Premessa
John Aubrey, autore del “Temple Druidum”, è massone e, al tempo stesso, capo del “boschetto druidico” Mount Haemus di Oxford. Questo boschetto, del quale è segnalata l’esistenza sin dal 1245 e che aveva continuato ad esistere nella clandestinità, era stato restaurato con lo stesso nome e annoverava tra i suoi membri Elias Ashmole (1617-1692), umanista, membro della Royal Society, iniziato alla Massoneria il 16 ottobre 1646, autore del Theatrum chemicum britannicum e redattore dei rituali massonici secenteschi, ancora attualmente in uso.
“Elias Ashmole – scrive Michel Raoult – è considerato, nella tradizione druidica del Druid Order, come colui che ha trasmesso ai primi massoni speculativi l’iniziazione corrispondente alle tre funzioni tradizionali del druidismo, quella di ovate, di bardo e di druida, le quali sarebbero in seguito state raggruppate in un solo grado che non sarebbe altro che il Royal Arch della Massoneria, con, per occultare i fatti, sia chiaro, una leggenda biblica sovrapposta al grado, senza alcun rapporto con alcuna tradizione druidica che sia”. [1]
Elias Ashmole, pertanto, è ritenuto, in ambito neo-druidico, colui che ha trasferito alla Massoneria i tre gradi di iniziazione druidica, cosicché la Massoneria sarebbe un’erede del druidismo.
Ashmole, che ha scritto i rituali massonici ancora in uso, è un Rosacroce e i Rosacroce, come scrive Alberto Cesare Ambesi, sono eredi della cultura umanistica delle accademie italiane e dei Fedeli d’Amore, i quali a loro volta sono in gran parte eredi dei trovatori accasatisi alla corte di Federico II di Svevia e nella sua Magna Curia.
Come ho scritto nel mio: “I Fedeli d’Amore alla corte di Artù”, la linea di pensiero dei Fedeli d’Amore ha dei riferimenti essenziali in Federico II di Svevia e nella sua “Magna Curia”, nella Provenza e nell’Aquitania dei trovatori (eredi della cultura basca), nei Minnesanger, in Severino Boezio, nella poesia dei mistici arabi e nella Champagne di Chrétien de Troyes, che ripropone, con la “Materia di Bretagna”, l’antica cultura druidica.
Antichi fiumi sotterranei paiono confluire in Elias Ashmole, il quale è anche fondatore della Royal Society ed è un “antiquario”, ossia uno studioso di cose antiche. Carlo II Stuart, appena insediato sul trono, nominò Ashmole Araldo di Windsor e fu Ashmole a iniziare la riabilitazione dei Templari.
Ashmole, soprattutto, fu un fedele stuardista, ossia un fedele alla dinastia che era custode del nesso tra tradizione druidica e tradizione massonica.
Per un approfondimento vedi il mio: “Le radici scozzesi della Massoneria”.
Ashmole, pertanto, recupera una catena iniziatica ininterrotta e la arricchisce con il contributo di linee iniziatiche che, sia pure attraverso mille difficoltà, sono giunte nel XVII secolo all’appuntamento con la storia.
Attraverso la cultura di Ashmole ritorna l’attenzione sulla medicina, nella sua accezione antica, grazie ai contributi paracelsiani e, grazie alla leggenda di Hiram-Osiride, ritorna, nascosto sotto i veli del “Tempio di Salomone”, quel “Tempio dell’Uomo” egizio, del quale ho scritto nel mio: “I Massoni nella Casa della Vita”, e che rappresenta una delle più importanti radici dell’autentica Tradizione massonica.
Oh! Lord my God
La doverosa premessa storica è necessaria, in quanto ci consente di comprendere che la ritualistica massonica nei suoi tre gradi di Apprendista, Compagno e Maestro, con i suoi miti, i suoi archetipi, i suoi simboli, così come si è strutturata nel ‘600 sulla base di rituali più antichi e così come è stata sistemata da Ashmole, si presta a più piani di lettura.
Veniamo, ora, alla questione in esame.
Negli antichi rituali inglesi pubblicati nel testo: “Three distinct knocks or the door of the most Antient Free-Masonry opening to all Men” (London – Printed for H. Serjeant), a proposito del terzo grado è indicato il “segno” di Maestro così descritto: “…they listed up their hands, above their heads in a great surpriese, and said: «Oh! Lord my God»” wich is the grand sign of a Master-Mason”, ossia “estesero le mani, sopra la testa con grande sorpresa, e dissero: «Oh! Signore mio Dio »” che è il grande segno di un Maestro-massone”.
La frase connessa con il “segno”, in italiano è stata tradotta con: “Ahi Signore”.
A scanso di equivoci e al fine di evitare che qualche anima bella, in vena di amenità, mi rimproveri di svelare segreti massonici, preciso che il testo inglese è reperibile in Internet e che il “segno” in italia
no è pubblicato su www.esonet.it. (http:// www.esonet.it/News-file-article-sid-610.html): “Alzare le mani verso il cielo, le dita tese e separate, dicendo: «Ahi Signore!»”.
Dopo che nel 1717 la dinastia degli Hannover, mandati in esilio gli Stuart, aveva creato le condizioni della fondazione della Gran Loggia di Londra, per portare la Massoneria sotto la sua tutela, nacque, nel 1751, una Gran Loggia con il nome di The Most Honorauble Society of Free and Accepted Masons, according to the Old Insitutions, che poi mutò in Grand Lodge of free Accepted Masons of the Old Institutions, abbreviato in Gran Lodge of Antient.
La Gran Loggia degli Antient era retta da Costituzioni di impostazione giudaico cristiana, scritte da Laurence Dermott (1720-1791) e pubblicate sotto il titolo di Ahiman Rezon
Gli Antient erano sostanzialmente artigiani e commercianti e si rifacevano più da vicino alle regole delle corporazioni di mestiere.
Laurence Dermott, mercante, irlandese di nascita, era entrato in Massoneria nel 1741. Dotato di cultura classica e conoscitore dell’ebraico, aveva dedicato la vita alla Massoneria e a una sua codificazione essenzialmente coerente. Divenne Master of Lodge a Dublino nel 1746 ed entrò nel Rito dell’Arco Reale. Trasferitosi a Londra nel 1748, sposò Elisabeth, dalla quale non ebbe figli. Entrò nella First Grand Lodge dei Moderns che lasciò nel 1751, quando fu fondata la Gran Loggia degli Antient, della quale divenne Gran Segretario. Nel 1771 Dermott divenne Deputy Grand Master della Grand Lodge of Antient e nel 1756 pubblicò il corpus costituzionale sotto il titolo di Ahiman Rezon, analogo delle Costituzioni di Anderson.
La prima menzione del sacro Arco Reale proviene da Youghal in Irlanda nel 1743; la seconda, invece, proviene da York nel 1744. Gli Antient, sebbene non avessero a York nulla in comune con la Gran Loggia di tutta l’Inghilterra di York, persistevano nel chiamarsi massoni di York, pretendendo un potere sovrano sulla tradizione di York.
Una Logium Fabricae si trova citata nella Fabric Roll della cattedrale di York nel 1352 e la Loggia di York si autoproclamò Gran Loggia di tutta l’Inghilterra nel 1725, otto anni dopo la fondazione della Gran Loggia di Londra e pochi mesi dopo la formazione della Gran loggia d’Irlanda. La Gran Loggia di York ha lavorato fino alla fine del XVIII secolo e poi è stata assorbita dalla Gran Loggia d’Inghilterra, che solo nel 1813 diverrà Gran Loggia Unita d’Inghilterra, con l’unione dei Modern con gli Antient.
Il 22 settembre 1804 fu istituito il Supremo Consiglio di Francia e il 27 settembre fu fondata la Gran Loggia Generale scozzese.
Il Supremo Consiglio di Francia pubblicò nel 1805 la Guide des Maçons Écossias, che riprese molti gli elementi del rituale Three Distinct Knocks di provenienza Antient.
Se si considerano tutti questi, sia pur brevi cenni alla storia della Massoneria del XVII e XVIII secolo, si comprende che l’influenza giudaico cristiana nei Rituali è stata molto presente.
Non è un caso, ma un punto di riferimento sicuramente voluto, l’aver inserito il posizionamento sull’Ara del Tempio massonico del Prologo del Vangelo di Giovanni, la cui funzione non solo è servita a dare una veste biblica ai Rituali, stabilendo una continuità con la tradizione massonica medievale, che ha sempre visto i costruttori di cattedrali operare a fianco dei chierici, ma ha anche consentito di indurre, chi ne avesse le chiavi, a letture che ci riportano alle più antiche ritualità pre cristiane.
Il “segno” del Maestro, così come ci è stato tramandato dagli antichi Rituali secenteschi e settecenteschi, trova, pertanto una sua possibile origine giudaico cristiana in Giovanni, laddove l’evangelista scrive: “Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dissero allora gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò». Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, si fermò in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente!». Rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno!».
Lo stupore del Massone che si traduce nell’esclamazione: «Oh! Lord my God» è, pertanto, perfettamente in sintonia con quel: «Mio Signore e mio Dio!» pronunciato da Tommaso.
Dalla lettura giudaico cristiana a quella osiriaca
Tuttavia, all’esclamazione si accompagna un gesto: l’estensione delle mani sopra la testa, meglio descritto nella ritualistica italiana con: “Alzare le mani verso il cielo, le dita tese e separate, dicendo: Ahi Signore!”. Un gesto che ricorda un simbolo egizio che ci riconduce ad un altro dio sacrificato, poi ricomposto e, successivamente risorto: Osiride. Un dio egizio al quale la leggenda massonica di Hiram, introdotta nel ‘600, pare riferirsi con tutta evidenza. L’Hiram massonico, infatti, non trova riscontri biblici come architetto.
Il gesto ricorda il Ka egizio e rappresenta, pertanto, l’affermazione di aver coscienza di essere non solo un corpo fisico, ma anche un corpo energetico. Il Ka è infatti la forza vitale universale che nell’essere umano diventa campo energetico. Il Ka ha come corrispondenti le Hemsut, tradotto con “situazioni”. La situazione è la circostanza in cui si verifica un evento, ossia l’intreccio dei campi costituenti il vivente.
Nel Rituale massonico di 2°Grado si legge: “L’Architettura ebbe la sua culla in Egitto, paese originario della Libera Muratoria” e l’Egitto entra, sia pure velato, a pieno titolo nel Rituale relativo al grado di Maestro.
Il Libro egizio degli inferi (Libro di Ciò che è nella Duat) è la descrizione di un viaggio iniziatico mediante il quale si realizza lo stato di Akh, il «divino nell’umano», il «corpo di gloria», il «corpo di fiamma».
Il rituale contenuto nel Libro egizio degli inferi ci consegna la chiave della morte e della rinascita di Hiram, ossia della sua morte corporale (la carne si distacca dalle ossa) e della sua resurrezione (resurgo, mi rimetto in piedi) come corpo di fiamma, corpo di luce (la trasfigurazione).
I riti osiriaci, a partire dalla V dinastia, identificano il morto con il dio nel Campo di Ialu (Sokhit Ialu), in base ad una democratizzazione di un rituale che in una prima fase era riservato solo al Faraone. Il morto, come l’iniziando, pronuncia i nomi e le formule con giusta voce (è un giusto di voce), supera le prove e attraversa le “porte segrete del Recinto dei Signori dell’Eternità” (Stele del British Museum, 797, I, 631). [2] Nel Medio Impero i morti sono chiamati a prender posto sulla Barca del Sole (la navigatio).
“E’ soltanto dalla religione egizia, con i Misteri di Osiride – scrive infatti Maurice Bouisson – che vedremo formarsi l’idea di una possibilità per tutti gli iniziati di raggiungere, per mezzo della magia, ad imitazione del dio, il soggiorno dei beati”. [3]
Il morto (o l’iniziando), giunto al tribunale degli dèi deve dimostrare che il suo cuore è più leggera della piuma di Maat, ossia dell’ordine e della giustizia.
Nel Libro dei Morti (Libro per salire alla luce del Giorno) è scritto: “O mio cuore, tu che mia madre mi ha dato, cuore delle mie trasformazioni, non ti alzare contro di me in tribunale. Non ti separare da me in presenza di colui che tiene la bilancia. Tu sei il mio Ka che è nel mio petto, il Khnum [il dio vasaio che forma i corpi] che ha reso il mio corpo completo. Possa tu arrivare al bene verso cui noi ci affrettiamo”.
Il cuore, primo organo a formarsi nel feto umano, era considerato la sede dell’intelligenza e del pensiero (spirito).
Il morto (o l’iniziando) si rapporta al tribunale con una serie di dichiarazioni negative, dove afferma, in buona sostanza, di non aver fatto nulla di male e di essersi comportato secondo la regola di Maat, ma nel Papiro di Nu c’è anche una dichiarazione positiva che ritroviamo nella tradizione cristiana: “Io ho contentato gli dèi facendo ciò che essi amano. Ho dato del pane all’affamato e dell’acqua a colui che aveva sete, delle vesti all’uomo nudo, una barca al naufrago”. (Cap. CXXV, Davanti agli dèi del mondo inferiore, Papiro Nu).
Ritroviamo gli stessi concetti in Matteo, 25: “Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra. Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: «Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi». Allora i giusti gli risponderanno: «Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?». E il re risponderà loro: «In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me». Poi dirà anche a quelli che saranno alla sinistra: «Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato». Anch’essi allora risponderanno: «Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo servito?». Allora egli risponderà loro: «In verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me». E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna»”.
Sempre nel Libro dei Morti del papiro di NU si legge: “Io sono il vostro Signore. Venite a prendere posto tra le mie file. Io sono il figlio del vostro Signore e voi mi appartenete per mezzo del padre divino che vi ha creato. Io sono il Signore della Vita.”
Ritroviamo le stesse parole in Giovanni 14,16 :”Gesù gli disse: «Io sono la via, la verità e la vita; nessuno viene al Padre se non per mezzo di me”.
La tradizione cristiana è, come pare evidente, la tradizione osiriaca in chiave greca e giudaica.
Il Maestro è un trasfigurato
Il Maestro è il trasfigurato, colui che ha riconosciuto il suo essere corpo di fiamma, Akh e che è, per questo, andato oltre la morte. Il Maestro, in corrispondenza con l’antico rituale osiriaco, è divenuto un Osiride giustificato.
Il concetto di resurrezione, se collocato in ambito giudaico, meglio: farisaico, implica la resurrezione dei corpi. Tale concetto è transitato nella cultura cristiana delle origini, in un contesto apocalittico che presupponeva la fine dei giorni e l’avvento del Regno di Dio.
Nella cultura greca, così come nella cultura egizia, non c’è il concetto di resurrezione dei corpi, ma quello di immortalità dell’anima, con la conservazione della propria individualità.
“I testi egiziani – scrive in proposito Maurice Bouisson – non esprimono l’idea di una fusione nell’anima universale come nel panteismo bramanico”. [4]
L’Egitto ci consegna il concetto di “corpo di luce” e a supportare l’idea egizia della sopravvivenza del corpo di luce (non del corpo di carne) è il testo Per em Ra (Per salire alla luce), solitamente definito Libro dei morti, dove il defunto/iniziato, che afferma di “prendere forma di un Ba vivente”, dice: “Io sono lui, io sono Ra”. Ra è il sole, simbolo della luce che, nella sua epiclesi di Khepri (Ra del mattino), è colui che viene in esistenza. Sempre nel Per em Ra è scritto. “Io sono il Ba di Ra, uscito dal Nun, questo Ba del dio che ha creato Hu, il verbo”.
Nei Testi dei sarcofagi è espresso un concetto analogo: “Io sono Ra, uscito dal Nun, io sono l’Eterno, io sono colui che ha creato Hu, il verbo, io sono Hu, il verbo”.
Sono evidenti le similitudini del Prologo del Vangelo di Giovanni con gli antichi testi egizi.
A Menfi, “capitale dei Faraoni della I Dinastia”, venne “articolata intorno al dio Ptah la teologia più sistematica”, resaci da un testo inciso sulla tomba del Faraone Shabaka (circa 700 a.C.), il cui originale risale a circa duemila anni prima.
“E’ sorprendente – scrive Mircea Eliade – che la più antica cosmogonia fino ad ora, sia anche la più filosofica. Ptah infatti crea mediante il suo spirito (‘cuore’) e il suo verbo (‘lingua’). «Colui che si è manifestato come cuore [=spirito], colui che si è manifestato come lingua [=verbo], sotto le parvenze di Atum, è Ptah l’antichissimo …». Ptah è proclamato il più grande degli dèi, mentre Atum è considerato solo autore della prima coppia divina. Ptah «ha fatto esistere gli dèi». In seguito gli dèi sono penetrati nei loro corpi visibili, entrando «in ogni sorta di pianta, in ogni sorta di pietra, in ogni sorta di argilla, in ogni cosa che cresce sul suo rilievo [della Terra] e mediante la quale essi possono manifestarsi». Insomma, la teogonia e la cosmogonia sono attuate dalla forza creatrice del pensiero e della parola di un solo dio. Si tratta, certo, dell’espressione più elevata della speculazione metafisica egizia. Come nota John Wilson (ANET pag.4) al principio della storia egizia si trova una dottrina che può essere avvicinata alla teologia cristiana del Logos”. [5]
Lo spirito (Informazione in azione), che nell’essere umano ha sede nel cuore, crea mediante la lingua. La Tavola Smeraldina afferma che ciò che è in alto è come ciò che è in basso e viceversa. Orbene, il cuore è il primo organo che si forma nel feto umano e la lingua del feto, mediante la deglutizione, continua durante tutta la gestazione a dare input che formano gran parte della struttura corporea e, dopo la nascita, sarà uno degli organi fondamentali della comunicazione.
“Il Creatore – sottolinea Eliade – fu il primo Re; egli trasmise questa funzione al proprio figlio e successore, il primo Faraone” [6], che si pone come dio incarnato.
E’ evidente anche in questo caso, come nel caso del dio cristiano, l’archetipo del dio incarnato e questo giustifica l’ascesa del Faraone al cielo alla fine della sua vita terrena.
Se il defunto/iniziato afferma di prendere la forma di un Ba vivente e le successive affermazioni riguardano luce e energia (vibrazione), è ipotizzabile che i testi citati confermino l’idea che dopo la morte del complesso costituente il corpo fisico, il Ba, ossia la presenza dell’essenza dell’intelligenza suprema nell’essere umano, continui ad esistere in altra forma o dimensione.
Nel Corpus Hermeticum una delle conseguenze della consapevolezza di non essere solo corpo mortale è la rinascita o palingenesi dell’anima, rivelata al figlio di Ermete, che consiste nel “non mostrarsi più nella forma del corpo a tre dimensioni”, nel superare cioè il corpo fisico che “è lontano dalla generazione sostanziale” dissolubile e mortale, per entrare in un corpo “composto di potenze” che è indissolubile e immortale, divenendo nello stesso tempo consapevole di “essere dio e figlio dell’Uno”.
L’anima abbandonando il corpo mortale, entra in un corpo “composto di potenze”.
Il Maestro massone, pertanto, con quell’esclamazione: «Oh! Lord my God», viene riconosciuto ritualmente con un Osiride giustificato, un risorto in un corpo di luce.
Con questa lettura, la ritualistica massonica si collega agli antichi riti osiriaci.
Il “Custode del pane” e il pane che è carne divina
Qui giunti, però, un’ulteriore lettura si impone, con un approfondimento del significato del termite Signore, sia in italiano, sia in inglese.
Il vocabolo “signore” deriva dal latino senorem, comparativo di senex: vecchio; quindi significa il vecchio, l’anziano ed è indicativo di autorevolezza, potere e nobiltà d’animo.
Il vocabolo ha subito un uso, nella “barbara latinità”, come dominus, alla stessa maniera di presbitero (più anziano) in prete.
L’uso del vocabolo “signore” nella ritualità massonica italiana non sempre attinge ai significati latini e tanto meno a quello del vocabolo usato nei rituali inglesi: lord.
Lord deriva infatti dall’antico hlāford’c, dal significato di custode del pane, di custode del patrimonio domestico e di protettore.
Tradurre lord con “signore” in riferimento a Dio, nell’accezione di dominus, indica dominio, signoria e quindi sudditanza e dipendenza. Tale accezione corrisponde all’archetipo del dominus tribale pastorale.
Nello Scolio generale al termine della seconda edizione dei Principi matematici della filosofia naturale del 1713, Isaac Newton scriveva: “Dio è una parola relativa e si riferisce ai servi: e la divinità è la signoria di Dio”. [7]
Anche la traduzione italiana di Yhwh con Signore non ne dà l’autentico significato. La radice verbale HWH significa infatti Essere.
La Bibbia dei Settanta traduce YhWH con “Io sono colui che è” e la Vulgata con: “Io sono colui che sono”.
Il Maestro, in questa possibile terza lettura del Rituale, è il custode e protettore del pane, l’alimento comune dei Fratelli, che è pane terreno e pane celeste, alimento del corpo l’uno e del corpo di luce l’altro. Ed è nel pane il segreto della vita.
Anche in questa interpretazione un riferimento giudaico cristiano è, non solo possibile, ma evidente. Giovanni 6,50. “…questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia”. Giovanni 6,51: “Io sono il pane vivo disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo”. Giovanni 6,58: “Questo è il pane disceso dal cielo, non come quello che mangiarono i padri vostri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno”.
Gesù, il dio fattosi uomo dei cristiani, è fatto nascere dalla tradizione a Betlemme: bet lehem, il granaio o la casa del pane.
Va notato che anche Osiride (As Ar nell’antica lingua egizia) è definito “grano degli dèi” e “creatore del grano”.
I Misteri di Osiride si celebravano ogni anno nel mese di Khoiak (nel calendario gregoriano, Koiak corrisponde al periodo che va dal 10 dicembre all’8 gennaio, o dall’11 dicembre al 9 gennaio negli anni copti immediatamente seguenti a un anno bisestile copto, che ricorre ogni quattro anni).
Il nome del mese di Koiak deriva da “Ka Hr Ka” ossia “Anima sopra le Anime”. Interessante la scrittura egizia, dove si vedono due Ka.
Nelle cerimonie sacre durante la “Festa delle lampade”, le torce e le lampade illuminavano giorno e notte in onore del primo antenato che aveva vinto la morte. Le torce sono anche “uno dei simboli della ricerca iniziatica eleusina”[8]
“Veniva inoltre modellata – scrive Maurice Bouisson – una figura di Osiride con della terra e del grano. Il sacerdote versava l’impasto nello stampo, dicendo: «Io porto a Iside questi pezzi della mummia di Osiride», mentre Iside e Nefti supplicavano Osiride di venire ad abitare la sua forma ricostruita: «Vieni verso la tua casa!», oppure si seminava del grano su una tela su cui era stata disegnata la figura di Osiride”. [9]
Osiride è raffigurato con spighe di grano che nascono nel suo corpo. Ne consegue che l’archetipo del pane come corpo di un dio è antico e precristiano ed è stato ereditato dalla tradizione cristiana: il pane come corpo di Cristo richiama il pane come corpo di Osiride.
Nei vari testi egiziani si racconta della passione del Dio dopo una cena, durante la quale, guarda caso, viene distribuito il pane e le carni consacrate nel suo nome di “Signore del Cibo Divino” (“Piramide di Teta”, pag. 214, edizione Maspero).
Il frumento nell’antica lingua degli Egizi è bty o btd (probabile pronuncia bety – beted) e la déa Renenunet o Ta-Renunet (in greco Thermutis) è la patrona dei raccolti e della mietitura. “Raffigurata come un serpente oppure come una donna dalla testa di ofide, ella – scrive Dimitri Meeks – tradisce le sue origini ctonie. A questo titolo, la dèa presiedeva, sotto forma di feticcio, alla mietitura e alla vendemmia. […]. In quanto dèa agricola, anche i vegetali dai quali si ricavavano le fibre tessili rientravano nella sua giurisdizione. Fin dalle origini fu patrona della tessitura”. [10]
Alla base della “tessitura il cui Neter è Neith”, come ho scritto nel mio: “I Massoni nella Casa della Vita”, vi è il concetto egizio che un’azione determina una reazione e che l’azione e la reazione danno luogo alla realtà concreta, al volume.
L’azione determina la reazione e la loro dinamica relazione determina la vita.
L’azione della tessitura (tayt), secondo il principio che ci riporta all’analogia del verbo, del sostantivo e dell’aggettivo, è anche il tessuto.
I testi egizi ci consegnano un rito della vestizione del Neter con un tessuto (tessitura, tessere).
Il Neter femminile Reneunet (Renenutet) offre una bandella (striscia di tessuto), essendo essa stessa la bandella, al Neter Amon, il Mn (nascosto) la cui parte femminile e manifestante è Amonet.
La vestizione con una tessitura-tessuto è un rivestire l’invisibile (il nascosto) rendendolo visibile; è un legare l’imponderabile a una materia ponderabile: uno Spirito ad un corpo.
In termini generali possiamo dire che l’incarnazione è un vestire lo spirito di pelle; è il tessere attorno allo Spirito un corpo.
Nei Testi delle Piramidi è scritto:
“Ti ho vestito con l’occhio di Horo, questa Reneunet.
Ti ho portatto l’occhio di Horo che è in Tayt, questa Reneunet”.
Nel testo si afferma che l’occhio di Horo è nella tessitura. Un’affermazione che ha un’implicazione sorprendente alla luce delle attuali scoperte scientifiche, in quanto l’occhio di Horus è dal punto di vista matematico connesso con il numero 64, che è a sua volta in relazione con il Dna.
Reneunet rivolge ad Amon le seguenti parole: “Parole dette da (Ren n) unet, Signora di … Tu ricevi questa tua bella (bendella), tu, ricevi questo tuo tessuto mâr, tu ricevi questo tuo tessuto menkhebet. Tu appartieni a lei, tu sei perfetto in lei, in questo suo nome dei quattro tessuti-menkhebet. Essa si unisce a te in questo suo nome di stoffa-idmi”.
Amon appare ad Amonet, il suo aspetto femminile; è compiuto in lei ed è unito a lei.
Renenet è Colei che nutre (anche Renenutet o Ernutet).
Un’altra funzione di Renenet era quella di assistere ai parti.
Il nome Renenet può anche essere interpretato come Colei che vede Ren, dove ren è l’inizio della parola egizia che indica vero nome, ossia quello dell’anima del nascituro, nome che si riteneva l’anima acquisisse al momento del parto.
In epoca più tarda Renetet venne identificata anche con Iside.
E’ a questo punto chiaro il ruolo del femminile: tessere lo Spirito nella materia, dare volume e visibilità all’invisibile e all’imponderabile, incarnare.
La donna è tessitrice, ma il suo annodare (il nodo d’amore che avvolge il tempio dell’Antropocosmo) è anche legare il corpo allo Spirito.
Figlio di Renenunet è Nepes, il seme, assimilato tardivamente ad Arpocrate, il quale “poteva personificare, da una parte il grano che, raggiunta la maturazione, avrebbe assicurato la sussistenza ad ognuno, ma che già germoglia, simbolo di una vita rinnovata, alla quale partecipa la natura intera”. [11]
Dimitri Meeks riporta un inno dedicato a Neper: “Io sono la vita…colui che Atum ha creato come Neper quando mi fece scendere su questa terra, sull’isola della Fiamma, quando il mio nome divenne Osiride figlio di Geb. Io sono la vita!. Io muoio e vivo: io sono Osiride. Sono entrato in te e sono uscito da te: sono cresciuto in te, sono spuntato in te, sono caduto sul mio fianco. Gli dei vivono di me e io vivo e germoglio come Neper, che i beati elevano, quando sono ricoperto da Geb. Io muoio e vivo: sono il grano, io non deperisco”. [12]
I Riti eleusini e la conoscenza
Il tema della conoscenza è un cardine fondamentale del percorso iniziatico massonico e lo è anche nelle Triadi bardiche, nella ritualità osiriaca e in quella dei riti di Eleusi, in quanto rende l’essere umano consapevole che la nostra morte fisica è solo un passaggio, ed è un tema condiviso con la filosofia greca presocratica e con i riti eleusini dei quali, riguardo all’intreccio con l’orfismo “esistono segni manifesti nelle antiche fonti”. [13]
Che l’evento misterico di Eleusi, afferma Giorgio Colli, fosse una “festa della conoscenza, risulta chiaro dalle testimonianze antiche” e Dioniso era “la cifra archetipica della sapienza”. [14]
“In quell’epoca – scrive Giorgio Colli, riferendosi ai presocratici – «sapienza» significava anche abilità tecnica, oppure saggezza della vita, prudenza politica: ma sapiente – che non fosse tale in qualcosa e in qualcosa no, ma sapiente in assoluto – era uno che possedeva l’eccellenza del conoscere”. [15]
La conoscenza, pertanto, non ha limiti, cosicché il percorso massonico non può essere limitato ad alcuni aspetti della conoscenza, anche se il linguaggio proprio della Massoneria è quello simbolico, archetipico e mitologico.
Riassumendo il contenuto di alcuni frammenti eraclitei, Miroslav Marcovich, scrive che “a livello logico il lógos è valido universalmente e opera in tutte le cose” (114 + 2 DK), che “a livello ontologico, il lógos è un sostrato al di sotto della pluralità sensoriale delle cose: è una unità sottostante a questo ordinamento del mondo”; che “a livello epistemologico, riconoscere il lógos, è condizione necessaria per una reale e corretta conoscenza dell’ordinamento del mondo” (30DK) e, infine, che “a livello etico di comportamento, il lógos, è una regola di corretta condotta di vita (…)“.[16]
“La percezione sensibile e l’esperienza – commenta Miroslav Marchovic – richiamano la condizione basilare per l’apprendimento del lógos onnipresente, ma questa non è la sola condizione: altre ne sono richieste, fra cui l’intelligenza, la facoltà di interpretare correttamente i dati dell’esperienza e l’intuizione. Senza tali condizioni l’uomo non può raggiungere il lógos, né ottenere la sapienza (nous), rimanendo ad uno stadio sterile”. [17]
“Il poco che sappiamo sulle cerimonie segrete – scrive Mircea Eliade a proposito dei Riti Eleusini – indica che il Mistero centrale implicava la presenza di due dee. Grazie all’iniziazione, la condizione umana era modificata, ma in un senso diverso a quello della trasmutazione fallita di Demofonte. I rari testi antichi che si riferiscono direttamente ai Misteri insistono sulla beatitudine post mortem degli iniziati, L’espressione: «Felice tra coloro che vivono sulla terra…» dell’Inno a Demeter ritorna come un leitmotiv. «Felice chi vide ciò prima di scendere sottoterra!» esclama Pindaro. «Egli conosce la fine della vita! Egli conosce anche il principio!». (Threnoi, fr. 10). «O tre volte felici i mortali che, dopo aver contemplato questi Misteri, scenderanno nell’Ade; solo loro potranno vivervi; per gli altri tutto sarà sofferenza» (Sofocle, fr. 719 Dindorf, 348 Didot). In altre parole, in seguito alle cose viste ad Eleusi, l’anima dell’iniziato godrà di un’esistenza felice dopo la morte. Non diventerà l’ombra triste e impoverita, senza memoria e senza vigore, tanto temuta dagli eroi omerici”. [18]
I Misteri sono stati celebrati ad Eleusi per oltre duemila anni e, per quanto se ne sappia ben poco, affrontavano, con la mimesis (imitatio) della mitologia degli dèi, il tema dell’eterna inquietudine dell’essere umano nei confronti del mistero della morte. In relazione all’azione degli dèi, i Riti si suddividevano in tà orómena (ciò che si vedeva), in tà legómena (formule e nomi segreti, ossia ciò che si diceva) e tà drómena (imitazione dell’azione degli dèi), con particolare riferimento alla discesa agli inferi da parte della dèa Demetra (la Dèa Madre) e alla sua vincita sulla morte.
“Oltre alla liberazione dall’angoscia di morte, i Misteri garantivano il benessere in vita, iuxta la visione non dualistica propria della tradizione dionisiaca, [19]considerato che “Dioniso è figura centrale, e forse per questo occultata, di tutto il processo iniziatico eleusino”. [20] Sui carri che portavano gli hierá “c’era la statua di Iakchos-Dioniso, il cui nome veniva proclamato a gran voce”[21] e al “pozzo Callicoro si svolgeva una cerimonia in onore di Dioniso-Iakchos”. [22]
“Sulla statua di un gerofante di Eleusi si leggeva – scrive Maurice Bouisson – questa promessa di salvezza: «Com’è bello il Mistero che ci viene dai Beati, che assicura che per i mortali la morte non è un male, ma la felicità». [23]
“Le cerimonie che si volgevano all’esterno e all’interno del telesterion – scrive Mircea Eliade – si riferivano probabilmente al mito delle due dèe […]. Si sa che gli iniziandi, con le torce in mano, imitavano Demetra vagante con la fiaccola alla ricerca di Kore”. [24]
Dalla formula degli iniziati (il sýntema) sappiamo che digiunavano, bevevano il ciceone (acqua e farina d’orzo, mescolati con un rametto di menta) e manipolavano qualcosa che alcuni autori cristiani, in epoca tarda (esempio Tertulliano), hanno ritenuto essere un simbolo sessuale. La formula del sýntema, che è anche un segno convenuto, recita: “Ho digiunato, ho bevuto il ciceone, ho preso la cesta, dopo aver compiuto le azioni rituali ho riposto nel canestro, e dal canestro nella cesta”.
Un altro oggetto di cui parlano i testimoni cristiani è la spiga, definita da Foucart “emblèm osirien” e “symbole de la mort d’Osiris”. [25]
Angelo Tonelli ricostruisce così la parte rituale relativa alla spiga: “Una spiga viene spiccata in silenzio dallo ierofante. E’ un gesto di grande potenza evocativa: un frutto, che è anche un seme, viene mietuto dallo stelo, e dunque la pianta viene uccisa come unità, ma da questa morte scaturirà una pluralità di piante-vite; l’Uno diventa Molti e i Molti sono forme dell’uno. La pianta tagliata è Dioniso che, come Osiride, muore nel fiore della vita, ma che rinascerà. E dunque il dio segreto dell’epoteía è Dioniso: morte e vita unite insieme in un solo gesto. Dioniso è l’Uno che si fa Molti, e vive-muore in ognuno dei Molti che da esso scaturiscono: ritroviamo tutto questo nel Dioniso orfico che guarda nello specchio e vede il mondo”.[26]
La psŷchè olcsos, come principio vitale, associata alla testa, costituisce il seme ed è in stretta connessione con il liquido spinale (aion), inteso come liquido seminale.
Il corrispondente vegetale della testa-psŷchè olcsos è la spiga, che contiene il grano e la spiga introduce l’antica ritualità dei misteri eleusini. Demetra, madre del grano, era infatti adorata come testa.
L’adorazione della testa, peraltro, è condivisa da molte culture.
Nella Qabbalah la divinità suprema è concepita come una testa, contenente il liquido della vita. Il suo nome è Arik Anpin, il Vasto di Volto. Una definizione che ci ricorda quella di Horus l’Antico (da non confondere con Horus, figlio di Iside e di Osiride), detto il Viso. Gerberto di Aurillac, divenuto Papa Silvestro II, aveva sul suo tavolo una testa vaticinante. Orefeo è una testa che vaticina, così come lo è la testa di Bran. Gli esempi sono molti. Ricordiamo, per inciso, che i Templari furono accusati di adorare una testa.
In Frigia la testa di un uomo era assimilata alla testa del grano. Omero definisce gli uomini steli di grano. Nell’antichità molti mietitori falciavano solo la testa del grano, ossia la spiga. Nei misteri frigi il dio era una spiga mietuta, ricco di linfa e la spiga era la suprema rivelazione di Eleusi.
Nella ritualità massonica (grado di Compagno) troviamo la spiga nella parola ebraica Shibboleth, ( שבולת) che significa in linea di massima ‘fiume’ o ‘torrente’ o, a seconda delle fonti, ‘spiga’.
I due significati coincidono con l’idea che nella testa il seme (psŷché olcsos) sia avvolto dal liquido cerebrale, che prosegue nella spina dorsale, costituendo nell’insieme il liquido cerebro spinale. Qui fa la sua comparsa la spina, in un’accezione che si stacca decisamente da quelle comuni. Per inciso, va notato che i Templari iniziavano il “luoghi spina” e che nella loro lingua del tempo un gioco di parole permetteva di associare spiga di grano (épi) con spina (épine). I Massoni costruttori di cattedrali gotiche in Francia le costruiranno secondo una disposizione che richiama la costellazione della Vergine, la cui stella principale è Spica, ossia la spiga.
Il chicco di grano appartiene alle angiosperme, ossia a quelle piante il cui seme è ricoperto da una protezione, come l’όλχός, il “sostegno” del daimon, qualcosa che avvolge, ricopre e segna dimensioni e contorno dei corpi. In altri termini potremmo oggi definirlo campo di forma.
Oggi potremmo dire, in termini che la fisica moderna ci consegna e che si accostano alla metafisica antica, che il miste scopre di essere un frattale del Puro Pensiero, dell’Informazione infinita: un Puro Pensiero che osservando sé stesso (lo specchio di Dioniso) fa collassare l’onda delle probabilità, delle infinite possibilità, nelle realtà concrete dei mondi.
Nel mito di Dioniso, così come in quello di Osiride, di Prajapati e di Gesù il Cristo, è presente l’archetipo della dispersione dell’unità nel molteplice e della ricomposizione del molteplice nell’unità.
La morte simbolica e la vera luce
Interessante, a questo proposito, ossia della morte del dio incarnato, un riferimento della tradizione cristiana a quella egizia. Maria nella sua fuga in Egitto a dorso d’asino (Seth) si ferma accanto ad un sicomoro, l’albero sacro ad Hathor (la casa di Horo). Il sicomoro è Nehet, la cui radice Neh significa protezione ed essere profittevole. La dea versa dall’albero l’acqua per l’anima del defunto (iniziato) in un laghetto di purificazione: uno stagno a forma di T. Dal lago il defunto (iniziato) attinge l’energia vitale dell’acqua celestiale. L’acqua è quella di Qhobu o Nun, l’abisso liquido primordiale. Gesù, il figlio divino di Maria, morirà su un palo con una traversa, ossia su una T.
L’iniziazione è una morte simbolica, che imita la discesa agli inferi di Kore e l’uccisione di Dioniso ed è, come sosteneva Aristotele, non un insegnamento, ma un’illuminazione del Noûs e un’emozione.
“Il miste deve disporsi – commenta Tonelli – in uno stato di coscienza , un sentire-intuire, dionisiaco, ovvero empatico con ciò che accadrà: non dovrà orân, ovvero «guardare» con la disposizione di animo egoica ordinaria, ma theástai (da cui théatron), vale a dire «guardare con bocca aperta, con meraviglia», in uno stato di coscienza che egli era sicuramente propiziato”[27] dai riti preparatori precedenti.
L’epopteía, come intuizione del sacro, arriva così come un baleno, un lampo di luce. La stessa luce di cui scrive Dante, Fedele d’Amore, nel XXXIII Canto della Divina Commedia:
“ma non eran da ciò le proprie penne:
se non che la mia mente fu percossa
da un fulgore in che sua voglia venne.
A l’alta fantasia qui mancò possa;
ma già volgeva il mio disio e ‘l velle,
sì come rota ch’igualmente è mossa,
l’amor che move il sole e l’altre stelle”.
Il sentire con le viscere, l’intuire, l’andare oltre l’ego, significa, oggi, in termini moderni, aprirsi al Sé, ossia aprirsi alla trasmutazione osiriaca dal corpo materiale al corpo di luce e il ri-collegarsi dell’essenza individuale all’Essenza infinita.
Ed ecco che nella ritualità massonica, che si pone come erede delle antiche ritualità, acquista il suo vero significato la ricerca della “vera luce”, che non è la luce solare e nemmeno quella lunare, ma quella dell’amor “che move il sole e l’altre stelle”.
Nella ritualità iniziatica ha un grande ruolo la disposizione d’animo, la disponibilità a porsi in uno stato superiore di coscienza, la teatralizzazione del rito, in quanto capace di far vedere, far sentire, far provare e di attivare quell’insieme di aperture percettive delle quali scrive Eraclito nei frammenti del suo spere che ci sono pervenuti.
Paul Foucart[28] scrive di una connessione tra Grecia ed Egitto, per quanto riguarda le ritualità misteriche sin dalla XII dinastia. Connessioni intensificatesi al tempo della XVIII. Nel IV secolo a.C. era attivo al Pireo un tempio dedicato a Iside e Osiride. Paul Foucart, con il suo puntuale studio sulle corrispondenze greche ed egizie, giunge alla conclusione che Demetra e Dioniso sono le stesse divinità di Iside e Osiride. Le tombe di Iside e Osiride si trovano a Nysa, nella valle del Giordano e gli inni omerici affermano che Dioniso è nato a Nysa.
“Nei periodi più antichi – scrive Plutarco – Dioniso era adorato con Demetra”. [29]
In merito alla derivazione della ritualità eleusina Paul Foucart scrive che molti autori, dopo Erodoto, hanno ripetuto che “Demetra e Dioniso erano le medesime divinità di Iside e Osiride; nessuno lo ha contestato, e gli Egiziani dell’epoca tolemaica hanno accetato questa identificazione”. [30]
Concludendo la sua analisi Foucard scrive: “Nello svolgere dal loro apparato mitologico le leggende che abbiamo esaminato e controllandole in base alle scoperte moderne, ci troviamo in presenza di un certo numero di fatti che hanno valore storico. A un’epoca contemporanea del Faraoni della XXII dinastia [VIII sec. a.C.], dei coloni egizi si stabilirono nel golfo di Atene, a Eleusi, che era il punto di migliore approdo della costa e l’intersezione della strada della Grecia del Nord e del Peloponneso. Con essi portarono le colture della vigna e dei cereali, fino ad allora conosciute, e il culto di Iside e Osiride, ai quali essi attribuirono quelle due arti e che erano gli dèi nazionali dell’intero Egitto. Senza enfasi, così come senza resistenza, gli indigeni fecero buona accoglienza alla coppia divina che apportò loro tali benefici; essi adorarono Osiride e Iside con il nome di Dio e Dea e, più tardi, con quello di Dioniso e Demetra”. [31]
Anche la Thesmoforia, festa il cui oggetto era glorificare l’unione di Dioniso e Demetra e la fecondità della terra, secondo Erodoto, era di origine egiziana, poiché furono le figlie dei Danai che le fecero conoscere i Pelasgi.
Demetra è per i Romani Cerere, dèa delle messi, accolta a furor di popolo a Roma su suggerimento della Sibilla, consultata in seguito ad una grande carestia.
Una leggenda tramandata da Plinio il Vecchio sostiene che Cerere trovò il frumento, mentre prima si viveva di ghiande e che lei stessa insegnò a macinare e a fare il pane in Attica e in Sicilia e per questo motivo fu considerata una dèa.
Nel culto della Cerere di Samotracia, del quale testimonia Erodoto, gli dèi del santuario erano chiamati Cabiri o Kabeiroi. Il culto è anteriore all’arrivo dei Greci nell’isola (VII sec. a.C.) e legato alla figura della Grande Madre: una donna seduta con un leone a fianco, il cui nome originario era Axieros. Figura prossima alla Cibele frigia o alla Dea Madre troiana del monte Ida, dai Greci assimilata a Demetra.
Figura che, non a caso, ritroviamo nelle carte dei Tarocchi Visconti Sforza, linguaggio iniziatico del Fedeli d’Amore.
A Samotracia si veneravano anche Ecate, con il nome di Zezynthia e Afrodite Zerynthia.
Kadmilos, accompagnato dai Cabiri, era lo sposo della Grande Madre Axieros ed era un dio della fertilità assimilato dai Greci a Hermes itifallico.
Divinità infere erano Axiokersos e Axiokersa, identificati in Ade e Persefone.
Il mito di Taliesin e della dèa Karidwen
C’è un filo logico che collega i riti della celtica Ceridwen e di Gwyddon, riservati sia agli uomini che alle donne, con quelli greci di Demetra e Dioniso e, conseguentemente, con quelli egizi di Iside e Osiride.
Ritroviamo il seme anche nel mito di Taliesin e della dèa Karidwenn (Ceridwen) che ricorda i mesi bui in cui il seme aspetta, nel ventre della terra, la rinascita. In una leggenda gallese, la strega “Ceridwenn si muta in gallina nera per mangiare Gwion, trasformatosi in chicco di grano. Qui il simbolismo è preciso: si tratta dei mesi “neri”, bui, dell’inverno (mizdu, miz Kerzu, novembre e dicembre in lingua bretone), che “ingoiano” il Sole; è il significato dell’ “Opera al Nero” degli alchimisti; è il luogo nel quale trascorre il tempo il Sole nascosto, prima della sua resurrezione”. [32] Nel mito Karidwen affida a Gwion la cura del calderone nel quale si sta formando il liquido magico che darà l’immortalità al figlio. In un momento di distrazione Gwion si versa su un dito tre gocce del liquido. Il liquido è bollente e Gwion si succhia il dito dolorante, assorbendo così il potere magico della pozione di Karidwen, mentre la restante parte, ancora nel calderone, diventa velenosa e inservibile.
Karidwen infuriata insegue Gwion che si trasforma in lepre, poi in pesce, in uccello e in un chicco di grano, che la dèa, trasformatasi in gallina, inghiotte rimanendo incinta. Dalla gravidanza della gallina-Karidwenn nasce Taliesin. I simboli sono evidenti: lepre, iniziazione della terra, pesce, iniziazione dell’acqua, uccello, prova dell’aria, chicco di grano, prova del fuoco (fuoco simbolicamente rappresentato dal chicco di grano che matura al sole e ne ha il colore). Inghiottito dalla gallina nera, la Terra, il chicco del grano, ossia il Sole, la ingravida. Taliesin, dunque, rappresenta il frutto delle nozze ierogamiche della Terra con il Sole e dell’iniziazione dell’uomo, che da Gwion, giovane garzone, diventa Taliesin, Fronte Luminosa, illuminato: il Kernunnos.
Karidwen è anche l’ultimo quarto di luna, la tetra Carabosse, la madre di tutti i dolori, dalla quale i Bretoni hanno derivato Carabassen o governante di presbiterio, perpetua, personaggio di umili condizioni, ma di notevole potere in virtù della sua loquacità. La Fata di Carabosse è anche la Primavera e in origine era Carabosse, la Grande sacerdotessa, la Ceridwen del paiolo magico ad inseguire il giovane destinato al sacrificio subito dopo essersi congiunto con lei. Dal mito deriva la fiaba del Gatto con gli stivali, dove il Marchese di Carabas è figlio di Carabosse. [33]
Karidwen è come Hecate, “signora – scrive Uberto Pestalozza – di un meraviglioso giardino, fucina gelosa di tutti i suoi incanti e di un altrettanto meraviglioso lebete d’oro, succeduto certo a una ben più antica pentola di argilla, prodigiosa caldaia di resurrezione, comune agli abitanti preceltici, cioè mediterranei, d’Irlanda, dentro cui insieme con foglie, fiori, semi, cortecce, radici fatate bolliva, prima tagliato a pezzi, il corpo di colui che la dea, in quanto maga e maga in quanto dea, voleva ringiovanire”. [34]
Karidwen condivide con Brighit l’animale determinativo: Scrofa bianca, che la collega alla costellazione del Cinghiale, attualmente dell’Acquario.
Karidwen è dunque divinità complessa, riassumente in sé molte caratteristiche della Dea Madre: donatrice di vita e di morte, iniziatrice, signora del Mondo Bianco.
La leggenda che ne narra il passaggio di stato, dall’essere il nano Gwyon Bach ad essere Taliesin, fronte d’argento, fronte luminosa (ossia illuminato), testimonia di un percorso iniziatico legato alla ritualità della Dea Ceridwen, i cui riti erano ancora attivi nel 1171 d.C. ed erano assimilabili a quelli di Demetra e di Cerere.
Gwyon, ci ricorda Panchaud[35], significa “Padre degli uomini”. “ I simboli del suo culto lo rivelano – aggiunge Panchaud – sotto il carattere di Mercurio-Hermes, dio del commercio e di tutte le relazioni sociali e d’un Apollo, in quanto dio della poesia, del sapere e della luce intellettuale; laddove Bel-Heol o Hélian non è che il dio della luce e del calore fisici. E’ ancora a Gwyon…. che si attribuisce l’invenzione della scrittura. E’ anche un Prometeo rivelatore e un mediatore tra Dio e l’uomo”. [36] Il determinativo Bach, dal significato di piccolo, secondo Mac Bain (dizionario) potrebbe anche ricondurre, con il significato di ubriaco, a Bacco (in assonanza con i riti eleusini). Il piccolo Gwyon, appartenente alla stirpe degli dèi, viene sottoposto ad una serie di prove dalla Dea Ceridwen, alla fine delle quali si incarna in un uomo-dio, che è Verbo.
Taliesin, nel venire al mondo come bambino, dopo essere stato partorito da Ceridwen, intona un gwuawd, un canto di lode. Di fronte a lui i bardi rimangono senza voce. Il suo equivalente irlandese è Fintan Bóchra, il fuoco brillante della parola.
Anche in questo caso un uomo-dio, nato da una dèa, è il Verbo. Il Verbo che si fa carne.
Nel ‘600, quando presero forma i Rituali della Massoneria ancora attualmente in uso, chi li compilò e, in particolare, Elias Ashmole, non potevano conoscere i testi egizi, tornati alla luce dopo la scoperta della Stele di Rosetta, ma conoscevano qual che rimaneva dei Riti Eleusini e di Cerere, della tradizione orfica, di quanto l’Umanesimo e il Rinascimento avevano recuperato della classicità e di quanto i Fedeli d’Amore avevano acquisito e conservato. Ashmole, come s’è detto, aveva inoltre presente la tradizione druidica che aveva legami con quella greca e con quella egizia.
Va inoltre considerato il culto di Iside, introdotto in Europa sin dai tempi dell’Impero Romano, durato nei secoli e, inseguito, trasferito nel culto di Maria.
Il culto di Maria, infatti, ha recepito molte delle tradizioni popolari, improntate e ricavate dall’antico culto degli dèi. Maria riceve tutti gli appellativi che, nell’antichità, ornavano Venere, Iside, Cibele: “Vergine Santa, Vergine Celeste, Madre di Dio, Genitrice di Dio, Regina del Cielo”. Diana le presta la falce di luna, Iside la rosa, Cerere le spighe di grano, mentre il colore delle “Madonne nere” ricalca quello delle dee dell’antico Egitto. In particolare la raffigurazione della Madonna col bambino, ricorda perfettamente quell’analoga di Venere col figlio Cupido, oppure quella di Iside, con in grembo il figlio Horus. Furono trasferiti a Maria gli attributi centrali di Venere, come la colomba, la conchiglia, la stella del mattino e della sera. Anche la “Rosa Mistica”o Rosa misterica, fu prelevata dalle antiche “Teotochie”, ovvero la capacità d’alcuni esseri umani, gli Eletti, di procreare esseri divini, dietro l’intervento autorevole di una divinità superiore.
Dobbiamo, inoltre, considerare che le madonne nere sono quasi tutte in relazione con luoghi pagani più antichi. Molti sono dedicati a Diana e Cibele. Un tempio dedicato a Iside è stato trovato a nord di Parigi, a dimostrazione della diffusione del suo culto. Il centro di culto di Iside era ad Arles, in Provenza. La maggior concentrazione delle madonne nere è nell’area compresa tra Lione, Vichy e Clemont Ferrand. Un’altra concentrazione la troviamo in Provenza e nei Pirenei orientali.
Iside è anche la Virgo Paritura dei Druidi.
Va, infine, considerato il fatto che i riti di Ceridwen erano ancora praticati, come s’è visto, nel XII secolo.
La tradizione dei riti del pane, pertanto, poteva essere nota, nonostante il silenzio dei geroglifici, i quali, risvegliati, ne hanno mostrato le antiche radici.
La civiltà del pane
Il pane ha accompagnato l’essere umano fin dalla più remota antichità.
Fin dall’antichità, nell’area del Mediterraneo, gli esseri umani si sono alimentati soprattutto di pane. Il pane è anche un cibo nel quale si stratificano memorie ancestrali e valori simbolici e che ha svolto un ruolo primario all’interno delle relazioni sociali e nelle celebrazioni religiose.
Sembra che il luogo della vera nascita del pane sia l’Egitto. “Nel 500 a.C., Ecateo di Mileto – ci riporta Paolo Palmeri – chiamava gli Egiziani il «popolo mangiatore di pane» […] anche se sembra che il pane frumento fosse riservato ai faraoni […]. Sembra che siano stati gli Egizi ad usare la pasta lievitata e il forno per primi, per ottenere, un pane più morbido e che siano stati loro a diffonderlo fra la gente del Mediterraneo orientale: […]. Per questo riguarda gli antichi Greci, è noto che essi erano esperti nell’arte della panificazione e gli storici confermano la loro capacità di preparare oltre settanta tipi di pane, dal tipo speziato a quello al miele. […]. Ad Atene, durante le Termoforie, si celebrava una festa annuale primaverile in onore di Demetra e Kore, durante la quale si preparavano delle «focacce di sesamo e miele raffiguranti gli organi femminili, proprio per celebrare e propiziare la fertilità dei raccolti (Montanari,1993)»”. [37]
Da Erodoto apprendiamo che gli Egiziani impastavano il pane con i piedi, come mostra anche un dipinto tombale noto come la panetteria regale, raffigurante fornai della corte di Ramsete III (1198-67 a.C.).
Gli Egiziani avevano abbastanza dimestichezza con i fermenti dei cereali con i quali producevano la birra e li introdussero nella panificazione, in quanto simbolo di crescita e anche di elevazione spirituale. I pani destinati agli dèi venivano modellati in appositi contenitori d’argilla di forma conica ed erano talvolta cosparsi di cumino.
Con l’avvento del cristianesimo il pane, in quanto comunione eucaristica, diviene l’alimento sacro per eccellenza essendo il corpo di Cristo, ma, come s’è visto, l’identificazione del pane con il corpo di un dio non è altro che la trasposizione di un’ambito cristiano del mito di Osiride. Il pane diventa oggetto di invocazione al divino: “Dacci oggi il nostro pane quotidiano”.
Il grano “rappresenta per l’uomo – scrive Palmieri -, più che ogni altro cibo, non solo il riscatto dalla fame, ma anche la sua abilità di dominare la natura. Il pane, e quindi il grano, nella società contadina è il simbolo per eccellenza dei cicli stagionali e si inserisce in tutta una serie di riti che riscattano da quel «senso di insicurezza e precarietà su cui si basava il vivere quotidiano (Mento,2003»”. [38] Inoltre, aggiunge Palmieri, il “pane rappresenta spesso uno degli elementi più presenti in numerosi rituali del ciclo della vita (nascita, iniziazione, matrimonio, morte) e dell’anno (inseminazione, coltivazione, raccolta, feste associate ad essi e ad altre occasioni religiose). Infatti, nelle società arcaiche, la vita era concepita in termini di cicli ed il grano e quindi la produzione del pane erano sentiti come metafore di questa concezione”. [39]
Il pane e la libera panificazione sono stati anche oggetti di oppressioni e di rivolte. Nel Medioevo nessuno poteva macinare il grano con le mole domestiche e a nessuno era consentita la libera panificazione. Stanchi dell’oppressione congiunta dei lord, dei vescovi, del sovrano e dei ricchi, nel 1381 i contadini inglesi insorsero per affermare il diritto di impastare la pasta a proprio modo. Un ispiratore della rivolta fu John Wycliffe, traduttore della Bibbia in inglese e teorico della povertà evangelica.
Fratelli del pane
Per concludere. I Massoni sono fra loro Fratelli. Frater, fratello, deriva dal sanscrito brathar, dalla radice bhar, dal significato di sostenere, nutrire. Essendo il nutrimento dei “mangiatori del pane”, come s’è visto nella realtà e nella tradizione mitologica e rituale, il pane, è reale e simbolico, nutrimento fisico e spirituale. I Fratelli, pertanto, si nutrono di un pane dalle molteplici valenze.
La graduazione in Apprendisti, Compagni e Maestri, ne indica anche il rapporto con il nutrimento.
L’Apprendista è colui che deve essere nutrito, mentre il Compagno (cum panem) è colui che condivide il pane. Infine, il Maestro è il custode del pane.
Il pane, nutrimento fisico e spirituale, simbolico e archetipico, collega pertanto la ritualità massonica alle antiche ritualità e ai fondamenti della civiltà cresciuta attorno alle rive del Mediterraneo e definita, non senza motivo, “civiltà del pane”.
[1] Michel Raoult, Les Druides – Les sociétés initiatiques celtiques contemporaines – Ed. du Rocher
[2] Citazione in Maurice Bouisson, I riti della magia, SugarCo
[3] Maurice Bouisson, I riti della magia, SugarCo
[4] Maurice Bouisson, I riti della magia, SugarCo
[5] Mircea Eliade, Storia delle credenze e delle idee religiose, vol. primo, Bur
[6] Mircea Eliade, Storia delle credenze e delle idee religiose, vol. primo, Bur
[7] Citazione in Vito Mancuso, Dio e il suo destino, Garzanti
[8] Eleusis e Orfismo, a cura di Angelo Tonelli, Bur
[9] Maurice Bouisson, I riti della magia, SugarCo
[10] Dimitri Meeks, in AA.VV., Geni, Angeli e Demoni, Ed. Mediterranee
[11] Dimitri Meeks, in AA.VV., Geni, Angeli e Demoni, Ed. Mediterranee
[12] Dimitri Meeks AA.VV. Geni, angeli e dèmoni, Edizioni Mediterranee
[13] Giorgio Colli, La sapienza greca, Adelphi
[14] Giorgio Colli, La sapienza greca, Adelphi
[15] Giorgio Colli, La sapienza greca, Adelphi
[16] Miroslav Marcovich, in Eraclito, testimonianze, imitazioni e frammenti, Bompiani
[17]Miroslav Marcovich, in Eraclito, testimonianze, imitazioni e frammenti, Bompiani
[18] Mircea Eliade, Storia delle credenze e delle idee religiose, vol. primo, Bur
[19] Eleusis e Orfismo, a cura di Angelo Tonelli, Bur
[20] Eleusis e Orfismo, a cura di Angelo Tonelli, Bur
[21] Eleusis e Orfismo, a cura di Angelo Tonelli, Bur
[22] Eleusis e Orfismo, a cura di Angelo Tonelli, Bur
[23] Maurice Bouisson, I riti della magia, SugarCo
[24] Mircea Eliade, Storia delle credenze e delle idee religiose, vol. primo, Bur
[25] Paul Foucart, Les mystères d’Éleusis, Pardès
[26] Eleusis e Orfismo, a cura di Angelo Tonelli, Bur
[27] Eleusis e Orfismo, a cura di Angelo Tonelli, Bur
[28] Paul Foucart, Les Mystères d’Eléusis, Pardès.
[29] Plutarco, Frammenti, citato in Paul Foucart, Les Mystères d’Eléusis, Pardès
[30] Paul Foucart, Les Mystères d’Eléusis, Pardès
[31] Paul Foucart, Les Mystères d’Eléusis, Pardès
[32] Guy Trévoux, Lettere, cifre, dèi – Ecig
[33] Guy Trevoux, Lettere, cifre, dei, Ecig
[34] Uberto Pestalozza, Nuovi saggi di religione mediterranea, Sansoni
[35] Edward Panchaud, Le druidisme; ou, Religion des anciens Gaulois, Losanna 1865
[36] Edward Panchaud, Le druidisme; ou, Religion des anciens Gaulois, Losanna 1865
[37] Paolo Palmieri, La tradizione e l’uso del pane nel Mediterraneo. Spunti per un’indagine antrolpologica – Narrare i gruppi – Prospettive cliniche e sociali – Anno II Vol.II Settembre 2007.
[38] Paolo Palmieri, La tradizione e l’uso del pane nel Mediterraneo. Spunti per un’indagine antrolpologica – Narrare i gruppi – Prospettive cliniche e sociali – Anno II Vol.II Settembre 2007.
[39] Paolo Palmieri, La tradizione e l’uso del pane nel Mediterraneo. Spunti per un’indagine antrolpologica – Narrare i gruppi – Prospettive cliniche e sociali – Anno II Vol.II Settembre 2007.