di Silvano Danesi
Narrano i miti che Dioniso, figlio di Zeus e di Persefone (colei che sta nel visibile e nell’invisibile, figlia di Demetra), fu fatto a pezzi e mangiato dai Titani i quali furono folgorati da Zeus. Dalle loro ceneri nacque il genere umano, scisso tra la natura positiva (dionisiaca) e quella malvagia, titanica.
Il mito evidenzia i due aspetti della natura umana che più volte abbiamo visto materializzarsi nella storia dei popoli e dei singoli esseri umani, cosicché abbiamo avuto e abbiamo nei secoli geni del bene e geni del male.
Quale azzardo dare agli umani il potere della tecnica e il potere del fuoco.
I miti ci avvertono del pericolo.
Nei Persiani di Eschilo Serse ha commesso la più grave colpa stravolgendo l’ordine naturale (facendo del mare la terra).
Nel mito, Icaro, il fanciullo dotato di ali, si fatto travolgere dal senso di onnipotenza che lo ha fatto precipitare.
Nel Prometeo incatenato di Eschilo il Titano viene punito per aver insegnato agli umani le varie arti e per aver rubato la folgore del Fuoco agli dèi al fine di donarlo agli umani, infrangendo così l’ordine naturale.
Trascinato in Scizia, l’attuale Ucraina (potenza dei miti e dei simboli) ai confini del mondo, Prometo viene inchiodato da Efesto ad una roccia con catene infrangibili di acciaio.
Il titano non aveva tenuto in conto ( o forse si?) che gli umani, nati dalla cenere dei titani, dotati del Fuoco degli dèi, lo avrebbero usato secondo la loro duplice natura, una parte della quale essendo segnata dalla malvagità.
Prometeo sarà liberato da Eracle solo dopo che avrà riconosciuto l’autorità di Zeus e le leggi della Natura.
La natura positiva e la natura malvagia ci giungono descritte nella loro essenziale contrapposizione, da messaggi antichi, scritti su tavolette di ossa rinvenuta nell’Olbia Pontica.
I resti archeologici di Olbia (in greco, “la felice”) sono nei pressi di Odessa.
Del ritrovamento dà conto Alessandro Coscia della Pinacoteca di Brera, il quale scrive che a Kiev, nel 1978, l’archeologa Anna Stanislavovna Rusjaeva, catalogando i materiali nel magazzino dell’Istituto Archeologico dell’Accademia di Scienze, si imbattè in una scatola di cartone con la scritta “oggetti di osso”: al suo interno, una serie di piccole placchette con strane incisioni a mano.
In quel contenitore fu ritrovata una della scoperte più importanti della storia religiosa greca.
Le tavolette d’osso erano state scoperte nel 1951, durante una campagna di scavi nel sito della antica Olbia Pontica, una colonia fondata dai greci di Mileto nella metà del VII secolo a.C.
Del ritrovamento fa cenno anche Angelo Tonelli, nell’introduzione alla raccolta da lui curata dei frammenti di Eraclito.
Scrive Tonelli: “Scavi sovietici a Olbia, una tra le colonie milesi dislocate più a nord, sulle foci del Boristene, l’odierno Dnepr, verso quella mitica e brumosa Scizia che in epoca del Bronzo e in epoca arcaica fu trait d’union tra lo sciamanesimo siberiano-panasiatico e la Ionia, hanno portato nel 1951 alla scoperta di tre tavolette d’osso, pubblicate nel 1978…”.
“E’ evidente – scrive ancora Tonelli – l’analogia con i frammenti 14, 16 e 96 di Eraclito e, se i segni [a forma di zeta, ndr] si interpretano come immagini della folgore, con il fr.9. Le tavolette – aggiunge Tonelli – vengono datate alla fine del IV secolo a.C., ma non è facile stabilire se fossero anteriori o posteriori a Eraclito, la cui ἀκμή (maturità) va forse collocata intorno al 490-480”.
Frammento 14 (DK22B48): “dell’arco il nome è vita, azione è morte”.
Qui, come ci avverte Tonelli, c’è un gioco di parole tra arco e vita, che sono ambedua bios, con un’accentazione diversa.
Frammento 16 (DK22B67): “il dio è giorno notte, inverno estate, guerra pace, sazietà fame, e muta come il fuoco, quando vi si mescolano aromi, prende nome secondo il gusto di ciascuno”.
Frammento 96 (DK22B62): “immortali mortali, mortali immortali, viventi nella morte di quelli, ma, nella vita di quelli, morti”.
Frammento 9 (DK22B64): “ma tutto governa la folgore”.
Scrive ancora Alessandro Coscia: “C’è un voluto gioco grafo-simbolico che percorre tutte le incisioni. Il segno a zig zag sulla tavoletta 1, che compare sotto la A e accanto alla parola “vita”, e ritorna nella tavoletta 2, richiama l’immagine del fulmine, fondamentale nella teologia orfica di Dioniso e che ricorre in vari racconti mitologici: fra tutti, la nascita di Dioniso dalla dea Semele fulminata, e soprattutto, il mito dei Titani fulminati da Zeus per aver smembrato e mangiato il piccolo Dioniso. Dalle esalazioni delle ceneri dei giganti, inoltre, secondo il filosofo Olimpiodoro, sarebbe nato il genere umano, portatore dunque di una doppia valenza: mortale (i Titani) e divina (Dioniso). Secondo lo storico greco Pausania, lo stesso Orfeo sarebbe stato fulminato da Zeus per avere rivelato gli arcani dei misteri al genere umano. Al di là della sua ambivalenza, il fulmine è un archetipo centrale per il modello della divinizzazione: morire fulminato, ovvero, essere sottoposto a un rito con l’uso del fuoco, è, in antico, il passaggio per accedere a uno status soprannaturale, come succede al semidio Eracle e ad Asclepio. Una laminetta aurea rinvenuta nel misterioso sepolcro di un iniziato nel sito dell’antica Thurii (in Calabria), recita: “pagai la pena di azioni non giuste, sia che mi assoggettò il Fato sia il Folgoratore tuonando”. La morte simbolica causata dal fulmine è legata, concettualmente e misticamente, alla rinascita iniziatica (vita/morte/vita)”.
Le tavolette portano anche un messaggio che va oltre il ristretto orizzonte dell’umano titanico.
Il primo messaggio essenziale è che vita, morte e vita si alternano nell’unico fluire delle infinite trasformazioni. La morte corporea non è la fine, ma un aspetto particolare dell’essere umano.
Il secondo messaggio: verità-corpo-anima ci dice che la verità, ossia aletheia, il disvelarsi dell’essenza, è in rapporto con il corpo e con l’anima. Non solo corpo, dunque, ma anche anima.
Tuttavia, l’elemento più interessante delle tavolette è quel grafo simbolico, evocante il fulmine, che accompagna le parole.
Ritroviamo il grafo nel simbolo della Ziza del Rito Scozzese, che ci invita a seguire quell’aspetto fondante dell’esperienza conoscitiva eraclitea contenuto nel Fr. DK22B74: interrogai me stesso”. Eraclito invita ad interrogare il proprio Sé (l’indovedico Atman o l’egizio Sia), il proprio nucleo essenziale intelligente, che dimora presso il Sé cosmico (Brahman o Sia), aprendosi ad una immediatezza della conoscenza.
La Ziza è la folgore che ti folgora.
“L’uomo – scrive Angelo Tonelli – che si rivolge alla propria interiore essenza, al proprio Sé che, come l’Atman delle Upanishad, sconfina nel Sé cosmico, nell’Uno (a sua volta analogo al Brahman) come un oracolo, e ne interpreta i responsi, scoprirà di essere nel e il λóγος ξυνóς (lógos comune), e conoscerà l’abisso dell’anima, o almeno si addentrerà fino ai suoi estremi confini, così da testimoniarne e illuminarne la metamorfica, ambivalente natura, il legame con le regioni del Nonvisibile, l’Ade, il Regno della Morte e con la dionisiaca ebbrezza la Vita a esso speculare”. [1]
© Silvano Danesi
[1] Angelo Tonelli, Introduzione a Eraclito, dell’Origine, Feltrinelli