AMORE, MISTERIOSO E ALTERO

Mar 2, 2025 | FILOSOFIA

di Silvano Danesi

La via iniziatica attiva la capacità di conoscere, decodificare simboli, archetipi, miti. Consente di interpretare la “lingua degli uccelli”, la “lingua verde”, ossia il linguaggio con il quale gli iniziati alla Tradizione hanno trasmesso nei secoli le loro conoscenze.

Il linguaggio dei simboli, degli archetipi, dei miti è usato, con professionalità, anche da chi utilizza la propaganda, sia a fini commerciali, sia a fini più generali di controllo delle masse.

È importante, pertanto, non fermarsi alla superficie di ogni comunicazione, ma coglierne i vari livelli di significato.

La via iniziatica, da questo punto di vista, è un modo per salvaguardare noi stessi dalla superficialità e dall’intrusione di messaggi subliminali che si insinuano laddove non trovino le barriere della conoscenza simbolica, archetipica, mitologica.

La via iniziatica non è un cammino astratto dalla realtà di ogni giorno, ma un modo per affrontarla con consapevolezza.

Quanto segue è solo un piccolo campionario di come si possa andare sotto e sopra la superficie, facendo come il simbolico Jar, il maschio dell’oca e marchio dei costruttori di cattedrali, che naviga in superficie, affonda la testa nella melma dello stagno e vola verso il sole.

Un amore universale misterioso che nutre

Nella Traviata del librettista Francesco Maria Piave, musicata da Giuseppe Verdi, Alfredo, l’innamorato, canta il suo amore a Violetta: “Un dì felice, eterea mi balenaste innante, e da quel dì tremante vissi d’ignoto amor. Di quell’amor ch’è palpito dell’universo intero, misterioso, altero, croce e delizia al cor”.

https://www.youtube.com/watch?v=QWDZulqxMu0

Analizziamo con attenzione quanto dice Alfredo.

Alfredo è Ælfræd, “consiglio degli elfi”, o Aifrid, dal longobardo alda, anziano e frithu, saggio.

Alfredo è, pertanto un saggio che parla a Violetta, al viola, simbolo di mistero, di inconscio, di segreto, di nobiltà e di spiritualità.

Sotto il canto d’amore di un uomo per una donna, c’è il canto del saggio a quell’amore misterioso che è palpito dell’universo intero: un amore che è universale, che è misterioso e che è altero, dal latino altus, che è il participio passato di alere, far crescere, nutrire.

Il saggio canta il suo ignoto amore per un amore che è palpito universale, misterioso, che nutre e fa crescere.

Cos’è questo amore?

Proviamo a cercare qualche risposta.

Il 25 dicembre 2005, Benedetto XVI pubblicava la sua enciclica dedicata all’amore, Deus caritas est, nella quale scriveva: “Ricordiamo in primo luogo il vasto campo semantico della parola «amore»: si parla di amor di patria, di amore per la professione, di amore tra amici, di amore per il lavoro, di amore tra genitori e figli, tra fratelli e familiari, dell’amore per il prossimo e dell’amore per Dio. In tutta questa molteplicità di significati, però, l’amore tra uomo e donna, nel quale corpo e anima concorrono inscindibilmente e all’essere umano si schiude una promessa di felicità che sembra irresistibile, emerge come archetipo di amore per eccellenza, al cui confronto, a prima vista, tutti gli altri tipi di amore sbiadiscono. Sorge allora la domanda: tutte queste forme di amore alla fine si unificano e l’amore, pur in tutta la diversità delle sue manifestazioni, in ultima istanza è uno solo, o invece utilizziamo una medesima parola per indicare realtà totalmente diverse?”.

Caritas è, secondo il concetto cristiano, l’amore che unisce gli uomini con Dio, e tra loro attraverso Dio.

Benedetto XVI scrive che “tra l’amore e il Divino esiste una qualche relazione: l’amore promette infinità, eternità — una realtà più grande e totalmente altra rispetto alla quotidianità del nostro esistere”.

In questa frase c’è la chiave di comprensione di cosa è l’amore: una relazione con il Divino che promette infinità, eternità.

Parole chiave: relazione, promessa.

Relazione deriva dal latino relatio -onis, derivato da relatus, participio passato di referre, riferire, riportare, stabilire un legame, un rapporto, un collegamento.

Promessa deriva da pro-, avanti, in presenza di e mettere, porre. La promessa è un mettere davanti, porre in presenza.

La relazione, pertanto, riferisce e, contestualmente stabilisce un rapporto, con l’infinità, l’eternità.

Quale è il soggetto del riferire? Il lógos che ha molteplici significati e che qui è la “parola”, “l’azione di un raccogliere attento, capace di costruire un raccolto di enti diversi sulla base di un qualcosa a tutti comune” [i], dove Comune è Xynón. [ii]

Di questo Xynón ci parla Eraclito.

“Per chi ascolta non me, ma il lógos, sapienza è intuire che tutte le cose sono Uno, e l’Uno è tutte le cose”. (Eraclito, DK, 22 B,50).

Qui è necessaria una precisazione tra l’Uno come essere e l’uno come essente,

Quando prendiamo in considerazione l’Uno dobbiamo precisare, come fa Cacciari, che “l’uno è un intero, l’essente è uno nell’integrità indissolubilmente connessa delle sue parti. Il ‘vero’ Unonon può però avere parti; l’uno di cui parliamo, invece sì. Non appena diciamo uno, ecco che sembra divenire un qualcosa, per quanto integro in sé, composto di parti. Dell’altro, dell’Uno-Uno, nulla potremmo dire”. [iii]

Quell’Uno-Uno è l’Unità sovra-essenziale, l’Unità dell’Essere eînai.

Affronteremo in seguito il rapport Unità sovra-essenziale e Luce.

Vediamo, per ora di seguire il percorso di tre declinazioni della parola amore.

 L’amore è declinato in greco con parole come filia, agape, eros.

Filia indica «amicizia, simpatia, favore» o anche «tendenza, affinità».

Agape è amore fraterno, amicale.

Sia filia, sia agape implicano il concetto di relazione, ma la parola che maggiormente ci dà l’idea relazionale è eros.

Eros è il “grande demone” dell’amore, come lo chiama Diotima nel dialogo con Socrate, contenuto nel Simposio di Platone.

Eros “è qualcosa di intermedio fra mortale e immortale” e ”ha il potere di interpretare e di portare agli dèi le cose che vengono dagli uomini e agli uomini le cose che vengono dagli dèi”. Ogni “desiderio per le cose buone e dell’essere felice per ciascuno è il grandissimo e astuto Eros”.

Nel dialogo tra Diotima e Socrate emerge il punto centrale, nodale, essenziale che riguarda Eros: l’Atto d’Amore.

L’Atto d’Amore, dice Diotima, “è un parto nella bellezza, sia secondo il corpo sia secondo l’anima”. “Tutti gli uomini, o Socrate – continua Diotima – sono gravidi secondo il corpo e secondo l’anima” e Amore è “generare e partorire nella bellezza”.

Perché l’amore della generazione alberga negli esseri umani?

“Perché – dice Diotima – la generazione è ciò che ci può essere di sempre nascente e di immortale in un mortale”.  (Platone, Simposio).

Nel dialogo tra Diotima e Socrate incontriamo Eros come relazione tra l’eternità (gli dèi) e la finitezza (gli esseri umani mortali).

Tuttavia, anche gli dèi non sono infiniti e per trovare il rapporto tra finito e infinito ci si può rivolgere ai Veda.

L’amore nei Rig Veda

Nel canto dei Rig Veda, così tradotto da Franco Rendich, si legge:

1 – All’inizio non c’era essere, né c’era non essere.

Che cosa ricopriva l’insondabile profondità delle acque

e com’era e dov’era il riparo? Non c’era l’atmosfera

né, al di là di essa la volta celeste.

2 – Non c’era morte allora, né immutabilità.

Non c’era giorno. Non c’era notte.

Quell’Uno viveva in sé e per sé, senza respiro.

Al di fuori di quell’Uno, c’era il Nulla.

3 – C’era oscurità, all’inizio, e ancora oscurità,

in una imperscrutabile continuità di acque.

Tutto ciò che esisteva era un vasto Vuoto senza forma.

Quell’Uno era nato per la potenza dell’Ardore.

4 – All’inizio sorse l’Amore, che era il primo seme della Mente.

Scrutando nei loro cuori i sapienti scoprirono, con la loro saggezza,

il legame tra l’essere e il non-essere.

5 – Chi veramente sa? Chi potrebbe dire quando ci fu questa creazione?

E quale ne fu la causa?

Gli dei vennero dopo la sua emanazione.

Chi dunque può dire donde essa ebbe origine?

6 – Colui dal quale la creazione provenne,

può averla decisa egli stesso. Oppure no.

Colui che vigila nell’alto del cielo forse ne conosce l’origine. E forse no.

Rigveda, V, 10, 129

Nelle traduzioni di Franco Rendich dell’inno vedico troviamo alcuni concetti essenziali.

Prima dell’inizio, ossia della nascita dell’Uno, Eka per la potenza dell’ardore Tapas, esiste un’insondabile profondità di Acque Na oscure, tenebrose, il Nulla (nessuna cosa), un Vuoto senza forma.

Un vuoto senza forma si direbbe oggi vuoto quantico.

I concetti che troviamo esposti nei Rig Veda li ritroviamo proposti da dante nel XXXIII Canto del Paradiso.

Oh abbondante grazia ond’ io presunsi
ficcar lo viso per la luce etterna,
tanto che la veduta vi consunsi!84

Nel suo profondo vidi che s’interna,
legato con amore in un volume,
ciò che per l’universo si squaderna
:87

sustanze e accidenti e lor costume
quasi conflati insieme, per tal modo
che ciò ch’i’ dico è un semplice lume.90

La forma universal di questo nodo
credo ch’i’ vidi, perché più di largo,
dicendo questo, mi sento ch’i’ godo
.93

Un punto solo m’è maggior letargo
che venticinque secoli a la ’mpresa
che fé Nettuno ammirar l’ombra d’Argo.96

Così la mente mia, tutta sospesa,
mirava fissa, immobile e attenta,
e sempre di mirar faceasi accesa.99

A quella luce cotal si diventa,
che volgersi da lei per altro aspetto
è impossibil che mai si consenta;102

però che ’l ben, ch’è del volere obietto,
tutto s’accoglie in lei, e fuor di quella
è defettivo ciò ch’è lì perfetto.105

Omai sarà più corta mia favella,
pur a quel ch’io ricordo, che d’un fante
che bagni ancor la lingua a la mammella.108

Non perché più ch’un semplice sembiante
fosse nel vivo lume ch’io mirava,
che tal è sempre qual s’era davante;111

ma per la vista che s’avvalorava
in me guardando, una sola parvenza,
mutandom’ io, a me si travagliava.114

Ne la profonda e chiara sussistenza
de l’alto lume parvermi tre giri
di tre colori e d’una contenenza
;117

e l’un da l’altro come iri da iri
parea reflesso, e ’l terzo parea foco
che quinci e quindi igualmente si spiri.120

Oh quanto è corto il dire e come fioco
al mio concetto! e questo, a quel ch’i’ vidi,
è tanto, che non basta a dicer ’poco’.123

O luce etterna che sola in te sidi,
sola t’intendi, e da te intelletta
e intendente te ami e arridi!
126

Quella circulazion che sì concetta
pareva in te come lume reflesso,
da li occhi miei alquanto circunspetta,129

dentro da sé, del suo colore stesso,
mi parve pinta de la nostra effige:
per che ’l mio viso in lei tutto era messo.132

Qual è ’l geomètra che tutto s’affige
per misurar lo cerchio, e non ritrova,
pensando, quel principio ond’ elli indige,135

tal era io a quella vista nova:
veder voleva come si convenne
l’imago al cerchio e come vi s’indova;138

ma non eran da ciò le proprie penne:
se non che la mia mente fu percossa
da un fulgore in che sua voglia venne
.141

A l’alta fantasia qui mancò possa;
ma già volgeva il mio disio e ’l velle,
sì come rota ch’igualmente è mossa,144

l’amor che move il sole e l’altre stelle.

I Fedeli d’Amore

 Le opere di Dante e dei suoi contemporanei “Fedeli d’Amore” ci forniscono le chiavi di comprensione di una linea di pensiero che è il frutto dell’incontro di culture diverse, che hanno in comune la libera conoscenza adogmatica della Sapienza divina (Rosa), raggiungibile con un percorso iniziatico il quale, per quanto condiviso, presuppone una tensione conoscitiva individuale (Amore) capace di condurre l’adepto (Amante) dalla Croce (la materialità che fissa lo Spirito nello spazio tempo) alla Rosa.

Tale linea di pensiero ha dei riferimenti essenziali in Federico II di Svevia e nella sua “Magna Curia”, nella Provenza e nell’Aquitania dei Trovatori, eredi della cultura basca, nei Minnesanger, in Severino Boezio, nella poesia dei mistici arabi  e nella Champagne di Chrétien de Troyes, che ripropone, con la “Materia di Bretagna”, l’antica cultura druidica.

Ed è a Chrétien de Troyes che è opportuno guardare con attenzione, in quanto maggior poeta medievale prima di Dante, evidentemente adepto della setta, ma anche ponte verso quella radice celtica che appare decisiva per la comprensione della corrente di coloro i quali si abbeveravano alla “Fontana dell’insegnamento”.

Tre maggiori opere di Chrétien de Troyes: Yvain, Perceval e Erec et Enide hanno una fonte comune con racconti gallesi di poco posteriori: La Dama della Fontana, Peredur e Gereint, i quali, con gli altri racconti del Mabinogion, sono “tra gli esempi più importanti e più artisticamente validi della letteratura celtica che, dopo la greca e la romana, può essere considerata la più remota letteratura europea”. [iv] Letteratura, quella celtica, conosciuta in Toscana grazie alla presenza di comunità monastiche fondate da monaci colti irlandesi, come Donag (San Donato) a Fiesole e Sillion (San Silao) e Fridian (San Frediano) a Lucca e che pare abbia ispirato lo stesso Dante, il quale era a conoscenza della Navigatio Sancti Brendani, un testo in latino medioevale, scritto probabilmente da un monaco irlandese nell’Alto Medioevo. Il tipo di latino che viene usato fa pensare agli studiosi che la stesura dell’opera risalga all’VIII secolo, prima della “riforma carolingia”. Il protagonista del racconto è San Brandano, un abate irlandese realmente vissuto nel VI secolo, proveniente da un importantissimo clan nobiliare dell’isola e fondatore di numerosi monasteri. La Navigatio Sancti Brendani viene riportata da quasi 130 codici manoscritti, i più antichi dei quali risalgono al X secolo.

Il rapporto di Chrétien de Troyes con la letteratura celtica costituisce un passaggio importante verso l’apparato radicale dei “Fedeli d’Amore”, in quanto – come scrivono Gabriella Agrati e Maria Letizia Magini – l’esame del Mabinogion “mostra come, sotto un «colore locale» più moderno, dovuto all’intervento dei compilatori, sia presente un nucleo primitivo riconducibile alla più lontana tradizione celtica sì che è stato scritto che «il narratore medievale sembra saccheggiare da un’antichità medievale di cui non padroneggia il segreto»”. [v] Un’antichità medievale la cui chiave di comprensione è in parte racchiusa nelle Triadi Bardiche e in quella mistica della luce che origina dai Tuatha Dé Danann, il Popolo degli Dei di Dana e che connota la spiritualità dei Celti, “autentici ricercatori dello spirito assetati di assoluto”. [vi] Conseguentemente, anche la “forma di cristianesimo sviluppatosi a partire da San Patrizio [V secolo] fu essenzialmente mistica”. [vii]

La mistica della luce, nei monaci cristiano celtici, che non hanno mai ripudiato l’antica tradizione  e non hanno distrutto i riti pagani e i costumi ancestrali, è, come scrive Nuccio D’Anna[viii], ancorata al Vangelo di Giovanni e la Chiesa di Giovanni, scrive Paul Le Cour, “è quella dello Spirito, che è conoscenza e Amore”. [ix]

L’ancoraggio al Vangelo di Giovanni è ribadito da un monaco irlandese, Giovanni Scoto Eriugena, uno dei più grandi filosofi medievali, il quale, fuggito alle invasioni sassoni del suo paese e accolto alla corte di Carlo Magno, scrive l’ “Omelia sul Prologo di Giovanni”, dove descrive il mondo come teofania e il Verbo incarnato come manifestazione ultima di Dio e indice del destino dell’uomo alla divinizzazione. Il modello spirituale del cristiano, secondo Eriugena, è San Giovanni Evangelista, il quale ha colto il principio supremo della generazione del Verbo.

Il concetto del mondo come teofania è in sintonia con quanto pensavano i Celti e i Druidi, per i quali la “natura era sempre stata uno spettacolo di cui godere, senza spirito di dominio, senza manipolarla e senza distruggerla, ma guardando a essa con compiacimento contemplativo”. [x]

La Sapienza è Donna o Madonna, Rosa, Fiore, Fonte, Fontana dell’Insegnamento, Amorosa Madonna Intelligenza.

Madonna, come Beatrice, veste di rosso, di blu marino (il verde-blu) e bianco: i colori della Dea.

Il rio, il fiume, la Fontana dell’Insegnamento, oltre ad essere luoghi di passaggio tra i mondi, rappresentano la tradizione iniziatica e Ivano, il cui nome significa “nato dal tasso” o “il protetto dal tasso”, ove il tasso[1], a causa della sua longevità, rappresenta la tradizione millenaria, intraprende la sua avventura per recarsi ad una fontana meravigliosa. La fontana è posta accanto ad un albero bellissimo («mai sulla terra crebbe pino più bello»). Appeso all’albero c’è un bacile d’oro. La fontana ribolle come acqua calda. Il blocco di pietra è «di un solo smeraldo, scavato come un otre e sostenuto da quattro rubini più sfavillanti e vermigli del sole al mattino quando appare a oriente».

Ivano versa l’acqua contenuta nel bacile sulla pietra e scatena una tempesta, alla fine della quale vede un gran numero di uccellini sul pino (il tema dell’usignolo).

A indirizzare Ivano alla fontana è un uomo selvaggio: il signore degli animali.

Nella “Dama della Fontana” del Mabinogion il signore degli animali è un gigante che descrive in questo modo la fontana: “In mezzo [ad una valle] vi scorgerai un grande albero; l’estremità dei suoi  rami è più verde del più verde degli abeti; sotto l’albero vi è una fontana, e sul bordo della fontana una lastra di marmo, e sulla lastra di marmo un bacile d’argento attaccato ad una catena d’argento, di modo che non è più possibile separarli. Prendi il bacile e gettane tutta l’acqua sulla lastra”. Segue la descrizione della tempesta.

L’albero del Mabinogion è più grande e più verde del più verde degli abeti. La descrizione fa pensare ad un tasso, il cui nome gaelico è strettamente connesso con quello di Owein, l’equivalente di Ivano.

C’è un amore che racchiude tutte le forme d’amore ed è l’amore per la conoscenza divina, Sophia: la philo Sophia, .

Abbiamo iniziato con un canto d’amore per una donna, Violetta, che ha in sè il riferimento all’amore che è palpito dell’universo intero e finiamo con questo appunto all’amore di Sophia, la conoscenza divina, che i Fedeli d’Amore chiamavano Donna.

Torniamo ai concetti dell’inno vedico

 Analizziamo questi concetti alla luce delle radici indoeuropee con le quali gli inni vedici sono stati formulati.

Na sono le Acque scure e insondabili, che contengono una luce increata Ka, dal significato di Acque luminose, luce e anche felicità. Potremmo definirla la Vera Luce.

Eka, l’Uno, derivante da e, rafforzativo di i (andare, da cui in latino ire), è il muoversi delle Acque Luminose Ka ed è la sintesi delle sostanze luminose che costituiscono l’universo.

Eka, l’Uno, è detto anche Hiranyagarbha, il germe luminoso.

Garbha è il seme, portato hira dalle Acque n in cui si trova ya.

L’Uno, ossia l’universo (uni-verso) esce dalle Acque scure e insondabili in cui si trova come Acque Luminose Ka in movimento e.

Questo accadimento, dal quale deriva un inizio, l’inizio dell’Uno (universo), avviene a causa di un ardore Tapas, il quale non fa nascere solo l’Uno Eka, ma anche Rta, la Legge divina e Satya, la Verità.

La t di Tapas, il cui significato è moto della luce che passa oltre, che va al di là, è connessa ad As, dal significato di essere. L’essere è in relazione con la luce che si manifesta.

Che cosa è il Nulla, quel vuoto senza forma del quale scrivono i sapienti vedici?

“Se consideriamo il fonema Na come il simbolo delle Acque indifferenziate – scrive in proposito Franco Rendich – possiamo dedurre che fu da esso che nacque il concetto di negazione, Na, e di conseguenza quello di Nulla a causa dell’impossibilità di riconoscere al loro interno alcun ente (non ente, niente) o alcun uno (non-uno, nessuno). Soltanto con un secondo tempo, con l’apparizione della luce nelle acque Ka, il pensiero indoeuropeo avrebbe riconosciuto al loro interno il primo Essere, Eka, l’Uno: «luce Ka che sorge e dalle Acque»”. (…). E come nelle Acque notturne, Na, era nato il concetto del negativo, allo stesso modo dalle Acque luminose sarebbe nato il pronome interrogativo Ka, per identificare l’«Uno» (chi?) o l’«Ente» (che cosa?), che erano nascosti nel profondo delle acque ricoperte di tenebre. […]. La relazione tra le Acque cosmiche, l’Uno e il Nulla, appare ora chiara. Il Nulla, Na…, rappresenta le Acque viste nel loro aspetto imperscrutabile, mentre l’Uno, Eka, rappresenta le stesse Acque viste nel momento del sorgere della Luce al loro interno. Luce «creatrice», in quanto rende visibile e riconoscibile l’intero universo”. [xi]

Potremmo definire il Nulla come “nero luminoso”, ossia quella tenebra che contiene la luce creatrice, la quale esce per manifestarsi nell’Uno (universo).

Nella fisica quantistica il Nulla è un vuoto inteso come la situazione in cui non ci sono particelle, le quali sono eccitazioni del campo.

Il Nulla non è assenza di qualcosa, ma solo una configurazione possibile.

Il concetto di eccitazione richiama quello vedico di Tapas, ardore.

“L’idea di un vuoto quantistico – scrive James Owan Weatherall – (…) è fondamentale e spiega  l’importanza di alcune sue proprietà così sorprendenti da far sfumare ulteriormente una distinzione un tempo nettissima: quella tra il «qualcosa» e il «nulla». (…). Lo spazio vuoto non è semplicemente un palcoscenico su cui va in scena la fisica della materia, ma un’entità dotata di una struttura propria interessante e complessa quanto la struttura della materia stessa”. [xii]

L’immagine intuitiva del vuoto o campo quantico zero è “quella – scrive James Owan Weatherall – di un mare che ribolle di attività, o meglio ancora di possibilità, dato che le fluttuazioni riguardano ciò che potrebbe accadere all’atto della misura e non eventi reali in senso classico”.[xiii]

Ritorna l’immagine delle Acque primordiali Na (campo) che contengono le Acque luminose Ka (possibilità) che danno vita ad Eka, l’Uno (universo) a causa di un’eccitazione inflazionata (inflatone).

“Il vuoto quantistico – scrivono Fernando Ferroni e Antonio Masiero – genera una fluttuazione che fa nascere una bolla, la quale poi, espandendosi, sarà il nostro universo. Non importa qui sapere se l’universo è unico o uno dei tanti universi che compongono il multiverso”. [xiv]

Guido Tonelli, nel suo: “In principio era il vuoto” scrive che “una delle tante fluttuazioni, per un fenomeno che ancora presenta alcuni aspetti oscuri, e chiamiamo inflazione cosmica, anziché richiudersi immediatamente e ritornare allo stato di vuoto, comincia improvvisamente ad espandersi e assume di colpo dimensioni enormi. Nel tempo davvero ridicolo di 10-35 secondi la microscopica anomalia si gonfia fino a diventare una cosa gigantesca, grande cento miliardi di miliardi di chilometri. Lo spazio-tempo si è espanso improvvisamente, ad una velocità spaventosa. Attenzione, il limite della velocità della luce (c) vige quando lo spazio-tempo è già definito, cioè nulla si può muovere nello spazio-tempo a velocità superiori a c. Ma se lo spazio-tempo si gonfia, in questo caso non ci sono limiti di velocità, può crescere al ritmo più forsennato”. [xv]

Questa particella, che è un’eccitazione del campo e che si comporta in modo anomalo, esplodendo, è chiamata inflatone, ed è un vero e proprio «orgasmo del campo».

E’ opportuno soffermarsi sul termine orgasmo, derivare dal greco orgáō:  sono in preda al desiderio, sono piene d’ardore, di voglia ardente. Siamo in presenza di uno stato di eccitazione. Collegabile al sanscrito urg’as, esuberante di forze, di energia.

L’orgasmo ci riporta al Tapas, all’ardore che sembra rappresentare un insopprimibile necessità di esplodere, di manifestarsi. I Rig Veda sembrano avere detto quello che oggi ci dice la fisica.

In altri termini, potremmo definire la bolla Eka, l’Uno, il germe Hiranyagarba, dal quale si determina la molteplicità del mondo.

Il germe luminoso, la bolla, Eka, l’Uno, l’Uovo cosmico, sono nomi che esprimono l’avvio della luce creatrice delle Acque luminose Ka che sorge dalle Acque oscure Na e si espande in quella luce visibile che è espressa dalla consonante d.

“In indoeuropeo – ci avverte Franco Rendich – la consonante d significava «luce». Con essa fu costruita la radice indoeuropea dī «moto continuo ī della luce d» da cui derivò il corrispondente verbo sanscrito dīm dīdyati, «brillare», «splendere». Nella radice div, «giorno», «cielo» e nel suo derivato primario deva, «dio», la consonante v esprimeva il senso di «separazione», per cui il suo significato originario era «si separa (proviene) dalla luce». La d fu il simbolo della luce «creata», da cui nacquero il cielo, il giorno e gli dei, ma non quello della luce «creatrice», Ka, sorta con il nome di Eka, l’Uno, nelle Acque tenebrose della creazione vedica”. [xvi]

D, la luce creata, la luce che brilla è una manifestazione del campo elettromagnetico, che è esso stesso un’entità.

“In affetti – osserva James Owen Weatherall – tutto sembra indicare la presenza, nell’universo, di una radiazione elettromegnetica bassa ma costante, il cosiddetto fondo cosmico a microonde, che lo pervade con oscillazioni”. [xvii]

Se torniamo per un attimo al concetto di Nulla, il nulla è l’inattività del campo, che non è più Nulla quando il campo Na si eccita Tapas e la luce creatrice Ka origina l’Uno Eka, che si distende in un vasto campo elettromagnetico d, che pervade l’universo stesso.

Kama e Manas, i figli di Eka

Veniamo ora agli altri due concetti proposti dall’inno vedico: l’amore Kama e la mente Manas.

L’amore, in sanscrito Kama, è l’incontro Kam (Ka+m), l’unione tra la Luce creatrice Ka (potremmo dire la Vera Luce) e la realtà finita m, ossia tra l’infinito e il finito.

All’inizio sorge Amore, Kama, perché l’inizio è l’eccitazione del campo che origina l’universo che non è il Tutto, ma un germe (Hiranyagarbha) del Tutto e Amore è il primo seme della Mente, Manas, che deriva da man, dove m è la dimensione del soffio vitale, An, delle Acque cosmiche Na.

“La consonante m – spiega Franco Rendich – è all’origine di mātŗ «madre», il fattore femminile della creazione che conduce la divina immobilità di Eka ad incarnarsi nella terrena transitorietà di dvi, il «due». In altre parole Kāma, «amore», rivela l’unione tra l’infinito Ka e il finito m, nell’attimo in cui nasce il loro comune desiderio di creare la vita nell’Universo”. [xviii]

Kama e Manas sono i figli primogeniti di Eka e di An (Soffio vitale) e sono riflessi psichici delle Acque.

“Il termine kāma – spiega sempre Rendich – deriva dalla radice verbale Kam «desiderare, amare», connessa con alle radici kā e kan «gioire, sentir piacere», la quale è composta, secondo chi scrive, da ka e dalla consonante m, simbolo del «limite». Pertanto «ciò che de-finisce m le Acque lucenti ka» o anche «la misura m del desiderio delle Acque lucenti ka» definiscono bene il senso della parola kāma. E’ mediante il piacere creativo di Kāma che Eka, l’Uno, invade con la sua luce ka l’impenetrabile buio delle Acque primordiali na e le sottrae al dominio del Nulla rendendole visibili”. [xix]  “Il legame tra essere e non essere […] che i sapienti vedici avevano trovato nei loro cuori, […] finalmente ci si rivela: è quello tra le Acque luminose dell’Uno, Eka e le Acque oscure del Nulla, Na”. [xx]

“D’altro canto – spiega Rendich – secondo quanto ci è stato tramandato, il kāma è sempre stato connesso con le Acque. La correlazione linguistica tra Ka «acqua», «luce»; Eka «luce sorgente dalla acque» e Kāma «dimensione gioiosa delle Acque lucenti» ci conferma la fondatezza di tale tradizione culturale. Ora, se a causa del desiderio sessuale di Eka il Kāma appare come la facoltà creativa e riproduttiva delle Acque luminose, che cosa rappresenta il Manas da cui il Kāma è sorto? Il termine Manas – aggiunge Rendich – deriva dal verbo sanscrito pensare. Se scomponiamo man nelle due radici che lo formano, m «limite» e an «avvio dell’energia delle acque», il senso di manas sarà «la misura m della vitalità delle acque an» ”. [xxi]

Con Manas entra in scena l’essere umano Nr o Nara (il cui significato è: giunge r dalle Acque n), il quale è anche Ātman, un respiro finito, una scintilla del respiro del Brahman, infinito pensiero che si espande (brh). In quanto giunto dalle Acque, l’uomo Nr da esse ha acquisito la sua capacità di generare e di conoscere Jan.  Ātman, scrive Rendich, “è il moto at del pensiero limitato dell’uomo man teso al ritorno nel grembo delle Mente eterna”.

Le Acque tenebrose e luminose sono dunque la Mente eterna del Tutto (qui: le Acque) come Energia informata significante e cosciente (qui: Mente eterna).

Le acque lucenti

È ancora Franco Rendich [xxii]  a darci un quadro di riferimento preciso.

Ka è “Acque lucenti” o “Acque cosmiche”, chiamate “madri”, che “si rivelano come la vera e unica causa efficiente dell’Universo”. [xxiii] La Grande Madre Cosmica è qui presente come Na e come Ka

“Se consideriamo il fonema Na come il simbolo delle Acque indifferenziate – scrive in proposito Franco Rendich – possiamo dedurre che fu da esso che nacque il concetto di negazione, Na, e di conseguenza quello di Nulla (…) a causa dell’impossibilità di riconoscere al loro interno alcun ente (non ente, niente) o alcun uno (non-uno, nessuno). Soltanto con un secondo tempo, con l’apparizione della luce nelle acque [ka], il pensiero indoeuropeo avrebbe riconosciuto al loro interno il primo Essere, Eka, l’Uno: «luce [Ka] che sorge [e] dalle Acque»”. […]. La relazione tra le Acque cosmiche, l’Uno e il Nulla, appare ora chiara. Il Nulla, Na…, rappresenta le Acque viste nel loro aspetto imperscrutabile, mentre l’Uno, Eka, rappresenta le stesse Acque viste nel momento del sorgere della Luce al loro interno. Luce «creatrice», in quanto rende visibile e riconoscibile l’intero universo”. [xxiv]

Da Ka deriva Eka (e+ka è il sorgere della luce), che dà origine a Da, luce creata.

Abbiamo, pertanto, una luce creatrice Ka, che sorge dalle Acque cosmiche Na, il Nulla, come Eka, moto di Ka e origina Da, luce creata.

Kam, derivante da Ka, infinito, e da M, limite, simbolo della realtà relativa e finita, è Amore.

“La consonante M – spiega Franco Rendich – è all’origine di mātŗ «madre», il fattore femminile della creazione che conduce la divina immobilità di Eka ad incarnarsi nella terrena transitorietà di dvi, il «due». In altre parole Kāma, «amore», rivela l’unione tra l’Infinito [Ka] e il Finito [M], nell’attimo in cui nasce il loro comune desiderio di creare la vita nell’Universo”. [xxv]

L’amore nelle triadi bardiche

Triskel 2

Skiant – Conoscenza, sapienza, Saggezza

Nerz – Forza, Volontà, potere

Karantez – Amore, creatività, produttività

Nelle Triadi bardiche l’amore è cariad.

TRIADE XLV – Tri chyfiawnder Gwynfyd: cyfran yn mhob ansawdd. ag un cyflawn yn pennu; cyfymddwyn a phob awen, ag in un rhagori; cariad at bob byw a bod, tuag at un, sef Duw, yn bennaf; ag yn y tri un yma y saif cyflawnder nef a Gwynfyd.

Le tre pienezze del Gwynfyd: partecipazione di ogni qualità, con la completezza di una; interpretare ogni Awen, ed eccellere in uno; amore verso ogni essere vivente e verso uno di questi, ossia Duw, sopra ogni cosa. E’ in queste tre cose che consiste la pienezza del cielo e di Gwynfyd.

 I care, mi importa, mi sta a cuore, mi importa dell’altro.

Qui l’amore è rivolto ad ogni essere vivente e a Duw, ossia al demiurgo, che potremmo identificare nel greco Logos.

 “Ma questo lógos, che è, gli uomini non lo comprendono mai, né prima di porgervi orecchio, né dopo averlo ascoltato. Anche se tutte le cose sorgono secondo esso, somigliano a coloro che non hanno esperienza, quando sperimentano parole e opere quali vado esponendo, io che distinguo ogni cosa secondo la sua origine, e la manifesto come è. Ma gli altri uomini non si accorgono delle cose che fanno da svegli, così come dimenticano quello che fanno dormendo”.  Eraclito, Dk 22 B,1)

Amare in egizio è mer

 

La radice sia del verbo “amare” che della parola latina “amor” derivano abbastanza verosimilmente da parole  egizie.

Una delle forme più conosciute per indicare il verbo amare nell’egiziano antico è  amauno  (+t =  mr – pronuncia convenzionale mer).  Il primo segno è un bilittero che, quale ideogramma indicante l’aratro od un attrezzo simile, dovrebbe esser letto ad (‘d) . U7 della lista Gardiner (identico ad U6 per  grafia e significato, si differenzia esclusivamente dall’inclinazione dell’attrezzo rispetto all’U7).  Per motivi ancora non chiariti il valore fonetico nel significato di “amore” è come detto mr. amadue è determinativo della parola.  

Varianti sono:  amatrecon valore fonetico sostanzialmente identico (la +t proposta dal Gardiner è mri). Una variante interessante è amaquattro(+t =  mrw).

Il valore fonetico  potrebbe essere meru,  mero od anche mor. Il pulcino di quaglia G43 indicato con valore fonetico W in italiano potrebbe corrispondere ad un suono tra la u e la o. Per quanto detto non si può escludere una pronuncia della parola molto vicina a “mor”, anche se per la verità in copto mr diventa me (mi-ei).

Il termine egizio per indicare la piramide era MR vocalizzato in Mer in cui “M” indica “luogo” e “R” l’atto di salire con il senso compiuto, perciò, di luogo in cui si sale, ovvero avviene l’ascensione.

L’amore è palpito universale, misterioso, che nutre e fa crescere ed è impulso all’ascensione.

 

[1] Vedi in proposito il mio “Le radici scozzesi della Massoneria”.

[i] M. Cacciari, ‘Zum Logos das Wort’. La parola al logos, “La Rivista di Engramma” n. 100, settembre-ottobre 2012, pp. 72-77 |

[ii] M.Cacciari, Metafisica concreta, Adelphi edizioni

[iii] M.Cacciari, Metafisica concreta, Adelphi edizioni

[iv] Gabriella Agrati, Maria Letizia Magini, I racconti gallesi del Mabinogion, Mondadori

[v] Gabriella Agrati, Maria Letizia Magini, I racconti gallesi del Mabinogion, Mondadori

[vi] Paolo Gulisano, l’Isola del Destino, Ancora edizioni.

[vii] Paolo Gulisano, l’Isola del Destino, Ancora edizioni.

[viii] Nuccio D’Anna, Il cristianesimo celtico – I pellegrini della luce, Edizioni dell’Orso.

[ix] Paul Le Cour, Il Vangelo esoterico di Giovanni, Bastogi.

[x] Paolo Gulisano, l’Isola del Destino, Ancora edizioni.

[xi] Franco Rendich, L’origine delle lingue indoeuropee, Palombi Editore

[xii] James Owan Weatherall, La fisica del nulla, Le scienze

[xiii] James Owan Weatherall, La fisica del nulla, Le scienze

[xiv] Fernando Ferroni e Antonio Masiero, La fisica oltre il modello standard, Ed. Corriere delle Sera

[xv] Guido Tonelli, In principio era il vuoto, MicroMega

[xvi] Franco Rendich, Dizionario etimologico comparato delle lingue classiche indoeuropee, L’indoeuropea editrice

[xvii] James Owan Weatherall, La fisica del nulla, Le scienze

[xviii] Franco Rendich, L’origine delle lingue indoeuropee, Palombi Editore

[xix] Franco Rendich, L’origine delle lingue indoeuropee, Palombi Editore

[xx] Franco Rendich, L’origine delle lingue indoeuropee, Palombi Editore

[xxi] Franco Rendich, L’origine delle lingue indoeuropee, Palombi Editore

[xxii] Franco Rendich, L’origine delle lingue indoeuropee, Palombi Editore

[xxiii] Franco Rendich, L’origine delle lingue indoeuropee, Palombi Editore

[xxiv] Franco Rendich, L’origine delle lingue indoeuropee, Palombi Editore

[xxv] Franco Rendich, L’origine delle lingue indoeuropee, Palombi Editore

Silvano Danesi

Silvano Danesi

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