di Silvano Danesi
“La tradizione druidica celtica
veniva trasmessa non solo mediante canti,
ma anche attraverso una dottrina dell’albero
molto simile a un codice”.
Giorgio de Santillana[1]
Fenderia e carboneria
Parallelamente all’imporsi della Massoneria inglese, che ha trasformato l’antica eteria iniziatica in un club al servizio di Sua Maestà, oltre alla nascita degli ordini neo druidici in Inghilterra, apparvero in Francia, all’inizio del XVIII secolo, le prime tracce scritte di un corpo di riti forestali raggruppanti essenzialmente due sistemi relativamente distinti: la Fenderie e la Carboneria.
Non è casuale che mentre gli Hannover asservivano ai loro disegni le logge massoniche, adeguandole alle logiche dei club, la Tradizione si spostava altrove.
I riti forestali conservano, per la più parte, degli elementi trasmessi attraverso gli antichi «mestieri» dei clan forestali.
La trama è probabilmente l’espressione dell’antica tradizione celtica che ha associato la sacralità alla foresta.
Per i rituali più recenti, essi sono impregnati di leggende cristianizzate e, talvolta, con l’uso della Bibbia, agli obblighi di consegna o giuramenti.
Il fenomeno è collegato in Inghilterra, con il movimento massonico degli Ancient, che rivendicavano la filiazione delle tradizioni cristiane delle antiche corporazioni di mestiere ed apparve anche nello sviluppo della forestalità francese con rituali del XVIII secolo
Traggo dall’opera di Régis Blanchet (1951-2005), Maestro Massone, Carbonaro e Maestro della Forgia, Marinaio dell’Arca Reale, Cavaliere Rosa+Croce, Cavaliere Beneficente della Città Santa, studioso della Massoneria, della tradizione celtica, discepolo di John Toland, artefice del risveglio dei Riti Forestali in Francia, alcune informazioni essenziali. (Régis Blanchet, La Résurgence des Rites Forestiers, Les Éditions du Prieuré 1997).
Blanchet per affrontare il fenomeno dei riti forestali, parte da un’analisi della società clanica, tipica del mondo celtico. “Le attività pre-industriali di questi clan erano perfettamente determinate dalla stessa foresta e si concentravano su tre mestieri molto comuni: il bosco, il carbonaggio e la metallurgia. Notiamo infine – scrive Blanchet – che una delle loro «specialità», la farmacopea, era conosciuta in tutto il Bacino mediterraneo dall’inizio dell’età del Ferro (1000 a.C.).
“La monopolizzazione militare delle città romane e delle vie romane creò “un’ossatura autoritaria e centralistica che si impose politicamente in un mondo esclusivamente forestale e libertario”. Per cui “progressivamente la foresta divenne il simbolo stesso della libertà e della resistenza a tutti gli imperialismi urbani”.
Una sapienza tramandata nei secoli
L’aspetto “clanico” dei riti forestali è di grande importanza in quanto consente di collegarli alla tradizione druidica.
“I Druidi che non hanno seguito la via monastica – scrive Arz Bro Haoned – si ritirarono nelle foreste ove vissero come eremiti continuando ad insegnare. Essi sono all’origine della tradizione clanica che è durata sino ai giorni nostri”; e prosegue: “I riti del legno sono forestali e rurali, così come i riti della pietra sono urbani. I primi sono pagani e in linea diretta con i clan ancestrali, i secondi sono cristiani seguaci dell’organizzazione romana dei costruttori nella Gallia occupata. Non si può dimenticare il ruolo del mondo forestale e della carpenteria, ma senza omettere di ricordare quello della indissociabile trasmissione clanica”. [2]
Jean Markale, nel suo: “Il druidismo” (Mediterranee) precisa che il tempio celtico non è di pietra, ma è il “bosco sacro”, che nemeton significa “radura sacra”, che rappresenta un “centro” ed è un luogo di “scambio sacro”. La foresta, come il deserto, rappresenta il ritorno alla Natura e una presa di distanza da tutto ciò che è opera dell’uomo per meglio ascoltare ciò che è naturale.
Dei rituali antichi, noto è quello della raccolta del vischio, panacea curativa; meno nota è la raccolta della pianta selago, il licopodio abetino, detto anche artiglio del diavolo, antinfiammatorio e antireumatico.
Tra le piante raccolte ritualmente abbiamo notizia anche del samolus, o lino d’acqua e della verbena, detta anche pianta del mago, con proprietà analgesiche e antinfiammatorie.
Di un antico rituale druidico ci riferisce Plinio il Vecchio: “Per cogliere la pianta chiamata selago non si fa uso del ferro; si passa la mano destra sul lato sinistro dell’abito, come per rubare; è inoltre necessario essere vestiti di bianco, avere i piedi lavati e nudi, e aver fatto prima un’offerta di pane e vino”(Historiae Naturalis, XXIV, 103)
Sempre Plinio, nella sua , Historia Naturalis, XXIV, 63, parla del samolus riferendosi a un’erba che i Druidi raccoglievano e utilizzavano contro le malattie del bestiame e dei maiali: “I Druidi, inoltre, hanno dato il nome di samolus ad una determinata pianta che si sviluppa nelle località umide. Questa, dicono, deve essere raccolta a digiuno e con la mano sinistra, poiché tutela contro le malattie a cui i maiali ed il bestiame sono soggetti. La persona stessa che la raccoglie deve fare attenzione non guardare alle sue spalle, e la pianta non deve essere depositata in altro luogo che non sia il trogolo dove il bestiame si abbevera.”
L’esperto del mondo vegetale e del suo linguaggio scientifico ed esoterico è l’amico dottor Federico Gasparotti, al quale lascio ogni possibile approfondimento.
Non mancano anche analisi che riguardano la trasmissione di antichi saperi connessi con il megalitismo.
“Passando in rassegna il nostro lavoro – scrivono a questo proposito Alan Butler e Stephen De Foe – Henry Lincoln ha riconosciuto l’attendibilità storica dell’idea che, persino nel XII secolo, in alcune aree dell’attuale Francia esistessero dei gruppi di possidenti che mantenevano ancora un legame diretto e ininterrotto con la cultura megalitica. Sviluppatesi lungo un arco che tagliava la Penisola Scandinava, la Gran Bretagna e alcune regioni della Francia, tali comunità si estendevano fin alla Spagna sudorientale e nelle isole del Mediterraneo. Per quanto riguarda le popolazioni della Borgogna e della Champagne, le radici megalitiche erano piuttosto semplici da rilevare….”. [3]
L’albero, il grande trasformatore
Rendere omaggio all’albero, alla foresta è rendere omaggio alla vita. Le antiche ritualità collegate al mondo arboreo rendevano omaggio ad uno dei processi fisici in base al quale la luce viene fissata e produce zoé, vita universale, in questo caso specifico vita vegetale.
La fotosintesi clorofilliana è il processo attraverso il quale le piante, grazie alla clorofilla, convertono l’energia luminosa in energia chimica, producendo zuccheri (glucosio) e liberando ossigeno. In pratica, le piante utilizzano acqua, anidride carbonica e luce solare per creare il proprio nutrimento, il glucosio, e come sottoprodotto rilasciano ossigeno nell’atmosfera.
Gli alberi sono i nostri migliori amici, in quanto producono l’elemento fondamentale della nostra respirazione.
In questo preciso punto, si innesta il simbolo fondamentale della sapienza contenuta nei riti forestali: il carbone, costituente con l’ossigeno e l’idrogeno della chimica organica, ossia della vita vegetale e animale, che trae il proprio alimento dai composti della chimica inorganica, il cui esponente simbolico è la pietra.
L’albero è, non solo simbolicamente, il grande trasformatore, grazie ai raggi del sole, della chimica inorganica in chimica organica; è un condensatore di energia e un trasformatore biochimico che assimila gli elementi e li trasforma in materia vivente; è l’essere vivente che producendo ossigeno, ci fa respirare e, dunque, ci consente di vivere. L’intera catena della vita animale, della quale è parte l’uomo, dipende dal “legno” e dalla “pietra” che, non a caso, nella mitologia, rappresentano gli elementi che danno origine all’umanità.
Bergson, alla domanda postasi da dove viene l’energia dell’alimento ingerito risponde: “L’alimento può essere la carne di un animale che si sarà nutrito di animali, e così di seguito, ma in fin dei conti è a un vegetale che si arriverà (in particolare al grano). Esso solo raccoglie l’energia solare. Gli animali non fanno che appropriarsene, o direttamente o passandosela l’un l’altro”. [4]
I miti, veicolano in modalità enigmatiche, verità fisiche, mediante archetipi e simboli.
Simboli, alfabeto della Natura
“Il libro nascosto dell’universo – scrive René Alleau – non si lascia leggere ad alta voce. La natura fugge dalla violenza dell’evidenza: essa confida i suoi misteri al mormorio della penombra. I suoi paesaggi non svelano la loro profondità che all’alba e al crepuscolo, attraverso i vapori e le nebbie. Sapere non è connettere; è assaporare ciò che noi intravvediamo a mezzo cammino”. [5]
Gli stati intermedi sono luoghi druidici. La via sottile come il rasoio, il confine tra il giorno e la notte, tra questo e l’altro mondo, il fiume che divide e unisce al contempo due terre, sono metafore della sapienza druidica. I Druidi, infatti, insegnavano che era negli stati intermedi che si celava il potere.
Fra buio e luce,
fra giorno e notte,
è Crepuscolo che crea Magia.
Né pioggia né acqua marina,
né flusso né acqua di pozzo;
è Rugiada che crea magia.
Né pianta né albero,
né fusto né foglia;
è Muschio che crea Magia. [6]
“Un simbolo – aggiunge Alleau – non significa: evoca e focalizza, assembla e concentra, in una maniera analogicamente polivalente, una molteplicità di sensi che non si riducono a un solo significato o a uno qualunque solamente”. [7]
La chiave della simbologia è l’analogia.
La qualità del simbolo è la trasparenza. Mentre l’apparire ha come suo contrario il nascondimento, il trasparire non ha contrari: lascia intravedere ciò che inizia ad apparire.
“La funzionalità simbolica – ci dice ancora René Alleau – è inseparabile dal suo «orientamento sacro» o dalla sua visuale ierofanica di «potenze numinose» o «non-umane» alle quali i miti ed i riti rilegano l’essere umano, «riunificando» l’anthropos e il cosmos per la potenza del Logos, che non è linguaggio ma verbo e parola «resuscitata», «ri-creata», al di là del senso culturale e sociale delle «parole della tribù»”. [8]
Se i simboli sono il modo con il quale l’universo, ossia la natura, si mostra, l’archetipo della Natura-Physis è l’impronta (Arché Typos) dell’Origine.
L’archetipo è, secondo Jung, “un contenuto autonomo dell’inconscio”, “un’immagine autonoma primitiva che, preconscia, è universalmente presente nella costituzione della psiché umana. … Gli archetipi non sono invenzioni arbitrarie, ma elementi autonomi della psiché inconscia preesistenti ad ogni invenzione. Essi rappresentano la struttura immutabile di un mondo psichico che, con i suoi influssi determinati sulla coscienza, dimostra di essere «reale»”. [9]
L’archetipo è il modo con il quale il “primordiale” si mostra, in quanto è “una disposizione che, in un dato momento dello sviluppo dello spirito umano, comincia ad agire ordinando il materiale della coscienza in figure determinate”. [10]
Archetipi e simboli, per la loro caratteristica essenziale, costituiscono il linguaggio degli iniziati e, pertanto, anche quello degli appartenenti ai riti forestali.
Il simbolo dell’albero cosmico
La paleobiologia, scrive Jaques Brosse, ci dice che “i primi esseri viventi furono, e non poteva essere altrimenti, delle piante, perché ogni animale, qualunque esso sia, non può vivere senza piante, anche se è carnivoro dato che in questo caso si nutre di erbivori. Solo la pianta non dipende altro che dagli elementi, perché solo lei è in grado di assimilarli e di trasformarli. ….Di questo ampio processo vitale è simbolo l’Albero cosmico delle leggende”. [11]
I miti ci svelano questa verità (alethéia) della Phýsis e ci inducono a pensare, ossia all’azione del pensiero, il quale è costitutivo dell’essere umano in quanto emanazione del Pensiero, ossia dell’Arché, ed esso stesso pensiero calato nel limite.
Oggi la ricerca scientifica ci sta portando sempre dalla materia grezza (la pietra grezza) verso il lapis (la pietra levigata), così tagliata e così ridotta ai minimi termini, resa talmente sottile da approssimarsi all’idea di un pensiero che avvolgendosi su sé stesso dà origine ai mondi. Ecco un elemento di riflessione esoterica per chi lavora la pietra grezza.
L’infinitamente piccolo è un orizzonte della Natura ed è anche un orizzonte degli archetipi.
“Gli archetipi – spiega Jung – hanno questa proprietà comune con il mondo dell’atomo, il quale, proprio ai nostri giorni, dimostra manifestamente che, quanto più profondamente lo sperimentatore penetra nel mondo dell’infinitamente piccolo, tanto più devastatrici sono le somme di energia che incontra e che là giacciono avvinte. Non solo il campo fisico, ma anche la ricerca psicologica rivelano chiaramente che dall’infinitamente piccolo proviene la più grande efficacia”. [12]
Cosa c’è di più piccolo e, al contempo, di così grande come un pensiero?
I miti, narrando di verità naturali, ci conducono nell’Arca arcanorum, nel rapporto tra l’Archè e il Logos, del quale narra il Prologo di Giovanni, posto sull’Ara del Tempio massonico.
segue
[1] Giorgio de Santillana, Hertha von Dechend, Il Mulino di Amleto, Adelphi
[2] Arz Bro Haoned, Héritage oublié des druides, Édition Véga, Paris
[3] Alan Butler, Stephen De Foe – La verità sui Templari – I segreti dell’eredità cistercense, Ed. L’Età dell’Acquario
[4] Paul Le Cour, Il Vangelo esoterico di San Giovanni, Bastogi
[5] René Alleau, La science des symboles, Payot
[6] Citazione in: Riccardo Taraglio, Il vischio e la quercia, Ed. Dell’Acquario
[7] René Alleau, La science des symboles, Payot
[8] René Alleau, La science des symboles, Payot
[9] C.Gustav Jung, La simbolica dello spirito, Fabbri
[10] C.Gustav Jung, La simbolica dello spirito, Fabbri
[11] Jacques Brosse, Mitologia degli alberi, Bur
[12] C.Gustav Jung, La simbolica dello spirito, Fabbri





