L’avvicinamento della ricerca scientifica alla metafisica è sorprendente e induce riflessioni sull’anima intesa come corpo di luce.
Rappresentazione artistica del cristallo di luce supersolido
Un team di ricercatori italiani è riuscito per la prima volta a trasformare la luce in un supersolido, ossia in un materiale unico che possiede una caratteristica sorprendente: la viscosità zero, simile a un superfluido, combinata con una struttura ordinata, paragonabile a quella dei cristalli convenzionali.
Gli scienziati sono riusciti a trasformare particelle di luce in un “cristallo” che scorre come un liquido, ma che è allo stesso tempo un solido: è l’incredibile stato della materia chiamato supersolido.
Un “supersolido” a livello quantistico è uno stato della materia che combina la rigidità strutturale tipica dei solidi con quella di fluire senza attrito dei superfluidi.
Dal punto di vista di una possibile riflessione sull’anima, il supersolido risolverebbe la questione di come possa un corpo di luce (l’anima) mantenere coerenza e, allo stesso tempo, non avendo attrito, durare all’infinito.
In altri termini, quanto hanno fatto gli scienziati del Cnr permette di ipotizzare che la Natura consenta all’essere umano di avere un corpo biochimico (bios), materiale, che ha massa e quindi attrito e un corpo di luce, che non ha massa, non ha attrito e, tuttavia, ha coerenza.
Procediamo con ordine.
Il supersolido, descritto sulla rivista Nature, è stato ottenuto dalla ricerca internazionale guidata da Dimitrios Trypogeorgos, dell’Istituto di Nanotecnologia del Consiglio nazionale delle ricerche a Lecce. Hanno partecipato inoltre l’Istituto nazionale di ottica del Cnr a Firenze, le Università di Pavia Innsbruck e Princeton e il Laboratorio Lawrence Berkeley negli Stati Uniti.
Recenti studi avevano permesso di realizzare alcuni materiali supersolidi composti da particolari tipi di atomi. “Noi – ha detto Trypogeorgos all’Ansa- abbiamo seguito un approccio completamente diverso e abbiamo realizzato un supersolido basato sui fotoni. Abbiamo letteralmente trasformato la luce in un solido. È qualcosa di veramente eccezionale”.
L’annuncio della trasformazione della luce in un supersolido paragonabile ad un cristallo convenzionale mi ha immediatamente riportato alla mente quanto afferma il fisico Carlo Rovelli, quando scrive: “I miti si nutrono di scienza e la scienza si nutre di miti”[i]
Da anni, da quando mi fu regalato un cristallo ottagonale di fluorite che chiamai il “Cristallo di Ilaria”, dove Ilaria sta per Ilargia, la luce nella lingua dei baschi, mi interesso della possibilità che, quando il nostro corpo biochimico soggiace all’entropia (muore), la nostra identità, la nostra intelligenza, la nostra coscienza, le informazioni derivanti dalla nostra esperienza si trasferiscano in un corpo di luce, che possiamo chiamare anima.
Il cristallo di Ilaria
Un corpo di luce è fatto di fotoni, ossia di quanti del campo elettromagnetico. Come può essere che un corpo di fotoni mantenga coerenza in una forma? Come può essere che quanto ci raccontano alcuni miti e alcune tradizioni sapienziali abbia un riscontro scientifico?
Ecco che improvvisamente, con un lampo di luce, la fisica quantistica risponde al quesito.
La creazione di un supersolido di luce rappresenta un entusiasmante punto di partenza per i ricercatori nel campo della fisica quantistica, ma anche un’interessante possibilità di comparare quanto ci consegna la ricerca scientifica con quanto ci ha consegnato la tradizione.
Quello che ci interessa sottolineare è che la luce diventa una sostanza impossibile: rigida come un cristallo ma fluida senza attrito.
Quanto è possibile ottenere in laboratorio lo è in quanto esistono leggi della Natura che lo consentono ed è del tutto possibile che nel grande athanor della Natura universale questo processo di cristallizzazione della luce avvenga, senza che ci sia l’intervento umano.
È possibile che un corpo di luce mantenga coerenza? Questa era la domanda relativa alla possibilità di sopravvivenza dell’anima.
La coerenza è la proprietà di un’onda elettromagnetica (quindi la luce) di mantenere una certa relazione di fase con sé stessa durante la sua propagazione.
Possiamo considerare la coerenza anche come la connessione e l’interdipendenza delle parti.
Ervin Laszlo, scrive che “il livello di coerenza dimostrata dagli organismi suggerisce che processi di tipo quantistico possono avvenire dentro di essi” e che “l’organismo vivente” sia “in un certo senso un «macroscopico sistema quantico»”. [ii]
“L’organismo vivente – secondo Ervin Laszlo – è straordinariamente coerente: tutte le sue parti sono connesse con tutte le altre in modo multidimensionale, dinamico e quasi istantaneo. […] L’organismo è anche coerente con il mondo intorno a sé: ciò che accade all’esterno dell’organismo è riflesso. […]. La coerenza dell’organismo va oltre la coerenza di un sistema biochimico; sotto alcuni aspetti essa equivale alla coerenza di un sistema quantico”.[iii]
Dopo quanto scritto è pensabile che il supersolido di luce abbia una coerenza tale da far ipotizzare che un corpo di luce ne abbia una simile, se non uguale.
Un approccio filosofico
Proviamo ora ad affrontare la questione dal punto di vista della filosofia nel suo procedere alla definizione della sostanza.
Il termine latino substantia come del resto il termine subjectum è la traduzione del greco hypokeimenon, “ciò che sta sotto”.
Tuttavia nella tradizione filosofica il latino substantia è stato usato piuttosto come traduzione del termine greco ousia, drivante da ousa, participio presente femminile del verbo essere.
Aristotele, nella Metafisica, definisce la sostanza secondo due sensi fondamentali: come sostrato (hypokeimenon) e come essenza (to ti en einai; letteralmente: “che cos’era essere” ciò per cui una certa cosa è ciò che è e non un’altra.
Sostanza come essenza dell’essente.
Per quanto riguarda il primo senso Aristotele ritiene che “la forma e il sinolo [siano] sostanza più autenticamente della materia”.
Per quanto riguarda il secondo senso, quello di essenza, Aristotele identifica la sostanza con ciò che è enunciato dalla definizione per genere prossimo e differenza specifica: in questo senso essa non è altro che la forma.
Decartes introduce il concetto di res cogitans, sostanza pensante.
La sostanza pensante, libero spazio di interiorità, viene distinta realmente dalla sostanza estesa (res extensa), pura esteriorità geometrica, e questa distinzione apre alla questione della comunicazione delle due sostanze, risolta da Descartes attraverso il concetto aporetico di ghiandola pineale.
Leibniz ritiene che le sostanze siano create, individuali, infinite per numero e per gradi di perfezione, attive, spirituali e chiamerà queste sostanze spirituali con il termine “monade”.
Ora, dopo la scoperta dei fisici relativa all’ipersolido di luce, possiamo avanzare l’ipotesi che la sostanza, intesa come sinolo (unione) di forma e materia introdotto da Aristotele possa applicarsi al sinolo di forma e luce.
Se così fosse, avremmo una sostanza materiale e una sostanza di luce.
La materia è un’entità provvista di una propria consistenza fisica ed è dotata di peso e di misura. Nella sua unione con la forma si presenza come sostanza.
La sostanza materiale appartiene alla categoria dei fermioni.
La luce, composta di fotoni, non è materia. Un fotone è privo di massa, appartiene alla categoria dei bosoni e, poiché non decade spontaneamente, la sua vita è infinita.
Se consideriamo l’anima come corpo di luce, la vita infinita del fotone significa vita infinita dell’anima.
Se il ragionamento ha senso, siamo di fronte alla prova scientifica della nostra immortalità.
Gli esseri di luce
La scoperta del supersolido di luce non riguarda solamente la sopravvivenza dell’essere umano in un corpo di luce dopo la morte del corpo biochimico materiale, ma anche la possibilità che esistano esseri fisici composti da sola luce, dotati di intelligenza e di coscienza, capaci di interagire tra di loro e con gli esseri umani.
La risposta che ci viene dalla tradizione è positiva.
I “Vigilanti”: esseri fisici di luce
La tradizione egizia, fissata nel linguaggio geroglifico, ci trasferisce l’esistenza di esseri fisici, non simbolici, di luce.
In Egitto gli “Aku, o «spiriti» – scrive Dimitri Meeks – appartengono piuttosto al mondo dei morti, sia che un tempo siano stati vivi, sia che facciano parte della popolazione autoctona, e questo spiega le apparenti contraddizioni della loro natura. Tra loro si incontreranno, di volta in volta: defunti in pace, fantasmi, démoni malvagi, geni benevoli o esseri superiori senza alcun interesse per il mondo dei vivi”. [iv]
Gli Akhou possono essere Neterou.
Massimo Barbetta, nel suo “La porta degli dei”, scrive di molti riferimenti , nei testi egizi, di un folto gruppo di “esseri” definiti Henmemet e riferisce che “secondo antiche leggende, proprio nella Heliopolis «terrestre», fosse stanziata un’assemblea di saggi, eredi umani di esseri o spiriti che si sostanziavano solo grazie alla luce. Ma di «luce» essi sembravano avere anche l’aspetto, vista la presenza del determinativo del «sole che manda raggi», frequente espressione di oggetti o di persone che emanano luce o brillantezza o radiosità, che era un permanente determinativo del loro nome”. [v]
Gli Henmemet, ci avverte Barbetta, sono convenzionalmente conosciuti dagli egittologi come “popolo del sole” e risultano abbinati nel lessico geroglifico, sia agli Aaku-u, “Spiriti divini”, sia agli AAkhu-t, “Spiriti umani”.
Gli Henmemet sono considerati dagli egittologi una classe di esseri celesti, intermediari tra gli dèi e gli uomini e che potrebbero aver dato origine agli Shemsu Hor, i seguaci di Horus.
“Per Vincent Bridges gli «Henmemet» – ci ricorda Barbetta, al cui testo: “La porta degli Dèi”, rimando per ogni approfondimento – erano esseri fisici, non spirituali, che si spostavano tra le stelle. Essi erano caratterizzati da una forte connotazione di «luce», che li «nutriva» e li «rivestiva»”. [vi]
Come determinativo che li riguarda gli Henmemet hanno una pianta. Custodi di piante o di erbe, gli Henmemet potrebbero essere anche considerati civilizzatori che hanno insegnato la domesticazione dei vegetali agli esseri umani.
Va ricordato che il loto è seshen ed è il simbolo del rapporto tra la terra (le sue radici affondano nella terra intrisa d’acqua) e il cielo. Il loto blu è il fiore nel quale è nato Horus (simbolo del cielo nel quale nasce il sole). Il sacro loto è, inoltre, simbolo di vita eterna e di rinascita. Non a caso il geroglifico del loto indica, numericamente il numero mille, ossia le Migliaia che, potrebbe anche avere a che fare con la “Nascita delle Migliaia”, khau mes, associata alle Pleiadi.
Non entro nel merito degli aspetti astronomici e di viaggi stellari. Chi volesse approfondire legga il bel libro di Barbetta. Tuttavia, è necessaria un’ultima citazione.
“Gli «Henmemet» – scrive Barbetta – erano, inoltre, molto vicini agli dèi e, talora, venivano assimilati a «Dei che stanno in cielo», venendo accostati, in un contesto celeste, a Sirio, Orione e alle «Stelle che non tramontano»”. [vii]
Sirio e Orione sono due costellazioni alle quali sono associati rispettivamente Iside e Osiride, i due Neter civilizzatori che hanno donato agli esseri umani i segreti della coltivazione. Iside e Osiride, nella declinazione greca sono Demetra e Dioniso.
Gli Henmemet possono pertanto essere una chiave interessante per capire i Riti Isiaci e Osiriaci e quelli Elesusini che, evidentemente, contenevano segreti scientifici che oggi la scienza potrebbe rendere comprensibili.
Gli Henmemet potrebbero essere gli “Splendenti” babilonesi o gli Elohim ebraici. Infatti a questo proposito Barbetta ricorda come Christian e Barbara O’Brien (The Shining Ones), ritengono che gli Splendenti sarebbero alla base della radice etimologica del termine ebraico per “Dei” Elhoim.
L’etimologia del termine Henmemet, sempre secondo Barbetta, sarebbe composto da due parole unite fra di loro: la H, dal senso di “stesso, autonomo” e dal fonema Hen, dal significato di “dirigere, comandare, governare” o dal fonema graficamente omologo, ma dal significato di “correggere, affrettarsi”. La seconda parte sarebbe formata dalla radice Nem, che significa camminare, viaggiare, spostarsi.
Seguiamo ancora Barbetta, il quale ci informa che nel papiro Carlsberg VII, di epoca tarda, vi sono frammenti di una sorta di dizionario, che alla voce Hnmmt riporta la glossa gente del dio Atum.
Se si consultano i vocabolari egizi, si scopre che met significa vedere e spettatore (behold) e che anche m ha lo stesso significato. Il verbo hn ha il significato di formare, equipaggiare, comandare, controllare.
Nell’insieme Henmemet potrebbe significare coloro che vedono e controllano da spettatori, ossia i Vigilanti dei quali riferiscono molte tradizioni.
Interessante anche la traduzione di met come “nave del corpo”, ossia contenitore del corpo e di “in addressing female”, che li indica come coloro che osservano e si rivolgono alle femmine. Un concetto che è perfettamente in linea con il Libro della Genesi.
Nella Genesi 6:1-8 si legge infatti: «Quando gli uomini cominciarono a moltiplicarsi sulla terra e nacquero loro delle figlie, i figli di Dio videro che le figlie degli uomini erano belle e ne presero per mogli a loro scelta. Allora il Signore disse: “Il mio spirito non resterà sempre nell’uomo, perché egli è carne e la sua vita sarà di centoventi anni”. C’erano sulla terra i giganti a quei tempi – e anche dopo -, quando i figli di Dio si univano alle figlie degli uomini e queste partorivano loro dei figli: sono questi gli eroi dell’antichità, uomini famosi».
Massimo Barbetta, in un articolo pubblicato su Archeomisteri n° 11 del settembre/ottobre 2003, a proposito degli Ha(u)nebu, un popolo misterioso, associato agli Atlantidei, scrive che sono associati alle divinità e al cielo e considerando il nome egizio Nebu uguale a Signori, ritiene possa richiamare la radice ebraica Neph, relativa ai Nephilim, coloro che sono stati fatti scendere sulla Terra. Barbetta ricorda anche le possibili assonanze con le divinità creatrici dei Maya: Hunab ku, Hun Hunahpu, Vucub Hunahpu, Hunahpu.
Interessante anche il possibile accostamento con i me della mitologia sumera.
I me, nella mitologia sumera, sono delle forze impersonali che concorrono, insieme con gli Dei, a garantire l’ordine dell’universo; definiscono energie, stati o azioni create da forze divine, capaci di mantenersi in esistenza ed in moto continuo grazie ad una forza propria, indipendente ed a sé stante. I me hanno origine divina e descrivono le regole e le leggi divine che stanno a fondamento dell’uomo, del suo divenire e della sua civiltà.
Nella mitologia, i me sono custoditi dal dio degli oceani Enki, il quale, in un momento di ebbrezza, li cede alla dea Inanna, nipote di Enlil, suo fratellastro e superiore a tutti gli dei sulla terra, la quale, dopo aver superato molti ostacoli, ne fa dono ai suoi protetti, gli abitanti della città di Uruk, grazie ai quali essi accrescono il benessere e la prosperità della città.
La tradizione ebraica ci consegna molti esempi di esseri di luce. Nella tradizione ebraica di origine cananea troviamo i Beney elohim. “Secondo i testi di ras Shamra – scrive André Caquot – il grande dio El è circondato da divinità differenziate, chiamate collettivamente ilm (dei) bn ilm (figli di Dio) o ben qdsh (santi)”. [viii]
I Maleâk sono esseri inferiori a Dio e superiori all’uomo; sono i messaggeri di Dio e una guida inviata agli esseri umani. Maleâk è derivato nominale della radice l-e-k (latore), dalla quale ha avuto origine il verbo inviare in diverse lingue semitiche, tranne l’ebraico e l’aramaico. Lo si trova nella lingua Ras Shamra e Maleâk è un termine usuale nella lingua fenicia. L’origine cananea del nome ebraico dell’angelo è, pertanto, verosimile. [ix]
“Essere celeste, in grado di scendere in ogni momento in un luogo qualsiasi della terra, l’angelo può passare per un modello di onniscienza”. [x]
L’angelo interprete rappresenta una personificazione dell’ispirazione divina e i nomi degli angeli comparvero dopo il rientro da Babilonia. Gabriele è “l’uomo di Dio”, Michele è “Chi è come Dio?”. Raffaele è il “guaritore”.
“Di norma – scrive André Caquot – gli angeli sono invisibili. Quando si lasciano vedere, per ordine del loro signore, hanno un aspetto umano, ma trasfigurato da una luce soprannaturale; sono gli «angeli della luce» (II Corinti, XI,14), «essi camminano su lingue di fuoco, sono vestiti di bianco e il loro volto brilla come il cristallo» (Henoc etiopico LXXI, 1). […]. Sono fatti di fuoco e di fiamme (Apocalisse siriaca di Baruc XXI,6). […]. Sono spiriti che sfuggono alla condizione corporea; non si nutrono (Talmud Yoma, 75b), non generano, salvo rare eccezioni, conoscono segreti inacessibili all’uomo […] sono immortali”. [xi] L’angelo opera una metamorfosi salendo in cielo insieme alla fiamma con la quale la sua natura deve avere una qualche affinità.
In Babilonia il genio intercessore Karibu si trova all’ingresso del santuario. Karibu significa l’orante (da Karâbu, pregare). I Karibu erano assimilati a divinità erano preceduti dall’ideogramma Dinger e possono essere assimilati all’ebraico Kerubin.
Nella mentalità altaica, come riferisce Jean Paul Roux, non si distingue il materiale dallo spirituale, l’animato dall’inanimato e in tutti gli esseri viventi vi sono una o più anime e “tutto ciò che nell’universo manifesta un potere superiore alle normali capacità umane e inferiore all’onnipotenza celeste, può essere considerato una potenza intermediaria”.[xii] Questi esseri speciali sono “esseri eccezionali le cui caratteristiche sono prossime a quelle attribuite ai geni, agli angeli, ai démoni, agli dèi minori e ai santi. […]. Giungiamo così alla constatazione – sostiene Jean Paul Roux – che le potenze intermediarie che, nella regione altaica, occupano approssimativamente il posto riservato, in altri sistemi religiosi, ai geni e ai démoni, non sono né esseri celesti, né esseri umani, né vegetali, né animali, ma possono essere stati o diventare esseri intermediari”. [xiii]
“L’armonia cosmica – sostiene Jean Paul Roux –, il parallelismo tra Cielo e Terra, bastano a mantenere l’equilibrio dell’universo. Quando la volontà divina vuole manifestarsi agli uomini, lo fa attraverso una sollecitazione interiore: il cielo fece pressione, dicono i testi. Altre volte si serve, come intermediario, del principe che la rappresenta sulla terra. […]. Eppure, sappiamo di frequenti interventi di inviati di Dio. Come ho già detto – scrive Jean Paul Roux – è difficile stabilire se si tratti di personaggi autonomi o di epifanie divine. Certo, l’inviato ha una forma speciale, è concepito come un essere particolare di cui si conserva il ricordo e che non si può mai identificare con il grande Dio”. [xiv]
Gli esseri intermediari si distinguono in tre gruppi: gli inviati di Dio o del Cielo o manifestazioni visibili alla potenza celeste; gli esseri intermediari invisibili, liberi da qualsiasi vincolo (ausiliari o avversari dello sciamano); gli esseri che sono insediati in un oggetto (idoli, penati, bandiere che animano un luogo).
Nella mentalità altaica tutto è anima, tutto è energia. “Là dove noi vediamo esserei ben delineati, sotto il profilo fisico e psicologico, l’Altaico, come molti «primitivi» (pur essendo ad uno stato superiore di civiltà), concepisce delle forze o un’energia cosmica dalle mutevoli e infinite manifestazioni”. [xv]
In India l’universo è concepito come una gerarchia di ordini di esistenza. Si parla di mondi (loka) tra loro comunicanti.
“Di conseguenza – scrive in proposito Jean Varenne – il destino dell’individuo viene paragonato ad una sorta di cursus honorum di superamento progressivo di molti gradini della scala cosmica, beninteso con la possibilità di tornare o di saltare in avanti”. [xvi]
Nella concezione indiana un essere esistente in sé, il Brahaman (neutro) si manifesta nel principio cosmico di un ciclo sotto forma di demiurgo: Brahma (maschile), il quale chiama in vita Manu, il quale dà inizio alla creazione.
“Forme illusorie della maya divina o creature di parajapati, i geni e i demoni – scrive Jean Varenne – hanno pur sempre il loro posto nell’universo, con una funzione ben precisa da svolgere. Si tratta della funzione di ausiliari, ed è in questo senso che spesso vengono classificati come esseri «secondari».
Il Rig Veda canta i Marut, geni dei boschi, delle acque, dei fiumi e via discorrendo. I Gandharva sono musici celesti, le Aspara sono ninfe, gli Aksha sono alberi, i naga draghi o serpenti dal volto umano. Gli Asura sono forze vitali. “Nessun aspetto della natura – commenta Jean Varenne – è esente da influenze invisibili, misteriose, appartenenti all’altro mondo (o meglio, agli altri mondi)”. [xvii]
Di notevole interesse la cultura di Harran. “Gli Harraniani – scrive Gerard Russel – concordavano con quei filosofi greci che credevano nell’esistenza di un Dio supremo, il quale è la causa ultima della nascita dell’universo ma trascende ogni possibilità di comprensione da parte dell’intelletto umano. Poiché Dio era letteralmente indescrivibile, i comuni mortali potevano al massimo ambire a vedere e riverire le sue proiezioni nell’universo materiale” e poteva darsi “una discesa dell’essenza di Dio” in un essere umano, “ovvero la discesa di una porzione della sua essenza, che ha luogo conformemente al grado di preparazione della persona stessa, cosicché quando l’essenza discende nella sua forma più piena, può trasformare la persona in una sorta di proiezione di Dio sulla terra. [xviii]
“Gli Harraniani – afferma Rerard Russel – credevano nella reincarnazione, il ché implica che queste proiezioni divine potevano morire e rinascere, ritornando sulla terra in epoche successive”. [xix]
La tradizione, come si può ben vedere, ci consegna una risposta positiva alla nostra domanda sulla possibile esistenza di esseri di luce.
[i] Carlo Rovelli, Sette brevi lezioni di fisica, Adelphi
[ii] Ervin Laszlo, La scienza e il piano akashico, Feltrinelli
[iii] Ervin Laszlo, La scienza e il piano akashico, Feltrinelli
[iv] Dimitri Meeks, in AA.VV., Geni, angeli e demoni, Mediterranee.
[v] Massimo Barbetta, La porta degli Dèi, Uno edizioni
[vi] Massimo Barbetta, La porta degli Dèi, Uno edizioni
[vii] Massimo Barbetta, La porta degli Dèi, Uno edizioni
[viii] Angeli e demoni in Israele di André Caquot, in AA.VV., Geni, angeli e demoni, Mediterranee.
[ix] Vedi Angeli e demoni in Israele di André Caquot, in AA.VV., Geni, angeli e demoni, Mediterranee.
[x] Angeli e demoni in Israele di André Caquot, in AA.VV., Geni, angeli e demoni, Mediterranee.
[xi] Angeli e demoni in Israele di André Caquot, in AA.VV., Geni, angeli e demoni, Mediterranee.
[xii] Jean Paul Roux, Gli esseri intermediari presso i popoli altaici, in AA.VV., Geni, angeli e demoni, Mediterranee.
[xiii] Jean Paul Roux, Gli esseri intermediari presso i popoli altaici, in AA.VV., Geni, angeli e demoni, Mediterranee.
[xiv] Jean Paul Roux, Gli esseri intermediari presso i popoli altaici, in AA.VV., Geni, angeli e demoni, Mediterranee.
[xv] Jean Paul Roux, Gli esseri intermediari presso i popoli altaici, in AA.VV., Geni, angeli e demoni, Mediterranee.
[xvi] Jean Varenne, Angeli, Demoni e Geni in India in in AA.VV., Geni, angeli e demoni, Mediterranee.
[xvii] Jean Varenne, Angeli, Demoni e Geni in India in in AA.VV., Geni, angeli e demoni, Mediterranee.
[xviii] Vedi Gerard Russel, Regni dimenticati, Adelphi
[xix] Vedi Gerard Russel, Regni dimenticati, Adelphi
The convergence of scientific research with metaphysics is astonishing and prompts reflections on the soul understood as a body of light.
An Italian research team has, for the first time, succeeded in transforming light into a supersolid—a unique material with a surprising characteristic: zero viscosity, similar to a superfluid, combined with an ordered structure comparable to that of conventional crystals.
Scientists have managed to turn light particles into a “crystal” that flows like a liquid while simultaneously being a solid: this is the incredible state of matter known as a supersolid.
At the quantum level, a “supersolid” is a state of matter that combines the structural rigidity typical of solids with the frictionless flow of superfluids.
From the perspective of a possible reflection on the soul, the supersolid could resolve the question of how a body of light (the soul) might maintain coherence while, at the same time, having no friction and thus enduring indefinitely.
In other words, what the scientists at the CNR (Italian National Research Council) have achieved allows us to hypothesize that Nature permits human beings to have a biochemical body (bios), a material one with mass and therefore friction, alongside a body of light, which has no mass, no friction, and yet retains coherence.
Let’s proceed step by step.
The supersolid, described in the journal Nature, was achieved through international research led by Dimitrios Trypogeorgos from the Institute of Nanotechnology of the National Research Council in Lecce. The effort also involved the National Institute of Optics of the CNR in Florence, the Universities of Pavia, Innsbruck, and Princeton, and the Lawrence Berkeley Laboratory in the United States.
Recent studies had already enabled the creation of some supersolid materials composed of specific types of atoms. “We,” Trypogeorgos told ANSA, “took a completely different approach and created a supersolid based on photons. We literally transformed light into a solid. It’s something truly exceptional.”
The announcement of the transformation of light into a supersolid, comparable to a conventional crystal, immediately brought to mind the words of physicist Carlo Rovelli, who wrote: “Myths feed on science, and science feeds on myths.”
For years, ever since I was given an octagonal fluorite crystal that I named “Ilaria’s Crystal”—where Ilaria stands for Ilargia, meaning light in the Basque language—I have been intrigued by the possibility that when our biochemical body succumbs to entropy (dies), our identity, intelligence, consciousness, and the information derived from our experiences might transfer into a body of light, which we could call the soul.
A body of light is made of photons, that is, quanta of the electromagnetic field. How could a body of photons maintain coherence in a form? How could it be that what certain myths and wisdom traditions recount finds scientific corroboration?
Suddenly, with a flash of light, quantum physics provides an answer.
The creation of a supersolid of light represents an exciting starting point for researchers in the field of quantum physics, but it also offers an intriguing opportunity to compare what scientific research delivers with what tradition has handed down to us.
What we wish to emphasize is that light becomes an impossible substance: rigid like a crystal yet fluid without friction.
What can be achieved in a laboratory is possible because there are laws of Nature that allow it, and it is entirely plausible that in the great alchemical furnace of universal Nature, this process of light crystallization occurs without human intervention.
Is it possible for a body of light to maintain coherence? This was the question regarding the soul’s potential survival.
Coherence is the property of an electromagnetic wave (thus light) to maintain a certain phase relationship with itself during propagation.
We can also consider coherence as the connection and interdependence of parts.
Ervin Laszlo writes that “the level of coherence demonstrated by organisms suggests that quantum-like processes may occur within them” and that “the living organism” is, in a sense, “a macroscopic quantum system.”
“The living organism,” according to Ervin Laszlo, “is extraordinarily coherent: all its parts are connected with all the others in a multidimensional, dynamic, and almost instantaneous way. […] The organism is also coherent with the world around it: what happens outside the organism is reflected. […] The organism’s coherence goes beyond that of a biochemical system; in some respects, it equates to the coherence of a quantum system.”
The Latin term substantia, like the term subjectum, is a translation of the Greek hypokeширenon, meaning “that which lies beneath.”
However, in the philosophical tradition, the Latin substantia was more commonly used as a translation of the Greek ousia, derived from ousa, the feminine present participle of the verb “to be.”
Aristotle, in his Metaphysics, defines substance in two fundamental senses: as substrate (hypokeширenon) and as essence (to ti en einai, literally: “what it was to be,” meaning that by which a certain thing is what it is and not something else).
Substance as the essence of being.
Regarding the first sense, Aristotle considers “the form and the composite [to be] substance more authentically than matter.”
As for the second sense, that of essence, Aristotle identifies substance with what is expressed by a definition based on the nearest genus and specific difference: in this sense, it is nothing other than the form.
Descartes introduces the concept of res cogitans, the thinking substance.
The thinking substance, a free space of interiority, is distinctly separated from the extended substance (res extensa), pure geometric exteriority, and this distinction raises the question of the communication between the two substances, which Descartes resolves through the problematic concept of the pineal gland.
Leibniz holds that substances are created, individual, infinite in number and degrees of perfection, active, spiritual, and he calls these spiritual substances “monads.”
Now, following the physicists’ discovery of the supersolid of light, we can propose the hypothesis that substance, understood as the composite (synolon) of form and matter introduced by Aristotle, might also apply to a composite of form and light.
If this were the case, we would have a material substance and a light substance.
Matter is an entity endowed with its own physical consistency, possessing weight and measure. In its union with form, it presents itself as substance.
Material substance belongs to the category of fermions.
Light, composed of photons, is not matter. A photon has no mass, belongs to the category of bosons, and, since it does not spontaneously decay, its lifespan is infinite.
If we consider the soul as a body of light, the infinite lifespan of the photon would mean the infinite lifespan of the soul.
If this reasoning holds, we are faced with scientific proof of our immortality.
The answer provided by tradition is affirmative.
The “Watchers”: Physical Beings of Light
The Egyptian tradition, encoded in hieroglyphic language, conveys the existence of physical, non-symbolic beings of light.
In Egypt, the “Aku, or ‘spirits,’” writes Dimitri Meeks, “belong more to the world of the dead, whether they were once alive or are part of an indigenous population, which explains the apparent contradictions in their nature. Among them, one encounters, at different times: peaceful deceased, ghosts, malevolent demons, benevolent genies, or superior beings with no interest in the world of the living.”
The Akhou can be Neterou.
Massimo Barbetta, in his book The Gate of the Gods, writes of numerous references in Egyptian texts to a large group of “beings” defined as Henmemet and notes that “according to ancient legends, it was precisely in the ‘terrestrial’ Heliopolis that an assembly of wise men, human heirs of beings or spirits sustained solely by light, was stationed. They also seemed to have the appearance of ‘light,’ given the presence of the determinative of the ‘sun emitting rays,’ a frequent expression for objects or people radiating light, brilliance, or radiance, which was a permanent determinative of their name.”
The Henmemet, Barbetta informs us, are conventionally known to Egyptologists as the “people of the sun” and are linked in hieroglyphic vocabulary to both the Aaku-u, “divine spirits,” and the AAkhu-t, “human spirits.”
Egyptologists consider the Henmemet a class of celestial beings, intermediaries between gods and humans, who may have given rise to the Shemsu Hor, the followers of Horus.
“For Vincent Bridges, the ‘Henmemet,’” Barbetta recalls, referring to his book The Gate of the Gods for further exploration, “were physical, not spiritual beings who moved among the stars. They were characterized by a strong connotation of ‘light,’ which ‘nourished’ and ‘clothed’ them.”
As a determinative associated with them, the Henmemet have a plant. Guardians of plants or herbs, the Henmemet might also be regarded as civilizers who taught humans the domestication of vegetation.
It should be noted that the lotus is seshen and symbolizes the relationship between the earth (its roots anchored in water-soaked soil) and the sky. The blue lotus is the flower from which Horus (symbolizing the sky in which the sun is born) emerged. The sacred lotus is also a symbol of eternal life and rebirth. Not coincidentally, the hieroglyph of the lotus numerically represents one thousand, i.e., the Thousands, which might also relate to the “Birth of the Thousands,” khau mes, associated with the Pleiades.
I won’t delve into the astronomical aspects or stellar travel. Those interested can explore Barbetta’s excellent book. However, one final quote is necessary.
“The ‘Henmemet,’” writes Barbetta, “were also very close to the gods and were sometimes assimilated to ‘Gods who dwell in the sky,’ being associated, in a celestial context, with Sirius, Orion, and the ‘Stars that never set.’”
Sirius and Orion are two constellations linked respectively to Isis and Osiris, the two civilizing Neter who gifted humans with the secrets of agriculture. In their Greek iteration, Isis and Osiris become Demeter and Dionysus.
The Henmemet may thus provide an intriguing key to understanding the Isiac and Osirian rites, as well as the Eleusinian mysteries, which evidently contained scientific secrets that today’s science might render comprehensible.
The Henmemet could be the Babylonian “Shining Ones” or the Hebrew Elohim. In this regard, Barbetta notes that Christian and Barbara O’Brien (The Shining Ones) argue that the Shining Ones might underlie the etymological root of the Hebrew term for “Gods,” Elohim.
According to Barbetta, the etymology of Henmemet might consist of two combined words: H, meaning “self, autonomous,” and the phoneme Hen, meaning “to direct, command, govern,” or a graphically similar phoneme meaning “to correct, hasten.” The second part would derive from the root Nem, meaning “to walk, travel, move.”
Following Barbetta further, he informs us that in the late-period Carlsberg VII papyrus, fragments of a sort of dictionary list under the entry Hnmmt the gloss “people of the god Atum.”
Consulting Egyptian vocabularies, one finds that met means “to see” and “spectator” (behold), and m carries the same meaning. The verb hn means “to form, equip, command, control.”
Taken together, Henmemet could mean “those who see and control as spectators,” i.e., the Watchers referenced in many traditions.
Also intriguing is the translation of met as “ship of the body,” meaning a container of the body, and “in addressing female,” indicating those who observe and address females—a concept perfectly aligned with the Book of Genesis.
In Genesis 6:1-8, we read: “When human beings began to increase in number on the earth and daughters were born to them, the sons of God saw that the daughters of humans were beautiful, and they married any of them they chose. Then the Lord said, ‘My Spirit will not contend with humans forever, for they are mortal; their days will be a hundred and twenty years.’ The Nephilim were on the earth in those days—and also afterward—when the sons of God went to the daughters of humans and had children by them. They were the heroes of old, men of renown.”
Massimo Barbetta, in an article published in Archeomisteri no. 11 (September/October 2003), regarding the Ha(u)nebu, a mysterious people associated with the Atlanteans, writes that they are linked to deities and the sky. Considering the Egyptian term Nebu meaning “Lords,” he suggests it might recall the Hebrew root Neph, related to the Nephilim, “those who were brought down to Earth.” Barbetta also notes possible resonances with the creator deities of the Maya: Hunab Ku, Hun Hunahpu, Vucub Hunahpu, Hunahpu.
Equally interesting is the potential connection with the me of Sumerian mythology.
In Sumerian mythology, the me are impersonal forces that, together with the gods, ensure the order of the universe; they define energies, states, or actions created by divine forces, capable of sustaining themselves in existence and continuous motion through an independent, self-contained force. The me have a divine origin and describe the rules and divine laws that underpin humanity, its development, and its civilization.
In mythology, the me are guarded by the ocean god Enki, who, in a moment of intoxication, hands them over to the goddess Inanna, granddaughter of Enlil, his half-brother and superior to all gods on Earth. After overcoming many obstacles, Inanna gifts them to her protégés, the inhabitants of the city of Uruk, through which they enhance the city’s well-being and prosperity.
The Jewish tradition provides numerous examples of beings of light. In the Jewish tradition of Canaanite origin, we find the Beney Elohim. “According to the Ras Shamra texts,” writes André Caquot, “the great god El is surrounded by differentiated deities, collectively called ilm (gods), bn ilm (sons of God), or ben qdsh (holy ones).”
The Maleâk are beings inferior to God and superior to humans; they are God’s messengers and guides sent to humanity. Maleâk is a nominal derivative of the root l-e-k (bearer), from which the verb “to send” originated in various Semitic languages, except Hebrew and Aramaic. It is found in the Ras Shamra language, and Maleâk is a common term in Phoenician. The Canaanite origin of the Hebrew name for angel is thus plausible.
“A celestial being capable of descending at any moment to any place on Earth, the angel can be seen as a model of omniscience.”
The interpreting angel represents a personification of divine inspiration, and angel names emerged after the return from Babylon. Gabriel is “man of God,” Michael is “Who is like God?,” Raphael is “healer.”
“Typically,” writes André Caquot, “angels are invisible. When they allow themselves to be seen, by order of their lord, they have a human appearance, but transfigured by a supernatural light; they are the ‘angels of light’ (2 Corinthians 11:14), ‘they walk on tongues of fire, are clothed in white, and their faces shine like crystal’ (Ethiopic Enoch 71:1). […] They are made of fire and flames (Syriac Apocalypse of Baruch 21:6). […] They are spirits that escape the bodily condition; they do not eat (Talmud Yoma 75b), do not reproduce except in rare cases, know secrets inaccessible to humans […] and are immortal.” The angel undergoes a metamorphosis, ascending to heaven with the flame, with which its nature must have some affinity.
“Cosmic harmony,” Roux contends, “the parallelism between Heaven and Earth, suffices to maintain the universe’s balance. When the divine will wishes to manifest itself to humans, it does so through an inner prompting: the sky exerted pressure, the texts say. At other times, it uses the prince who represents it on Earth as an intermediary. […] Yet, we know of frequent interventions by God’s envoys. As I’ve said,” writes Jean Paul Roux, “it’s difficult to determine whether these are autonomous figures or divine epiphanies. Certainly, the envoy has a special form, conceived as a distinct being whose memory is preserved and who can never be identified with the great God.”
Intermediary beings are divided into three groups: envoys of God or the Sky or visible manifestations of celestial power; invisible intermediary beings, free from any constraint (allies or adversaries of the shaman); and beings residing in an object (idols, household gods, flags animating a place).
In the Altaic mindset, everything is soul, everything is energy. “Where we see well-defined beings, both physically and psychologically, the Altaic person, like many ‘primitives’ (despite being at a higher stage of civilization), conceives of forces or a cosmic energy with mutable and infinite manifestations.”
“Consequently,” writes Jean Varenne on this subject, “an individual’s destiny is likened to a sort of cursus honorum, a progressive ascent through the many rungs of the cosmic ladder, with the possibility, of course, of moving backward or leaping forward.”
In the Indian conception, a self-existent being, Brahman (neuter), manifests in the cosmic principle of a cycle as a demiurge: Brahma (masculine), who calls Manu into being, initiating creation.
“Illusory forms of divine maya or creatures of Prajapati, genies and demons,” writes Jean Varenne, “still have their place in the universe, with a specific function to fulfill. This is the role of auxiliaries, and it is in this sense that they are often classified as ‘secondary’ beings.”
The Rig Veda sings of the Marut, genies of the woods, waters, rivers, and so forth. The Gandharva are celestial musicians, the Apsaras are nymphs, the Aksha are trees, the Naga are dragons or serpents with human faces. The Asura are vital forces. “No aspect of nature,” comments Jean Varenne, “is exempt from invisible, mysterious influences belonging to the other world (or rather, to other worlds).”
Of notable interest is the Harranian culture. “The Harranians,” writes Gerard Russell, “agreed with those Greek philosophers who believed in the existence of a supreme God, the ultimate cause of the universe’s birth but transcending all possibility of comprehension by the human intellect. Since God was literally indescribable, ordinary mortals could at best aspire to see and revere His projections in the material universe,” and there could be “a descent of God’s essence” into a human being, “that is, the descent of a portion of His essence, which occurs in accordance with the degree of the person’s preparation, so that when the essence descends in its fullest form, it can transform the person into a kind of projection of God on Earth.”
“The Harranians,” Russell states, “believed in reincarnation, implying that these divine projections could die and be reborn, returning to Earth in later eras.”
