
di Silvano Danesi
Se la Massoneria ritiene di essere un’istituzione iniziatica che accoglie le tradizioni di conoscenza delle eterie iniziatiche che sono esistite e hanno operato nel corso dei millenni, non può essere un club inglese al servizio di Sua Maestà, il quale è anche a capo della Chiesa anglicana.
La Massoneria non è nata nel 1717 ad opera degli Hannover e i suoi fondamentali non sono le costituzioni redatte dal prete protestante presbiteriano scozzese James Anderson e dal ministro della Chiesa anglicana John Theophilus Desaguliers.
La Massoneria, per ritrovare sé stessa, deve fare i conti con i nodi della tradizione iniziatica.
Il Maestro è cosciente di avere un corpo di luce
I miti, che fanno parte della Tradizione, ci dicono che l’essere umano è costituito con le stesse leggi con le quali è costituita la Natura universale (Zoé), ma i miti ci dicono anche che l’essere umano è un Daimon (Sé) incarnato, il quale, come persona (maschera), realizza il progetto di vita da lui stesso architettato.
Qui il concetto di anima assume il suo significato più alto ed essenziale e introduce il concetto di Daimon, ossia di quello che la moderna psicologia definisce Sé.
“La testa – scrive R.B. Onians – è la parte divina e dominante ed è abitata (okein) dalla psiché che è un Daimon e sopravvive”. [i]
Democrito afferma che la psiché è la dimora del Daimon. Senocrate dice che è felice colui che ha una buona psiché: questa è per ciascuno il suo Daimon.
Per un Romano, “il cervello con il suo fluido era la materia costitutiva della vita, della generazione, e il genius ne era lo spirito”. [ii]
Il genio, “come la psiché si rivela – scrive Onians – la parte dell’uomo destinata a sopravvivere alla morte. Era l’unica parte di un uomo onorata durante la vita come un dio, una condizione, questa, associata naturalmente all’immortalità; ed è noto che la parte che sopravvive alla morte era un «dio», deus parens, un «dio generatore», onorato dai familiari superstiti nei Parentalia”. [iii]
Il corrispettivo femminile del genio è la iuno (nome della dea Giunone).
Genio e Iuno (come Jano e Jana) derivano dalla radice indoeuropea J, dal significato di generare.
Nelle antiche credenze germaniche e celtiche si riteneva che la sede dell’anima fosse nella testa. Nella cultura druidica il Daimon può essere identificato nell’Awen originario di ciascun individuo (Triadi bardiche).
Nella Bhagavad Gitá è scritto: “L’anima abita il corpo materiale. Essa vi risiede mentre il corpo passa progressivamente dall’infanzia alla giovinezza, all’età adulta e poi alla vecchiaia. Dopo la morte lascia il corpo vecchio e inutilizzabile per vestirne un altro […]. Sappi, Arjuna, che non puoi annientare ciò che pervade il corpo intero. L’anima è imperitura e nulla può distruggerla”.
Aristotele (Dell’anima) scrive che “quella parte di anima che chiamiamo intelletto (nous), e dico intelletto non per cui l’anima pensa e come concepisce, non è in atto in nessuna delle cose prima di pensarle. Perciò non è ragionevole che sia mescolata al corpo. […]. Hanno ragione quindi quelli che sostengono che l’anima è il luogo delle forme, solo che non l’anima intera è tale, ma l’intellettiva e che non si tratta di forme in atto, ma in potenza”.
L’anima, in quanto pasiché-daimon o genio è l’elemento costitutivo del grado di Maestro.
L’età del Maestro è sette anni e più. In questo caso non è tanto il numero sette che ci rende il significato del grado, quanto quel: «e più» che indica un oltre e che trova la sua giustificazione nel nove.
Nove, per l’antico Egitto, è il numero dell’Enneade ed è il numero che indica il «plurale del plurale», modo arcaico per distinguere la totalità.
Il nove è anche il numero originario delle arti liberali, ridotte a sette nella Tarda Antichità con il declassamento dell’Architettura e della Medicina, ossia delle due arti che riguardano più da vicino il Tempio dell’Uomo.
Il Maestro va oltre le sette arti liberali e entra nella conoscenza delle arti della costruzione e del mantenimento del Tempio dell’Uomo, che è il Tempio del Daimon.
Il Maestro tende alla conoscenza di sé come Daimon, come scintilla divina.
La tradizione greca ci aiuta nella comprensione del percorso al quale si accinge il Maestro.
Percorriamolo passo passo.
Focalizziamo anzi tutto l’attenzione sul processo manifestativo, così come ci viene offerto dalla filosofia greca e dalla teologia egizia.
In sintesi, se una sintesi è possibile, si potrebbe dire che nell’Arché-Phýsis (unicità, zero, tenebra, abisso, silenzio, apeiron, campo dell’informazione), risiedono:
il Sophon, l’aperto (la potenzialità dell’apertura), che è la Luce della Ragione che rischiara il mondo (Ragione intesa come potenza dell’Essere). Sophos è Sapiente e Sophia è Sapienza. Il Sophos è l’aspetto sapiente dell’Arché. Sophia è la Sapienza divina. La Sapienza divina è l’apertura che consente a manifestazione, ossia un atto creativo: un atto erotico.
Fanes- Eros, la Luce al di là della luce che è impulso, essenza primigenia vivificatrice dell’universo;
Lógos, che è azione, energia, vibrazione, lavoro ordinante e che è l’aspetto creativo dell’Archè, che risponde alla Ragione del Sophon e all’impulso di Fanes-Eros, creando materia e vita universale (zoé).
Possiamo anche presupporre che da Phanes-Eros derivi l’impulso affinché il Lógos emetta il soffio igeno, lo spiritus, dando luogo all’anima mundi.
Se questi concetti reggono, possiamo dire che siamo figli di una Grande Madre, la tenebrosa Arché-Phýsis, il silente abissale campo dell’informazione, lo zero e di una Trinità, che è: Ragione (Sophon), Impulso (Phanes-Eros) e Azione (Lógos).
Nel mito cosmogonico egizio, Tum Atum, Colui che è, Colui che Non è, emerge dal Nun, l’oceano primordiale.
Tum Atum è descritto radiante nel suo Uovo Cosmico, uscendo dal quale prese forma ed emerse dall’Oceano d’Energia su una Collina primordiale, a forma di piramide, sulla cui cima era posta la pietra primordiale detta Benben, sulla quale si posava il Bennu, la Fenice, simbolo della perenne rinascita.
Atum, una volta emerso dall’Oceano inizia, per successive divisioni, a dare vita all’esistente.
Nel Libro detto dei Morti (Per em Ra, Per salire alla luce), a proposito di Tum Atum è scritto: “Io sono l’Anima Creatrice dell’Abisso Celeste. Nessuno vede il mio nido, nessuno può spezzare il mio Uovo. Io sono il Signore”. [iv]
Dal mito ricaviamo alcune fondamentali informazioni: la forma primordiale è una piramide; sulla cima della piramide c’è il Benben, che è la punta degli obelischi o il pyramidion.
Possiamo pensare al mito anche in altri termini.
Proviamo a declinarlo in fisica contemporanea.
Nel Campo quantico Zero, infinito oceano di energia, al quale soggiace il Campo in-formativo, un punto comincia a vibrare, dando origine ad un campo morfogenetico, Tum Atum, dal quale deriva la forma primordiale.
La piramide, in egizio mr, si pone pertanto come forma primordiale.
Tum Atum è simile al Lógos, che è in Archè ed è la sua azione plasmante la molteplicità degli eventi. Il Lógos è esterno e interno alll’Arché.
En archê ên ho Lógos, kai ho Lógos ên pros ton Theón, kai Theòs ên ho Lógos.
Nel Principio era il Lógos, il Logos era presso Theón e il Lógos era Theós.
Theós deriva dai verbi theeîn, correre e theâsthai, vedere, da cui deriva il sostantivo theós, malamente tradotto con Dio e meglio con “colui che corre verso l’evidenza”: il Demiurgo.
Theós, nel Vangelo di Giovanni, è Lógos. Ed ecco che il Prologo acquista il suo insostituibile ruolo di chiave scientifica del mito, in quanto sintesi estrema del divenire al mondo, ossia della legge del farsi mondo del Principio.
Tum Atum è, pertanto il Demiurgo egizio e la collina primordiale sulla quale si posa è una piramide, la quale assume tutte le caratteristiche del Campo dello spazio-tempo, ossia del Campo gravitazionale: il Campo di forma universale nel quale avviene la manifestazione del Puro Pensiero.
Nel Campo gravitazionale agiscono le regole del Demiurgo, che le piramidi rendono ora note a chi ne sa leggere i messaggi segreti.
“Eraclito – osserva Aristotele – dichiara che il principio primo (arché), l’esalazione (o vapore) da cui prende forma ogni altra cosa, è la psiché”.
La psiché come archè, ossia come spirito cosciente e intelligente universale, consente di stabilire una relazione di reciprocità con la psichè individuale, ossia con il Daimon, che si pone come frattale dell’Arché.
Se l’Archè è il principio principiante di ogni realtà, il Daimon è il principio principiante dell’essere umano. Se il campo informativo fondamentale dà luogo ai campi dei quali è costituita la realtà universale, il campo informativo individuale dà luogo ai campi dei quali è costituito l’individuo essere umano.
Eraclito definisce il principio principiante “fuoco semprevivente”.
Il genius e la psiché, secondo la tradizione romana e greca, hanno forma di serpente, una fiamma di fuoco, come il drago di fuoco dei Germani, il seme di luce degli Indù, che è seme di Agni, il dio del fuoco. Una leggenda sostiene che Servio Tullio fu generato da un fallo di fuoco apparso nel focolare. Un’altra leggenda sostiene che Cecilio, il fondatore di Preneste, sarebbe stato generato da una scintilla nel focolare. Questi sono solo alcuni esempi di un’idea diffusa che il Daimon-psiché o il genius fossero fiamme, serpenti di fuoco, soffi ignei che entravano nel nascituro e abbandonavano il morituro.
L’immagine del Daimon come scintilla divina è presente anche nei Vangeli gnostici.
Nel vangelo di Tomaso si legge. “Gesù disse: Se vi domandano: Donde venite?. Rispondete loro: Siamo venuti alla luce, dal luogo ove la luce nasce da se stessa…”.
In altra parte si legge. “Nell’intimo dell’uomo di luce c’è luce e illumina tutto il mondo”.
Nel Vangelo di Filippo si legge: “L’anima e lo spirito sono nati dall’acqua, dal fuoco. Dall’acqua, dal fuoco e dalla luce nacque il figlio della camera nuziale. Il fuoco è l’unzione, la luce è il fuoco. Parlo non di questo fuoco che non ha forma, ma di quell’altro che ha la forma bianca della bella luce e dà bellezza”.
Il figlio della camera nuziale è l’angelo, ossia ancora una volta il Daimon.
Anche la tradizione cattolica non è estranea all’idea dello spirito come soffio igneo, come dimostrano le immagini relative alla Pentecoste.
Il passo da compiere da parte del Maestro è pertanto il riconoscimento del Daimon come la scintilla di fuoco semprevivente essenza dell’essere umano; è il riconoscimento dell’essenza divina presente nell’essere umano; è il riconoscimento del corpo di luce.
Nella leggenda massonica riguardante il Rituale di Maestro, preparato da Elias Ashmole alla fine del 1648″ (Ashmole “è considerato nella tradizione druidica del Druid Order come colui che ha trasmesso ai primi massoni speculativi l’iniziazione corrispondente alle tre funzioni tradizionali del druidismo”[v]), l’iniziando al grado impersona Hiram e viene colpito dal 2° sorvegliante, nel ruolo di compagno, (Oterfut) con un regolo sulla parte destra del collo, dal 1° sorvegliante, nel ruolo di compagno, (Eterkin) con una squadra sulla nuca e, infine, dal Maestro Venerabile, nel ruolo di compagno, (Mohabon) con un maglietto sulla fronte. Il colpo finale lo uccide. Deposto in una bara, l’iniziando viene sollevato dai Maestri, che avevano impersonato Eterkin e Oterfut e dal Maestro Venerabile (Mohabon), i quali lo riportano in vita.
Se consideriamo Oterfut come la corruzione fonetica dell’inglese other food, ossia “altro cibo”, Eterkin come la corruzione fonetica di ether kind, ossia “genere eterico” e Mohabon come la corruzione di Mabon, ossia di Lug, il dio celtico equiparabile al greco Apollo e all’egizio Horus, possiamo capire cosa avviene davvero.
I protagonisti, come sempre nella tradizione, sono ambivalenti: sacrificatori e risuscitatori. Sacrificatori come compagni, resuscitatori come maestri.
L’uccisione avviene con gli strumenti dello spazio tempo, ossia del campo gravitazionale, proprio della corporeità, ma il nome degli uccisori contiene un messaggio preciso: “Un altro cibo, di genere eterico, come quello di Horus”, ossia “il corpo di luce che risorgerà avrà bisogno di un cibo eterico, non più corporale”.
Ed ecco che la tradizione ebraica, ben conosciuta al tempo di Ashmole, ci viene in soccorso.
“Nella tradizione ebraica – scrive in proposito Stanislav Grof – il Giardino dell’Eden aveva diversi livelli: un Giardino dell’Eden Inferiore e un Giardino dell’Eden Superiore. In quello inferiore le anime abitavano in corpi dalla forma simile a quella che il defunto aveva avuto in vita e provavano vari tipi di piaceri spirituali. Nel Giardino dell’Eden Superiore le anime abitavano la loro vera essenza e godevano di vari tipi di piaceri spirituali, più grandi ed esaltanti di quelli del Giardino inferiore. Quando una persona moriva, l’anima (nefesh) saliva al Giardino dell‘Eden Inferiore. Il corpo che occupava era di natura molto rarefatta: si trattava di un genere di energia che non richiedeva cibo bevande e che riceveva il suo sostentamento attraverso il senso l’olfatto. Dopodiché, l’anima saliva più in alto fino al Giardino deli Eden Superiore (Neshmash), dove riceveva il suo sostentamento dallo splendore della Presenza Divina”.[vi]
Il passo successivo, riguarda, a questo punto, la resurrezione, ossia il messaggio autentico e liberante contenuto nel rituale relativo al Maestro.
Il concetto di resurrezione nei Vangeli gnostici scoperti a Nag Hammadi (vicino all’antica Tebe, ora Luxor, in Egitto) trova una definizione interessante, in quanto la resurrezione è una condizione da conquistare prima della morte corporale.
Nel Vangelo di Filippo è scritto: “Chi non ottiene prima la resurrezione, costui morirà”.
E ancora: “Fin che siamo in questo mondo conviene che acquistiamo la resurrezione affinché, quando ci spogliamo della carne, ci troviamo nel riposo, non dobbiamo andare nel luogo di mezzo: sono molti, infatti, coloro che sbagliano lungo il cammino”. (Vangelo di Filippo).
Sempre nel Vangelo di Filippo: “Quanti affermano che prima si deve morire e poi risuscitare, si ingannano. Se da vivi non ottengono la resurrezione, quando moriranno non otterranno nulla”.
Che cosa è la resurrezione?
La risposta ci viene ancora dal Vangelo di Filippo: “L’immagine deve risorgere per mezzo dell’immagine. Lo sposo e l’immagine penetrano nella verità per mezzo dell’immagine. Questa è l’apocatastasi [reintegrazione]”.
Per capire il testo è necessario chiarire che per immagine si intende l’angelo, che è l’alter ego di ognuno di noi. L’angelo è il nostro «io» trascendente, ossia quello che in termini moderni è detto Sé, che i Greci chiamavano Daimon e gli Egizi Ba. Un essere di luce: un’immagine.
La resurrezione è lo sposalizio sacro, nella “camera nuziale”, dell’evento-uomo con il proprio angelo, ossia dell’essere umano con il proprio Sé, con il proprio Daimon, con il proprio Ba.
Questa mistica identificazione è ben spiegata sempre nel Vangelo di Filippo ove è scritto: “L’uomo si associa con l’uomo, il cavallo si associa con il cavallo, l’asino si associa con l’asino: le specie si associano con quelli della loro specie. Allo stesso modo, lo Spirito si associa con lo Spirito, il Lógos è in comunione con il Lógos, e la luce è in comunione con la luce. Se tu diventi ciò che è in alto, ciò che è in alto si depositerà su di te”.
La resurrezione è, pertanto, il risultato di quell’imperativo: “Conosci te stesso”, che l’iniziando incontra sin dai primi passi sulla via che lo può condurre all’unione con il Lógos (carne vera) e con lo Spirito (sangue vero), ossia alla presa d’atto che il suo vero essere è il Nous, puro pensiero, oggi diremmo frattale del campo informativo fondamentale. Nel testo gnostico “Le tre stele di Seth” è scritto: “Io sono tuo figlio e tu, padre mio, sei il mio intelletto”.
La resurrezione è anche il riconoscimento del proprio corpo di luce, “l’abito splendido che mi ero tolto”. “Non appena lo ricevetti, mi parve che l’abito fosse diventato lo specchio di me stesso […] e con esso ricevetti tutto”. (Atti di Tommaso – Il Canto della Perla).
La gnosi si pone, così, come presa di coscienza della filiazione divina dell’essere umano.
“Gnosi – scrive Luigi Moraldi nel commento ai Vangeli Gnostici (Adelphi) – è conoscenza di sé stesso e il «Regno» è da ricercare nell’intimo di ogni persona, che è sostanzialmente di origine divina. È una gnosi intimamente associata all’identificazione del conoscente con il conosciuto”.
Il corpo di luce è l’Akh o Akhu egizio, l’anima spirituale, la psichè come sede del Daimon, primo involucro dello spirito divino incarnato. Da Akhu deriva Sakhu, la cui s e causativa. Nella ritualità egizia, essere divenuto Sakhu è essere trasfigurato nella sfera del sacro.
Un grande iniziato qual era Carl Gustav Jung ha introdotto nel secolo scorso il concetto di individuazione (o processo di individuazione, sinonimo di quel processo psichico unico e irripetibile di ogni individuo che consiste nell’avvicinamento dell’Io al Sé, cioè con una crescente integrazione e unificazione dei complessi che formano la personalità. L’avvicinamento avviene tramite l’attribuzione di significato ai simboli e la loro interpretazione che l’individuo incontra durante la sua vita. Il simbolo lo si può trovare nel mondo interno e nel mondo esterno. La formazione interna avviene tramite regressioni e progressioni della libido. La sincronicità invece aiuterebbe l’individuo a vedere simboli non solo al suo interno ma anche nel mondo che lo circonda. Questo percorso designa quindi una sorta di “viaggio spirituale” verso una maggiore consapevolezza di sé.
I simboli e la loro conoscenza, in questo percorso, assumono un’importanza fondamentale. Non a caso, nel Vangelo di Filippo è detto: “La verità non è venuta nuda in questo mondo, ma in simboli e immagini. Non la si può afferrare in altro modo”.
Il cammino del Maestro è, a questo punto, indicato dalla celebre terzina di Dante Alighieri: “Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza”.
[i] R.B.Onians, Le origini del pensiero europeo, Adelphi
[ii] R.B.Onians, Le origini del pensiero europeo, Adelphi
[iii] R.B.Onians, Le origini del pensiero europeo, Adelphi
[iv] Libro dei Morti, Cap. XVII,50-51
[v] Michel Raoult, Les druides- Les sociétes initiatiques celtiques contemporaines – Edizion du Rocher
[vi] Stanislav Grof, L’ultimo viaggio, Feltrinelli


