di Matteo Passeri
“Antigone” rappresenta la contrapposizione tra diritto positivo e diritto naturale, inteso non come diritto consuetudinario, che risente di usi e costumi transitori, bensì come legge divina inscritta nel nostro genoma, come spiega la stessa Antigone: “leggi non scritte, incrollabili degli dèi, che non da oggi né da ieri, ma da sempre sono in vita, né alcuno sa quando vennero alla luce”.
Antigone afferma essere giusto violare la legge di Creonte perché questa è contraria al senso di giustizia innato in ognuno di noi per cui, parafrasando Agostino, si potrebbe dire: “in interiore homine habitat ius”. E in effetti, l’esempio utilizzato da Sofocle non potrebbe essere più calzante, posto che il culto dei morti – cui Antigone sente di dover obbedire più che all’editto del tiranno – è testimoniato presso tutte le civiltà, anzi in taluni casi è proprio il culto dei morti che ci ha permesso di avere notizie sulle civiltà più antiche.
Antigone si appella alla “Giustizia” nel senso più alto del termine, che in Grecia era rappresentata dalla Dea “Dike”.
Nel libro: “Elogio del diritto”, di Massimo Cacciari e Natalino Irti, si spiega (citando la “Teogonia” di Esiodo) che Dike è figlia di Zeus e della sua seconda moglie, Themis (il cui nome, etimologicamente, riconduce all’ordine cosmico). Pertanto Dike (la giustizia) è espressione di Themis (l’Ordine). Per Parmenide, Dike è la divinità che tiene separato il giorno dalla notte. Il Nomos (diritto positivo, legge degli uomini) è tale solo se si incardina in Dike e Themis, ossia nella giustizia e nell’ordine. Non è possibile separare il Diritto dalla Giustizia, che è Ordine (Maat, nell’antico Egitto). Altrimenti la legge degli uomini resterà un mero fatto, frutto dell’esercizio di un potere occasionale e transitorio.
Sofocle, nell’Antigone, gioca abilmente con paradossi e contrappassi per rendere evidente il concetto: Polinice, che per la Giustizia/Dike (espressione dell’Ordine cosmico) dovrebbe stare sotto terra (regno dell’Ade) in quanto morto tra i morti, a causa della legge del tiranno Creonte deve stare in superfice; Antigone, viceversa, che appartiene al mondo dei vivi e deve stare sopra la terra, viene seppellita viva, rinchiusa in una caverna. E’ chiaramente un rovesciamento dell’Ordine. Altro paradosso: Antigone agisce mossa dal legame di sangue che la unisce al fratello defunto e cui sente di dover assicurare la giusta sepoltura. La pretesa dello zio di applicare una legge ingiusta perché contraria all’ordine naturale che privilegia il legame di sangue, paradossalmente porterà lo stesso Creonte a perdere tutto “il suo sangue” poiché le sue azioni avranno per conseguenza la morte del figlio Emone (parola che contiene in sé la radice “emo”, ossia “sangue”) e della moglie (che quindi non potrà generare altri discendenti) oltre che della nipote, lasciandolo solo e privo di eredi.
L’”Antigone”, nel contrapporre il diritto positivo al diritto naturale, anticipa di circa duemila anni il dibattito che nel 1.600 infiammerà l’Europa, introdotto dai giusnaturalisti come Rousseau, secondo cui la legge dello Stato può essere trasgredita se, violando il patto tra i consociati, ne lede i diritti naturali. Dibattito quantomai attuale nei giorni che viviamo, in cui si pone in modo drammatico il tema del rapporto tra individuo (che rivendica diritti fondamentali e, poteremmo dire, naturali, perché gli competono per nascita e non in quanto oggetto di concessione dell’Autorità) e Stato (che impone doveri, al punto di conculcare i diritti naturali in nome di un interesse superiore).
A ben vedere la figura di Antigone, al di là della simpatia che suscita nel lettore perché incarna l’ideale del ribelle, presenta anche delle ombre: a sua volta, infatti, non è meno estremista e radicale, nelle sue posizioni, rispetto allo zio tiranno. Semplicemente, i due parlano due linguaggi diversi e non possono comprendersi tra loro.
La soluzione, forse, ce la offre – inascoltato – un personaggio apparentemente secondario, ma che Sofocle sembra prediligere rispetto alla stessa eroina della tragedia. Si tratta di Emone, figlio di Creonte e promesso sposo di Antigone, che, nel tentativo di indurre il padre a desistere dal dare esecuzione al proprio editto, lo invita ad essere ragionevole: “Padre, la ragione è il bene più alto che gli dei abbiano concesso all’uomo”. E il coro, sempre presente durante lo svolgersi della tragedia, gli fa eco: “La saggezza è la prima condizione della felicità”. La saggezza, dunque, come filtro per applicare la legge, divina o umana che sia.
L’”Antigone” di Sofocle presenta molte altre chiavi di lettura, che peraltro ruotano sempre attorno alla apparente inconciliabilità degli opposti. Ce ne parla Hegel nella “fenomenologia dello Spirito”.
Per Hegel Antigone rappresenta il femminile contrapposto al maschile rappresentato da Creonte. Il femminile, che genera, è custode della vita e si prende cura della famiglia. La legge divina, scrive il filosofo, “ha la sua individualizzazione nella femmina”. Il maschile, invece, è responsabile della comunità, la sua dimensione è quella collettiva e si preoccupa di dare la legge agli uomini. Questa tensione tra opposti da luogo al conflitto tra famiglia e comunità (o governo) e tra femmina e maschio, e di questo conflitto ci parla la tragedia di Sofocle secondo Hegel. Nella tragedia dell’”Antigone” la vittoria sembra andare al maschile, quindi allo Stato, ma è un inganno perché in realtà la trasgressione all’Ordine (inteso come legge divina) di cui il femminile è custode, porterà alla rovina di Creonte.