I TRE FIGLI DI NOÈ

Set 18, 2023 | RELIGIONE

di Filippo Maria Leonardi

Il libro delle Genesi descrive in maniera dettagliata la genealogia dell’uomo a partire da Adamo con tutta una sequela di discendenti: Seth, Enosh, Chenan, Mahalaleel, Jared, Enoc, Metushela, Lamec, Noè, ecc. In realtà, poiché il testo è da interpretare in modo allegorico, tutti questi nomi non indicano delle persone realmente esistite ma sono la denominazione di princìpi cosmologici. Lo suggerisce il fatto che la genealogia dell’uomo è indicata in Gn 5:1 con il termine ebraico toledoth che è lo stesso già usato per indicare in Gn 2:4 le generazioni dei Cieli e della Terra. D’altra parte il nome di ogni personaggio ne rivela agevolmente il significato simbolico.

Come esempio possiamo considerare i tre figli di Noè dimostrando che essi corrispondono esattamente ai tre guṇa della tradizione indù.

Le tre tendenze della natura

Nel sistema filosofico del Sāṃkhya i guṇa sono le tre tendenze della natura detta prakṛti cioè la “procreatrice”. Così ce lo spiega René Guénon: «i tre guṇa sono: sattva, la conformità all’essenza pura dell’Essere o Sat, che è identificata con la luce intelligibile o la conoscenza, e rappresentata quale una tendenza ascendente; rajas, l’impulso espansivo, secondo il quale l’essere si sviluppa in un certo stato e, in qualche modo, a un determinato livello dell’esistenza; infine, tamas, l’oscurità, assimilata all’ignoranza e rappresentata quale una tendenza discendente».

Queste tre tendenze sono associate simbolicamente ai tre colori fondamentali bianco, rosso e nero. Più precisamente: sattva corrisponde al bianco che è la somma di tutti i colori; rajas dalla radice rañj “colorato”, corrisponde al rosso che è il colore più acceso; tamas che significa “oscurità” corrisponde al nero. Per questo motivo in alcune traduzioni i tre termini sono resi rispettivamente con albedo, rubedo e nigredo, ma questa denominazione è fuorviante perché normalmente si riferisce alle tre fasi dell’opera alchemica in cui i colori hanno un significato differente. Infatti, mentre per i guṇa il rosso corrisponde alla tendenza espansiva intermedia tra il nero e il bianco, per l’alchimia il rosso indica la fase finale di compimento dell’opera.

Un altro errore di traduzione è evidenziato da René Guénon: «si può vedere quanto siano insufficienti e persino false le usuali interpretazioni degli orientalisti, soprattutto per i primi due guṇa, le cui denominazioni rispettive vengono tradotte con “bontà” e “passione”, quando non contengono invece niente di morale né di psicologico». Tale errore ormai coinvolge non soltanto gli studiosi occidentali, ma gli stessi orientali quando tentano di esprimere le loro dottrine nelle lingue occidentali che però non possiedono termini equivalenti. Così ad esempio anche la traduzione italiana della Bhagavadgītā a cura del movimento cosiddetto Hare Krishna riporta la stessa impropria terminologia: «la natura materiale è formata da tre influenze: virtú, passione e ignoranza». Tali denominazioni hanno valore soltanto se intese, per analogia, come rappresentazioni specifiche di princìpi molto più generali che agiscono per tutta la manifestazione universale: «Prakṛti, pur essendo necessariamente una sola nella sua “indistinzione”, contiene in sé una triplicità che, attualizzandosi sotto l’influsso “ordinatore” di Puruṣa, produce le sue molteplici determinazioni. Infatti possiede tre guṇa o qualità costitutive, che sono in perfetto equilibrio nella sua indifferenziazione primordiale; ogni manifestazione o modificazione della sostanza rappresenta una rottura di questo equilibrio, e gli esseri, nei loro differenti stati di manifestazione, partecipano dei tre guṇa in gradi diversi e, per così dire, secondo proporzioni indefinitamente varie».

Dal punto di vista strettamente materiale, i tre guṇa, allo stesso modo dei quattro elementi della filosofia classica, rappresentano simbolicamente delle proprietà materiali: «nell’acqua e nella terra, ma soprattutto nella terra, è tamas che prevale: fisicamente, a questa forza discendente e comprimente corrisponde la gravitazione o la pesantezza. Rajas predomina nell’aria: così questo elemento è inteso come dovuto essenzialmente ad un movimento trasversale. Nel fuoco è sattva che predomina, poiché il fuoco è l’elemento luminoso; la forza ascendente è simboleggiata dalla tendenza della fiamma ad innalzarsi, e si traduce fisicamente nel potere di dilatazione del calore, in quanto esso si oppone alla condensazione dei corpi».

I tre figli di Noè

Ora vediamo come la stessa dottrina è espressa in forma allegorica nel libro della Genesi dove i tre guṇa corrispondono ai tre figli di Noé. Per prima cosa dobbiamo notare che il nome Noach deriva da una radice ebraica che significa “riposo”. Questo si riferisce alla natura nel suo stato primordiale di equilibrio e indifferenziazione. Antoine Fabre d’Olivet traduce propriamente il nome di Noè con “riposo della Natura”. Tale concetto è associato nella Bibbia al diluvio universale che è l’annullamento di tutte le differenziazioni introdotte dal processo di creazione.

Il primogenito di Noè è chiamato Shem da cui la stirpe dei cosiddetti “semiti”. Questo nome deriva da una radice che significa “luminoso” ma anche “sonoro” un po’ come il latino clarus che indica “luminosità” ma anche “clamore” e “fama”. E allo stesso modo anche l’ebraico shem, che significa “nome”, indica anche la celebrità e la fama. In ebraico sham è un avverbio di luogo che indica qualcosa che emerge rispetto allo spazio circostante, dunque indica qualcosa di superiore, di evidente, di luminoso e importante come ad esempio i cieli shamayim. Tutti questi significati sono racchiusi nei giochi di parole presenti nel testo biblico in Gn 11 dove si parla della torre di Babele: «essi trovarono una piana nella terra di Shinar e si stabilirono là (sham) […] e dissero “costruiamoci una città e una torre con la cima nei cieli (shamayim) e facciamoci un nome (shem)”». Antoine Fabre d’Olivet spiega il significato del nome di Shem: «il segno della durata relativa e del movimento che gli si riferisce e il segno dell’azione esteriore, impiegato come collettivo finale, compongono una radice che produce l’idea di tutto quello che si distingue all’esterno per la sua elevazione, il suo clamore, la sua dignità. In una accezione più ristretta è il nome proprio di una cosa, la designazione particolare di un luogo notevole o di un tempo lontano; è l’indicazione, il segno che lo fa riconoscere, la rinomanza, il clamore, la gloria che gli si attribuisce. Nell’accezione più estesa è lo spazio etereo, l’empireo, i cieli». In definitiva il nome di Shem si riferisce a qualcosa di luminoso che tende verso l’alto, perciò corrisponde perfettamente a sattva.

Il secondo figlio di Noè si chiama invece Cham che significa “caldo”, “bruciato”, “scuro” e corrisponde altrettanto perfettamente a tamas che significa “oscurità”. Il fatto che Cham fosse “scuro” e che la sua progenie fosse stata maledetta da Noè, fu utilizzato storicamente per giustificare lo schiavismo nei confronti degli africani di pelle scura e questo deve far riflettere sui danni che possono derivare dalle interpretazioni letterali dei testi scritti in forma allegorica. Fabre d’Olivet spiega il significato del nome di Cham: «questo nome è totalmente l’opposto di quello di Shem. Il segno Ch che lo costituisce, ricorda ogni idea di sforzo, ostacolo, fatica e lavoro. La radice che risulta dalla sua unione con il segno dell’azione esteriore, impiegato come collettivo, esprime la curvatura, la deviazione, una cosa che si inclina verso le parti inferiori: è il calore che deriva da una forte compressione; è il fuoco nascosto nella Natura […] è il colore scuro, la nerezza che risulta dalla loro azione». In definitiva il nome di Cham si riferisce a qualcosa di oscuro che tende verso il basso, perciò corrisponde perfettamente a tamas.

Il terzo figlio di Noè si chiama Iapheth. Il suo nome deriva dalla radice PTH che significa “estensione”. Secondo Fabre d’Olivet: «questo nome si colloca in una sorta di mezzo tra quelli di Shem e Cham […] in senso generico indica l’estensione materiale, lo spazio indefinito; e in un senso più ristretto, la larghezza». Il significato del nome di Iapheth corrisponde perfettamente a rajas che indica la tendenza espansiva, intermedia tra sattva e rajas.

In conclusione possiamo constatare che i tre figli di Noè, dal punto di vista simbolico, sono l’equivalente dei tre guṇa. Soltanto l’ordine in cui sono menzionati sembra non concordare, ma in Gn 9:24 è scritto che Cham è il figlio minore di Noè, per cui se ne deduce che Iapheth sia il secondogenito. Di conseguenza l’ordine di generazione è ShemIaphethCham rispettando l’ordine dei tre guṇa dal superiore all’inferiore: sattvarajastamas.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:

– René Guénon, Introduzione generale allo studio delle dottrine indù, Adelphi, Milano, 1989, p. 185 < Éditions Véga / La Maisnie, Paris, 1921.

– René Guénon, Studi sull’Induismo, Fratelli Melita Editori, La Spezia, 1989, p. 50.

– René Guénon, L’uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta, Adelphi, Milano, 1989, p. 47 < Les Éditions traditionnelles, Paris, 1925.

https://www.treccani.it/enciclopedia/guna_%28Dizionario-di-filosofia%29/

Bhagavadgītā, a cura di A. C. Bhaktivedanta Swami Prabhupada Acarya, The Bhaktivedanta Book Trust Italia, 1990.

– Antoine Fabre d’Olivet, La langue hébraïque restituée, 1815 > Ed. L’Age d’Homme, Lausanne, 1985.

 

Silvano Danesi

Silvano Danesi

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