«PAPE SATÀN, PAPE SATÀN ALEPPE!»

Gen 20, 2023 | LETTERATURA

di Silvano Danesi

«Pape Satàn, pape Satàn aleppe!»,
cominciò Pluto con la voce chioccia;
e quel savio gentil, che tutto seppe,
disse per confortarmi: «Non ti noccia
la tua paura; ché, poder ch’elli abbia,
non ci torrà lo scender questa roccia».

Cosa significa l’invettiva di Pluto, il dio greco della ricchezza, il cui nome ( Πλοῦτος ) Ploýtos significa “ricco”. A chi è rivolta? Sui vocaboli pape e aleppe si sono versati fiumi d’inchiostro e si sono esercitati critici i letterari dando le più diverse versioni.

Cercherò di avanzare una versione che tenga conto di tre elementi: il contesto interno, il contesto esterno e la “lingua degli uccelli” con la quale anche Dante, Fedele d’Amore si è espresso, celando, all’interno della superficie della Commedia, messaggi arcani, comprensibili solo a chi ne possedeva le chiavi, ossia ai suoi confratelli, al fine di porre al riparo se stesso e gli appartenenti alla setta dei Fedeli d’Amore dai rigori inquisitori della Chiesa di Roma.

Il contesto interno.

All’ingresso nel IV Cerchio della Divina Commedia, Dante e Virgilio incontrano Pluto, custode di quella zona infernale. Il mostro, che ha sembianze di lupo,  inveisce contro di loro pronunciando parole che appaiono incomprensibili, ma Virgilio rassicura Dante del fatto che Pluto non potrà impedire il loro cammino.

Dante e Virgilio entrano nel IV Cerchio, dove sono presenti moltissime anime di avari e di prodighi.

Il Canto è in gran parte dedicato al peccato di avarizia, un vizio che sin dall’incipit della Commedia è considerato da Dante la radice di tutti i mali del mondo e la causa prima del disordine politico e morale.

Simbolo di tale peccato è il guardiano del IV Cerchio, Pluto, il cui aspetto animalesco rimanda alla lupa, ossia all’avarizia, incontrata nella selva oscura. L’avarizia, nell’incipit della Commedia, si accompagna alle altre due “bestie”: la superbia e la lussuria. Tre “bestie” sempre presenti e sempre in agguato, cosicché il messaggio dantesco è di stretta attualità ed è monito a chi sia preso dai tre vizi.

Dante condanna l’avarizia e, attraverso essa, rivolge un’aspra critica alla corruzione ecclesiastica. Infatti tra le anime degli avari il poeta vede moltissimi chierici e Virgilio gli spiega che tra loro ci sono papi e cardinali, dichiarando dunque che la corruzione è largamente diffusa nelle alte gerarchie della Chiesa, dato l’elevato numero di dannati mandati dalla giustizia di Dio in questo Cerchio.

Dante non fa nomi, per un evidente motivo, che sarà chiaro più avanti.

Dante fa dire a Virgilio che i beni terreni, affidati alla Fortuna, sono effimeri e tutto l’oro del mondo sarebbe insufficiente a placare queste anime afflitte. La Fortuna di Dante non è cieca, come quella del mondo greco, ma è un’intelligenza angelica che amministra i beni terreni e stabilisce chi deve prosperare e chi deve decadere, secondo l’imperscrutabile giudizio divino. Stiano attenti, pertanto, coloro che si vendono a Mammona.

Se la Fortuna dantesca è un’intelligenza angelica, Pluto è cieco e dispensa ricchezza senza criterio alcuno.

Pluto era figlio di Demetra e Giasone, nipote di Dardano fondatore di Troia e, quale Dio dell’abbondanza, appare nella teogonia di Esiodo: «Dèmetra, generò, somma Dea, con l’eroe Gïasone, nel pingue suol di Creta, nel solco tre volte scassato, il buon Pluto, che sopra la Terra ed il Pelago immenso, va dappertutto; e chi trova, chi può su lui metter le mani, súbito fa che ricco divenga, e gli accorda fortuna.» (Esiodo, Teogonia,969-974).

L’unione di Demetra e Giasone è descritta anche nell’Odissea.
A Pluto si intitola una famosa commedia di Aristofane del 388 a.C. ed è incentrata sulla diseguale distribuzione tra gli uomini del denaro, movente principale delle azioni umane, che diventano disumane.

Il contesto esterno.

Dante scrive la Divina Commedia tra il 1304/7 e il 1321. Nel 1307 Clemente V, papa dal 1305 al 1314, nel 1307 sopprime l’Ordine dei Templari, i quali saranno messi a morte da Filippo il Bello.

Nel 1314 è assassinato sul rogo Jaques De Molay, il Gran Maestro dei Templari.

Clemente V è un papa francese, al secolo Bertrand de Got, il quale sposta la Santa Sede da Roma a Carpentras, ossia tradisce la sede di Pietro. Sarà Giovanni XXII, altro papa francese, di lì a poco, a spostarla ad Avignone.

Filippo il Bello elimina i Templari per appropriarsi delle loro ricchezze e si assicura la complicità del papa francese, il quale, a sua volta, espropria i Templari del loro tesoro più prezioso, ossia la conoscenza acquisita frequentando il Medio Oriente e recuperando antiche sapienze e la occulta.

Clemente V è, pertanto, il papa nemico dei Templari e conseguentemente dei Fedeli d’Amore, la cui linea di pensiero ha dei riferimenti essenziali in Federico II di Svevia e nella sua “Magna Curia”, nella Provenza e nell’Aquitania dei Trovatori, eredi della cultura basca, nei Minnesanger, in Severino Boezio, nella poesia dei mistici arabi e nella Champagne di Chrétien de Troyes, che ripropone, con la “Materia di Bretagna”, l’antica cultura druidica.

La setta ebbe tra i suoi fondatori il normanno Federico II di Svevia, il figlio di Federico Manfredi, il cancelliere di Federico Pier Delle Vigne, il notaio di Federico Jacopo da Lentini e successivamente: Guido Guinizelli, Guido Cavalcanti (in fama di essere un eretico patarino), Dante Alighieri, Cino da Pistoia, Francesco da Barberino, Cecco d’Ascoli.

Per i Fedeli d’Amore la donna amata (Rosa) è l’Intelligenza o Sapienza divina (Fiore), che è affisa in Dio e guida l’uomo secondo il suo volere. Amore è il congiungersi dell’intelletto con la Sapienza (avere intelletto d’Amore). L’amante (nel Roman de la Rose) bacia il Fiore, la Rosa, con le braccia in croce.

In Cecco d’Ascoli, che per la sua imprudenza finirà sul rogo, la Sapienza Santa perpetuamente rinascente negli uomini è assimilata alla Fenice e di lei il poeta dice: “Non fo in donna mai vertù perfecta, salvo in Colei che ‘nanti el comenzare creata fo et in eterno electa”.

Il motivo del silenzio di Dante sui papi nel cerchio di Pluto è reso chiaro dalla sua opera “Fiore”, dove Dante affida a Falsosembiante (la simulazione necessaria a eludere la Chiesa) il compito di uccidere l’inquisitore Malabocca.

Dante non vuol fare la fine di Cecco d’Ascoli e intende proteggere anche i suoi confratelli.

La lingua degli uccelli.

Del resto è Dante stesso che ci indica la via della comprensione del suo messaggio, quando nel Convivio indica i quattro livelli di lettura: letterale, allegorico, morale e anagogico.

E’ la via della comprensione che ci indica anche Fulcanelli.

“Per noi – spiega Fulcanelli – art gotique non è altro che una deformazione ortografica della parola argotique, la cui omofonia è perfetta, conformemente alla legge fonetica che regola la cabala fonetica in tutte le linge e senza tener conto alcuno dell’ortografia. La cattedrale, quindi, è un capolavoro d’art goth o d’argot. Dunque i dizionari definiscono la parola argot come «il linguaggio particolare di tutti quegli individui che sono interessati a scambiarsi le proprie opinioni senza essere capiti dagli altri che stanno intorno». E’, quindi, una vera e propria cabala parlata. […]. Tutti gl’Iniziati si esprimevano in argot, anche i vagabondi della Corte dei Miracoli, col poeta Villon alla loro testa, ed anche i Frimasons, o framassoni del medioevo, «che costruivano la casa di Dio», ed edificavano i capolavori argotiques ancora oggi ammirati”.[i] L’arte gotica, aggiunge Fulcanelli, “è l’art got o cot (Χ°), l’arte della Luce e dello Spirito”. L’argot, aggiunge Fulcanelli “è una delle forme derivanti dalla Lingua degli Uccelli, madre e signora di tutte le altre, lingua dei filosofi e dei diplomatici”.[ii]

Ecco il motivo per il quale Dante omette di fare i nomi di anime dannate, adducendo come scusa il loro aspetto irriconoscibile per via del peccato: il papa additato in chiave è il nemico dei Templari, il francese traditore del Soglio di Pietro.

Nel Canto XIX Dante non esiterà a porre tra i papi simoniaci Niccolò III e fargli predire addirittura la dannazione di due papi futuri, Bonifacio VIII e Clemente e Clemente V e in altri momenti del poema rivolgerà aspre invettive sia contro papa Bonifacio, in carica al momento dell’immaginario viaggio, sia contro Giovanni XXII, che invece era pontefice quando venivano composti gli ultimi Canti della Commedia (durissimo il suo attacco contro di lui in Par., XVIII, 130-136). In questi contesti le invettive sono estranee al fatto specifico: il martirio dei Templari.

Dante, nel Cerchio di Pluto, ossia del “ricco”, dove condanna l’avarizia, non fa nomi, ma affida a Pluto di dire chi è l’avaro degli avari, il papa che ha venduto l’anima a Pluto, ossia alla plutocrazia di Filippo il Bello.

Ed ecco che con l’argot tutto diventa chiaro.

Aleppe, anagrammato, si trasforma in le pape.

«Pape Satàn, pape Satàn aleppe!», diventa “Pape Satàn, pape Satàn, le pape”: il papa francese che è Satana, Clemente V, l’oppositore, il nemico dei Templari, colui che si è venduto al plutocrate Filippo Il Bello e ha occultato la Sapienza, perché ha scelto Mammona.

Dante usa il francese per indicare un papa francese, che ha venduto l’anima a Pluto e che ha portato la Santa Sede in Francia al servizio di un re francese, a sua volta al servizio di Pluto.

[i] Fulcanelli, Il mistero delle cattedrali, Mediterranee

[ii] Fulcanelli, Il mistero delle cattedrali, Mediterranee

Silvano Danesi

Silvano Danesi

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