di Silvano Danesi
Leone XIV, parlando al Giubileo delle Chiese orientali, ha riproposto il mistero: “Quanto bisogno abbiamo di recuperare il senso del mistero”.
Ovviamente il mistero è declinato in chiave cristiana, ma il riproporre all’attenzione il bisogno di recuperare il senso del mistero ha un valore universale soteriologico, in quanto riafferma l’umanità, che non è riducibile alla corporeità e nemmeno alla razionalità.
L’umanità da sempre si interroga sull’ulteriore, sul senso della vita e quando la domanda coinvolge il senso attiva il “percepire” non solo stimoli esterni, ma anche stimoli interni.
Senso è participio passato di sentire, con il corpo e con l’intelletto.
Oggi la psicologia e la neurofisiologia ci parla di qualia: esperienze soggettive e personali associate a una sensazione o percezione. Sono le qualità fenomeniche di ciò che proviamo, uniche e non riducibili a descrizioni oggettive, spesso discusse in filosofia della mente per il loro carattere ineffabile e individuale.
Nel rituale massonico del grado di compagno si parla di sensi e di facoltà del corpo e dell’anima.
Senso è anche direzione e pertanto, recuperare il senso del mistero è anche un andare verso il mistero.
Cosa è il mistero?
Mysterium è derivato da mystes (iniziato) e deriva dal verbo myein, chiudere, serrare.
Mystero è pertanto ciò che rimane chiuso, serrato, non accessibile alla ragione, punto di orientamento dell’intuizione, appercepibile, laddove l’appercezione è consapevolezza riflessiva di sé o di un’esperienza.
L’appercezione è come l’epopteia dei Misteri Eleusini. La parola epopteia (dal greco ἐποπτεία, epopteía) significa letteralmente “visione” o “contemplazione” ed è un termine usato in contesti filosofici, religiosi e misterici dell’antichità, in particolare nei Misteri Eleusini; indica uno stato di rivelazione o comprensione profonda, spesso associato a un’esperienza mistica o spirituale in cui si accede a una verità superiore o si “vede” il divino. In senso più ampio, può riferirsi a una percezione intuitiva o a un’illuminazione che trascende la conoscenza ordinaria.
Dante nel XXXIII Canto del Paradiso così si esprime: “O luce eterna, che hai luogo solo in te stessa, che sola ti comprendi e, compresa da te stessa e nell’atto di comprenderti, ami e ardi di carità!”.
Nella lunga esperienza dell’umanità, che possiamo chiamare Tradizione, ciò che è misterioso, che rimane nascosto, è sempre presente.
La dea Iside (in egizio Aset, dal significato di trono), come riferisce Plutarco, dice di sé stessa: “Io sono colei che, è che è sempre stata e sempre sarà, e nessun mortale ha mai alzato il mio velo.”
Nelle Metamorfosi di Apuleio si legge che Iside appare in sogno a Lucio e così si pronuncia: «Eccomi o Lucio, mossa alle tue preghiere, io la madre della natura, la signora di tutti gli elementi, l’origine e il principio di tutte le età, la più grande di tutte le divinità, la regina dei morti, la prima dei celesti, colei che in sé riassume l’immagine di tutti gli dei e di tutte le dee, che col suo cenno governa le altezze luminose del cielo, i salubri venti del mare, i desolati silenzi dell’oltretomba, la cui potenza, unica tutto il mondo onora sotto varie forme, con diversi riti e differenti nomi. Per questo i Frigi, i primi abitatori della terra, mi chiamano Pessinunzia, Madre degli dei, gli Autoctoni Attici Minerva Cecropia, i Ciprioti circondati dal mare Venere Pafia, i Cretesi arcieri famosi Diana Dittinna, i Siculi trilingui Proserpina Stigia, gli antichi abitatori di Eleusi Gerere Attica, altri Giunone, altri Bellona, altri Ecate, altri ancora Ramnusia, ma i due popoli degli Etiopi, che il dio sole illumina coi suoi raggi quando sorge e quando tramonta e gli Egizi, così grandi per la loro antica sapienza, venerandomi con quelle cerimonie che a me si addicono, mi chiamano con il mio vero nome, Iside regina».
Se nessun mortale può disvelare Iside e se la dea appare in sogno, siamo perfettamente nell’ambito del mistero, di ciò che è racchiuso e può essere appercepito se di mostra nell’immaginale, che è il luogo deddl’anima.
Il dio egizio Amon è dal suo nome Mn indicato come nascosto.
Se dall’Egitto passiamo al mondo indoeuropeo, incontriamo i Rigveda (o Ṛgveda, in sanscrito ऋग्वेद) testi sacri fondamentali dell’Induismo, datati il 1500 e il 1200 a.C.
Gli inni sono poesie religiose che celebrano le forze della natura, il cosmo e le divinità, spesso attraverso metafore complesse. Includono anche riflessioni filosofiche, come il celebre Nasadiya Sukta (inno della creazione), che pone domande sull’origine dell’universo.
Eccolo( Rigveda V, 10, 129 ):
1 – All’inizio non c’era essere, né c’era non essere.
Che cosa ricopriva l’insondabile profondità delle acque
e com’era e dov’era il riparo? Non c’era l’atmosfera
né, al di là di essa la volta celeste.
2 – Non c’era morte allora, né immutabilità.
Non c’era giorno. Non c’era notte.
Quell’Uno viveva in sé e per sé, senza respiro.
Al di fuori di quell’Uno, c’era il Nulla.
3 – C’era oscurità, all’inizio, e ancora oscurità,
in una imperscrutabile continuità di acque.
Tutto ciò che esisteva era un vasto Vuoto senza forma.
Quell’Uno era nato per la potenza dell’Ardore.
4 – All’inizio sorse l’Amore, che era il primo seme della Mente.
Scrutando nei loro cuori i sapienti scoprirono, con la loro saggezza,
il legame tra l’essere e il non-essere.
5 – Chi veramente sa? Chi potrebbe dire quando ci fu questa creazione?
E quale ne fu la causa?
Gli dei vennero dopo la sua emanazione.
Chi dunque può dire donde essa ebbe origine?
6 – Colui dal quale la creazione provenne,
può averla decisa egli stesso. Oppure no.
Colui che vigila nell’alto del cielo forse ne conosce l’origine. E forse no.
Ecco che il mistero appare con tutta la sua forza davanti ai nostri occhi.
Altrettanto misterioso è il Tao.
Il Tao (o Dao, 道) è un concetto fondamentale del pensiero cinese, in particolare del taoismo, ma presente anche in altre tradizioni come il confucianesimo e il buddhismo.
La parola “Tao” significa letteralmente “via”, “cammino” o “principio”, ma il suo significato è profondo e sfaccettato, difficile da ridurre a una singola definizione.
Nel taoismo, il Tao rappresenta:
- L’ordine cosmico: la forza o il principio che governa l’universo, l’armonia naturale che sottende ogni cosa.
- La sorgente di tutto: l’origine ultima di tutto ciò che esiste, al di là delle categorie e delle dualità (come yin e yang), indefinibile e trascendente.
- La via da seguire: un modello di comportamento per vivere in armonia con l’universo, basato su spontaneità (wu wei, agire senza forzare), semplicità e accettazione del flusso naturale delle cose.
Nel Tao Te Ching di Lao Tzi (Lao Tsu), il testo fondante del taoismo, il Tao è descritto come ineffabile:
Il Tao che può essere detto non è l’eterno Tao,
il nome che può essere nominato non è l’eterno nome.
Senza nome è il principio del Cielo e della Terra,
quando ha nome è la madre delle diecimila creature.
Perciò chi non ha mai desideri ne contempla l’arcano,
chi sempre desidera ne contempla il termine.
Quei due hanno la stessa estrazione anche se diverso nome ed insieme sono detti mistero,
mistero del mistero, porta di tutti gli arcani.
Potrei continuare, ma fermiamo con il testo più vicino al mistero cristiano: il Prologo del Vangelo di Giovanni, che compare anche sull’ara delle riunioni massoniche, per la sola prima parte.
Ἐν ἀρχῇ ἦν ὁ Λόγος, καὶ ὁ Λόγος ἦν πρὸς τὸν Θεόν, καὶ Θεὸς ἦν ὁ Λόγος.
Οὗτος ἦν ἐν ἀρχῇ πρὸς τὸν Θεόν.
Πάντα δι’ αὐτοῦ ἐγένετο, καὶ χωρὶς αὐτοῦ ἐγένετο οὐδὲ ἕν ὃ γέγονεν.
Ἐν αὐτῷ ζωὴ ἦν, καὶ ἡ ζωὴ ἦν τὸ φῶς τῶν ἀνθρώπων.
Καὶ τὸ φῶς ἐν τῇ σκοτίᾳ φαίνει, καὶ ἡ σκοτία αὐτὸ οὐ κατέλαβεν.
Tradotto in italiano il testo suona così:
Nel principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio.
Egli era in principio presso Dio.
Tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste.
In lui era la vita, e la vita era la luce degli uomini.
La luce splende nelle tenebre, e le tenebre non l’hanno accolta.
Anzitutto va chiarito che “in arché” non ha il significato di un inizio temporale, che separa un prima da un dopo, ma di un principio principiante.
L’arché in Parmenide è l’Essere e il fondamento di tutte le cose. In Aristotele l’arché consiste nell’essere origine e fondamento per l’Essere, il divenire e il conoscere.
Anassimandro chiama l’arché apeiron, l’illimitato, l’imperituro, l’indistruttibile, l’inesauribile e la definisce anche theion, divino.
L’apeiron di Anassimandro, scrive Eugen Fink è “il theion inteso come phýsis, la natura onnipresente, sempre assente, inesauribile, che racchiude in sé morte e vita, che genera e annienta….”. [i]
L’apeiron di Anassimandro è l’abisso che fa uscire tutte le cose.
Arché, femminile in greco, deriva dalla radice indoeuropea *ark, che ha il significato di contenere, trattenere. *Ark è scrigno, arca. Arca dell’alleanza.
Arché è, dunque, un illimitato abisso, chiuso e silenzioso, fondamento di tutte le cose (ta panta) ed è phýsis che, secondo Aristotele, è l’uno originario, che è sempre, che permane e che è imperituro. La phýsis è l’arché di tutte le cose, divina, creatrice.
In Anassimandro, come spiega Eugen Fink, la phýsis “è il fondamento non cosale di tutte le cose percepibile nel pensiero, fondamento che permane imperituro in tutto il loro trapassare. La phýsis stessa non appare; è l’ente ad apparire, ma tutto ciò che appare viene fuori dal grembo della phýsis e in esso ritorna”. [ii]
La phýsis, in Eraclito, è l’eterna madre immutabile, il fondamento materno del mondo da cui erompe la luce che assegna alle cose (ta panta) la visibilità; è il grembo che tutto partorisce, è la Dea Madre.
La phýsis è l’Essere come origine. La phýsis è l’inapparente, il velato, la profondità dell’Essere chiuso in sé. “La natura – scrive Eraclito – ama velarsi”.
L’arché è dunque phýsis, fondamento, abisso, grembo partoriente da cui erompe la luce come sophon, l’uno sapiente, la ragione del mondo di cui scrive Eraclito.
Il sophon è l’aperto, “il chiarore della comprensione in cui unità, totalità ed Essere appaiono diradati nel loro rapporto reciproco”. [iii]
Il sophon è l’aletheia dell’Essere e in Eraclito è il saphes, il chiarore della luce: fuoco semprevivente. Fuoco cosmico, che assegna alle cose la visibilità del loro aspetto; è il fulmine che nel frammento 64 Eraclito indica come la potenza che governa tutte le cose nel loro insieme (ta panta).
E l’ordine simbolico del fuoco è quello cosmologico del logos, ossia del sophon: ragione che attraversa il cosmo e custodisce la vicenda dell’apparire.
Il logos in Eraclito “è l’articolazione ontologica che attraversa l’aperto, il principio strutturale del sophon…; è la forza improntante e disponente”[iv], che impronta e dispone le cose.
Il Prologo evidenzia il reciproco rapporto tra l’origine (archè, phýsis) e il logos come luce che evidenzia tutte le cose che sono nell’origine e le impronta, le ordina, dà loro visibilità.
L’origine, arché, phýsis, è un principio creatore del quale il sophon è l’aspetto ordinante e, in quanto logos, improntante e custodente in un continuo avvicendarsi di krisis, separazione, e di krasis, mescolanza: due vocaboli la cui radice *kr è anche quella di creare, ossia di fare.
Nel Prologo leggiamo che tutte le cose sono state fatte per mezzo di lui, ossia che l’attività creatrice dell’origine è propria del logos, che è nell’origine presso sé stesso.
Qui si inserisce una riflessione sul concetto di cosa, che può essere phýsei onta o techne onta, dove nel primo caso le cose sono tali da partire dalla natura per opera del logos, che si propone come Grande Architetto dell’Universo, Archi-tecton, realizzatore dell’arché e, nel secondo caso, come derivanti dalla techne, per opera degli archi-tecton umani, che assumono il ruolo di collaboratori del logos e di custodi della phýsis.
Il Prologo continua poi affermando che nel logos era la vita e la vita era la luce degli uomini. Il vocabolo usato è zoé, ossia vita universale generale e, in quanto tale, luce degli uomini, ossia capace di trarre gli esseri umani all’esistenza, assegnando loro la visibilità del loro aspetto e della loro identità, così come il fuoco semprevivente assegna la visibilità del loro aspetto a tutte le cose (ta panta).
Rimane, infine, il rapporto tra luce e tenebre.
Scrive l’evangelista che la luce risplende tra le tenebre o nelle tenebre e questa affermazione è coerente con quanto sin qui detto riguardo al logos come fulmine, che è nelle tenebre e le squarcia, dando visibilità a tutte le cose.
Meno chiaro è il rapporto tra luce e tenebra quando l’evangelista usa il vocabolo catalaben che nella traduzione dà luogo a “ma le tenebre non l’anno ricevuta” o “accolta”.
Il vocabolo catalaben deriva da kata, dal significato di “in giù”, “che intensifica” e da lambano, dal significato di aggressivamente, prendere correttamente, afferrare esattamente, afferrrare qualcosa con forza.
Si potrebbe, pertanto, tradurre come afferrare in modo forte in giù, ossia riportare nell’abisso, nel chiuso dell’archè.
La parola greca scotia è tradotta con tenebra, il cui significato deriva dalle radici *ten, trattenere, racchiudere e *br, espandere.
La tenebra, come l’arché e la phýsis, è dunque un abisso racchiuso capace di espandersi, di diradarsi, dando spazio alla luce, che ne squarcia il velo dando visibilità alle cose. Il fulmine, il baleno, non viene riafferrato e tanto meno lo è la luce.
Qui Eraclito ci sovviene rinviandoci alla luce che splende nelle tenebre. Afferma Eraclito nel frammento 99: “Se il sole non ci fosse, per quanto è delle altre stelle sarebbe notte”.
“La luce – commenta Fink – fa luce nelle tenebre. Ciò significa che la cerchia della luce è circondata dalla notte. Le stelle e la luna mostrano la possibilità dell’essere coricate e adagiate, delle luci, nell’oscurità della notte”. [v]
Il “fuoco semprevivente” del frammento 30 di Eraclito lascia vedere ogni cosa nel suo contorno definito in modo costante.
Scotia, la tenebra, dunque, non può sopraffare il “fuoco semprevivente”, ossia il logos, che è una potenza dell’arché, improntante, governante, custodente, che è “l’uno sapiente”, il sophon: luce della ragione che rischiara il mondo, aletheia dell’Essere e Uno-Tutto (frammento 10 «da tutte le cose uno e da uno tutte le cose»).
Qui ritroviamo anche il significato della prossimità e identità del Dio e del Logos che leggiamo nel Prologo di Giovanni.
Nel frammento 32 Eraclito scrive: “L’uno, che solo è sapiente, non vuole e nondimeno vuole essere chiamato Zeus”.
L’Uno, sophon, logos è chiamato theos.
Sorge a questo punto la domanda: perché tanta attenzione ad Eraclito?
Per il fatto che è, come gli altri presocratici, un phýsiologo, ossia un filosofo (philo – sophon) il cui pensiero è rivolto alla phýsis, ossia all’arché per il tramite dell’illuminante logos.
Porre di nuovo al centro della riflessione il bisogno di recuperare il senso del mistero è un primo grande elemento, direi un elemento basilare, della sfida aperta oggi in relazione all’intelligenza artificiale, la “rerum novarum” di questo esordio del terzo millennio.
Il Magnificat, una delle preghiere cristiane più belle, con la quale Maria ringrazia Dio per aver liberato il suo popolo, inizia così: “L’anima mia magnifica il Signore/e il mio spirito esulta in Dio”.
In due righe c’è la descrizione dell’essere umano uno e trino: corpo, anima e spirito.
L’intelligenza artificiale, che Leone XIV ha identificato come sfida di questa stagione dell’umanità, può essere vincente sulla ratio, ma non sul corpo, sull’anima e sullo spirito. Tanto meno sul mistero.
https://www.youtube.com/watch?v=kOFx63hKpK4
[i] Eugen Fink, Le domande fondamentali della filosofia, Donzelli editore
[ii] Martin Heidegger, Eugen Fink, Eraclito, Laterza
[iii] Martin Heidegger, Eugen Fink, Eraclito, Laterza
[iv] Martin Heidegger, Eugen Fink, Eraclito, Laterza
[v] Martin Heidegger, Eugen Fink, Eraclito, Laterza






