotale di nome Esdra lesse una copia della Torah mosaica davanti alla popolazione della Giudea riunita in una piazza centrale di Gerusalemme.
La maggior parte degli studiosi ha ritenuto che questa narrazione dovesse essere accettata come storica, perché appare plausibile, osservando che la credibilità della narrazione appare in modo evidente, mentre non vengono in mente argomentazioni che possano suggerire che le cose si siano svolte in modo differente.
Gli scritti rabbinici affermano che la Torah orale fu data a Mosè sul Monte Sinai, cosa che, secondo la tradizione dell’ebraismo ortodosso, avvenne nel 1312 a.C.
La tradizione rabbinica ortodossa ritiene che la Torah scritta sia stata registrata nei quarant’anni successivi, anche se molti studiosi ebrei non ortodossi concordano con il moderno consenso accademico secondo cui la Torah scritta avrebbe più autori e sia stata scritta nel corso di secoli, come proverebbe il caso del Deuteronomio, “trovato” dal buon Re Giosia come Shabaka trovò il papiro contenente la teologia menfita.
A questo proposito, il Talmud presenta due differenti opinioni su come esattamente la Torah sia stata scritta da Moshe.
Una ritiene che sia stata scritta da Moshe gradualmente, man mano che gli veniva dettata, e che l’abbia terminata quasi in punto di morte; l’altra ritiene che Moshe abbia scritto la Torah completa in un unico scritto vicino alla sua morte, basandosi su ciò che gli era stato rivelato nel corso degli anni.
Tutti i punti di vista rabbinici ortodossi ritengono che la Torah sia interamente mosaica e di origine divina.
Gli attuali movimenti ebraici riformisti e liberali rifiutano tutti la paternità mosaica, così come fanno la maggior parte delle sfumature dell’ebraismo “conservative”.
Comunque la si pensi, non appare confutabile l’enorme importanza che la sapienzialità egizia ha avuto per lo sviluppo delle radici del pensiero giudaico-cristiano e quindi per la formazione della cultura occidentale.
Risulta, quindi, totalmente comprensibile l’entusiasmo che gli intellettuali europei, anche in campo massonico, dimostrarono per la riscoperta di questo “antenato” andato perduto nel corso dei secoli.
A mano a mano che le complesse simbologie egizie venivano rinvenute, esse venivano nuovamente inserite all’interno di vari percorsi iniziatici, con il risultato di introdurre nuova linfa e rinnovato vigore in tali vie spirituali.
Risulta chiaro che molti concetti ci risultano ancora oscuri e che abbiamo quindi l’obbligo di porre attenzione al lavoro degli studiosi per adeguare rispettosamente le nostre tradizioni iniziatiche alle realtà emergenti dalla scienza.
Non si gridi allo scandalo. I nostri predecessori erano attentissimi proprio alle risultanze dei primi studi di Egittologia, sia prima della spedizione di Napoleone (si pensi all’Oedipus Aegyptiacus, somma opera dedicata all’Egitto da Athanasius Kircher) che dopo l’impresa del Bonaparte che scatenò in tutta Europa una vera frenesia per la Khemet.
Siamo ora in grado di rispondere con una certa sicurezza al quesito posto all’inizio di questo testo, cioè se Memphis e la sua tradizione, assieme a quella egizia in generale, abbiano ancora un credibile valore didascalico ed evolutivo, se non addirittura soteriologico, se inteso all’interno della necessaria Unicità, come ben sottolineato da Genesi, anche per l’uomo moderno, cioè per noi, e la risposta sembra essere largamente positiva.
Le radici stesse del nostro pensiero sono in pericolo in molti paesi dell’Occidente.
Bambini perfettamente formati vengono soppressi ancora nel grembo materno e i loro tessuti sono oggetto di un orribile commercio.
Sin dal periodo prescolare, quelli che nascono rischiano di essere sovraesposti ad una educazione sessuale assai discutibile e senz’altro precoce.
A causa di ciò in alcuni paesi questi stessi bambini, sin da giovanissimi vengono spronati a soffrire mutilazioni orribili e irreversibili.
Appena in grado di utilizzare una tastiera conseguono automaticamente la “libertà” di accedere a migliaia di siti pornografici.
A ciò si accoppia l’altra “libertà” di alterarsi con droga e alcool sin da giovanissimi.
Secondo il detto di Aldous Huxley, nel corso della vita attiva di questi bambini divenuti adulti conteranno solo sesso e soma, definiti pudicamente lifestyle e “libertà”.
Esaurita la loro funzione di produttori e divenuti anziani, li si inviterà senza vergogna al suicidio di stato, come spudoratamente avviene da due anni in Canada (e in misura minore in Olanda) ai minori portatori di handicap, agli anziani sani ma sordi, a quelli un po’ depressi, a quelli che hanno chiesto di poter realizzare una rampetta per entrare in casa con la sedia a rotelle.
Tutti casi veri e documentati.
Per realizzare queste aberrazioni, cioè l’inferno in terra, ci vogliono ignoranti, spiantati, depressi e nichilisti.
Ecco perché risulta decisivo riscoprire l’Essere Supremo, noi stessi e l’universo che ci circonda, attraverso le vie dello Spirito e di quelle vie i nostri predecessori in Egitto sono stati indubbiamente maestri.
Sia l’Ermetismo che la tradizione giudaica hanno dovuto bagnare i loro panni nel Nilo per elevarsi, per cui umilmente anche noi dovremmo fare lo stesso, magari dopo un bel viaggio nella Khemet e una visita a Memphis!
Note
[1] In quelle semitiche, sin dall’antichità prevale la forma Mizr-Misr: in ebraico: מִצְרָיִם, Mitzráyim; arabo: مصر, Miṣr. Mizraim è la doppia forma di matzor, che significa “tumulo” o “fortezza”, ed era il nome generalmente dato dagli ebrei alla terra d’Egitto e al suo popolo. I testi neobabilonesi usano il termine Mizraim per l’Egitto. Il nome era, ad esempio, inciso sulla Porta di Ishtar di Babilonia. Le iscrizioni ugaritiche si riferiscono all’Egitto come “Mṣrm“, nel 14 ° secolo a.C. Nelle lettere di Amarna l’Egitto è chiamato Misri, e nei registri assiri è chiamato Mu-ṣur. La parola araba classica per Egitto è Miṣr/Miṣru, campo fortificato, fortezza, nome che si riferisce all’Egitto nel Corano, sebbene la parola sia pronunciata come Maṣr in arabo colloquiale egiziano.
[2] Memphis.
[3] Anche considerando non vera la narrazione relativa al ritrovamento, il testo della stele è sicuramente molto più antico rispetto alla XXV dinastia; come minimo gli studiosi lo datano agli inizi del Nuovo Regno.
Si noti, pero’, che nel testo è già avvenuta la sincretizzazione dei due Horus e che anche la presenza di Thot si deve ad una conoscenza dell’Ogdoade ermopolitana avvenuta sicuramente in tempi successivi.
[4] Padre degli dèi, un aspetto di Geb, spesso identificato con Ptah, il dio creatore menfita.
[5] Le due corone del Basso ed Alto Egitto, ritenute capaci di compiere magie incredibili.
[6] Simbolo rispettivamente dell’Alto e del Basso Egitto
[7] Memphis era la città più meridionale del Basso Egitto, proprio al confine al confine tra il Basso e l’Alto Egitto.
[8] Malgrado il culto di Sokar sia presente in Egitto sin dai tempi più antichi (la prima attestazione scritta del suo nome risale alla II Dinastia), delineare la figura di Sokar e il suo dominio rappresenta un problema maggiore per gli studiosi, anche perché nel corso dei millenni altri dei tra cui Ptah ed Osiride, andarono a sovrapporsi e a contaminare l’originale campo di azione di Sokar. Divinità ctonia, patrona pero’ anche della lavorazione dei metalli e quindi nel dominio di Ptah, presenza necessaria in alcuni riti di rinnovazione del potere reale, questa figura è comunque indissolubilmente legata al concetto di imbarcazione con particolare riferimento alla barca solare; Il nome del dio appare scritto, infatti, sin dalle origini con le tre consonanti skr e questa grafia appare regolarmente per tutto l’Antico Regno e il I Periodo Intermedio, accompagnata o meno da un particolare determinativo raffigurante un’imbarcazione,
denominata Hnw, Henu, sulla quale stava generalmente un falco; la barca era così intimamente legata a Sokar da poter essere utilizzata da sola come ideogramma per designare il dio. Svariate ipotesi son state formulate sul significato e sull’origine del nome skr; una delle più convincenti mette in relazione il significato del verbo skr, “trasportare”, con la funzione principale attribuita a Sokar nei Testi delle Piramidi, cioe’ il trasportare, grazie ad una barca sacra con la quale lo stesso dio poteva essere identificato, il re defunto, sollevandolo nell’aldilà. Il nome sarebbe stato dunque in origine la descrizione di un’azione.
[9] In precedenza, abbiamo incontrato il verso: in cui Thot aveva preso forma come Ptah, nel quale viene evocato il dio della sapienza, della scrittura, della magia, della matematica e della geometria dal volto di sacro Ibis, divinità predinastica il cui culto principale si svolgeva ad Ermopoli.
La totalità della creazione è riassunta nell’espressione “tutte le cose e tutti i geroglifici”. La teoria di Menfi, nella sua versione tarda, ci rappresenta il mondo come un testo, che Ptah ha creato nel cuore e ha pronunciato per mezzo della lingua. Un testo nel quale Ptah si è realizzato nella realtà visibile attraverso la forma delle cose, a sua volta corrispondente ai geroglifici. Questa ardita ideazione viene esposta sempre in relazione con la teoria eliopolitana, ma la visione diventa più raffinata: l’atto materiale e animalistico della divina masturbazione si trasforma nella forza creatrice dell’intelletto rappresentato dalla parola e dal simbolo scritto.
Evidenti sono le correlazioni tra una tale concezione e quella kabbalistica relativa alla Torah parola scritta dall’immenso potere sintetizzato dalla formula ‘fuoco nero su fuoco bianco’
[10] Dio guerriero dalla testa di falco, rappresentava la luce, e i suoi occhi erano il sole e la luna.
Era il dio patrono della città di Nekhen (Hierakonpolis) ed è stato probabilmente la prima divinità protettrice dei faraoni, oltre ad essere patrono dei fabbri e dei guerrieri.
Uno dei suoi principali aspetti è quello di Heru-Behdety, Horus della città di Behdet, raffigurato come un disco solare alato; si narra che in questa forma, datagli da Ra, abbia sconfitto Seth o il serpente Apofis.
Sua moglie era Hator (il cui nome significa appunto Casa di Horus), la signora della bellezza e dell’amore; il loro matrimonio, detto Festa della Gioiosa Riunione, veniva festeggiato ogni anno intorno al solstizio d’inverno. I due generarono Ihy. Il suo culto si fuse con quello dell’altro Horus generando così un sincretismo che ha prodotto alcune confusioni tra i primi studiosi della religione egizia
[11] Hermopolis in greco significa “città di Hermes”. I Greci le diedero questo nome perché era un importante centro di culto del dio Thot (dhwty), che essi associavano al loro dio Ermes, ma gli Egizi la conoscevano come Khmunu (la città degli Otto). Purtroppo, Ermopoli fu distrutta nel V sec.
[12] Khnum era venerato nelle città dell’Alto e del Basso Egitto e i culti dedicati a questo dio erano numerosi. Le città dell’Antico Egitto che raggiungevano lo status di centro di devozione diventavano estremamente ricche e potenti e quindi c’erano diversi centri che veneravano Khnum con una serie di diverse consorti che erano dee favorite in particolari luoghi. Oltre a Heket e Satet era associato a Neith e Menhit (due dee della guerra come Satet).
[13] Il testo, ascrivibile al Primo Periodo Intermedio e precisamente alla X Dinastia, contiene le istruzioni che il faraone Kheti II affida al proprio figlio e successore Merikare, che dovrà prendere il potere dopo di lui. Le vicissitudini sofferte dalle Due Terre sono evidenti nel lungo testo, probabilmente voluto da Merikare stesso per esaltare la figura del padre, soprattutto per quanto attiene alla concezione della monarchia stessa.
Il faraone ha perso molta della sua sacralità. Anche il figlio di Ra sembra doversi confrontare con i problemi etici del buon governo e, soprattutto, con il compito di preservare l’armonia nel suo regno.