IL VISIBILE E L’INVISIBILE, IL PENSIERO DI MERLEAU-PONTY TRA ORIENTE E OCCIDENTE.

Dic 10, 2023 | FILOSOFIA

di Massimiliano Bonne

“La verità non è più la conformità all’ordine del cosmo o di Dio, ma pura e semplice efficacia. Se infatti l’ordine del mondo non dimora più nel suo essere, ma dipende dal ‘fare tecnico’, vero sarà l’efficace, ossia ciò che ha le condizioni per realizzarsi, e falso l’inefficace”. U. Galimberti.

In questo scenario materialista e nichilista in cui viviamo, è fondamentale rileggere Merleau-Ponty che si è distinto come uno dei filosofi più acuti dell’era contemporanea. Prendendo ad esempio il tema della coscienza e la fisica che indaga la materia, il filosofo francese è il più innovativo. Ma ci sono altri temi fondamentali, ripercorriamoli qui di seguito.

In alcune riflessioni intorno alla conoscenza, Merleau-Ponty sostiene una concezione spaziale dell’essere naturale: il mondo ha un’esistenza completamente estensiva. Ogni elemento ha un luogo oggettivo, una “rispettiva situazione”, una localizzazione unica. Il che esclude l’idea di un essere in divenire, in cambiamento. […] La differenza fra questo classicismo e il pensiero scientifico moderno è che l’uno sostiene che occorra capire l’Essere prima di capire il suo comportamento, mentre l’altro coglie l’essere solo cogliendo il suo comportamento. Due orizzonti completamente opposti: trarre dalla conoscenza dell’Essere immutabile quella del suo comportamento come suggeriva il pensiero classico oppure osservare i comportamenti per cogliere l’essere (con la minuscola) in divenire, in mutamento. La vera problematica dell’atteggiamento classico è data dalla presunzione di poter capire dall’esterno L’Essere (con la maiuscola) immutabile. Il mondo scientifico moderno invece si limita a studiare alcuni particolari comportamenti dell’essere (in divenire) dal suo interno.

Conclude Carlo Rovelli: la conoscenza scientifica è dunque intrinsecamente globale, provvisoria ed evolutiva. La crescita del sapere scientifico è essenzialmente critica. Non c’è mai un porto sicuro in cui riposare: non esiste la presunta conoscenza scientifica certa. Di nuovo, sempre di nuovo (direbbe Merleau-Ponty) alla ricerca di nuove prospettive, di nuovi e più completi orizzonti. Senza scoraggiarsi e senza mai cadere nel relativismo assoluto ove tutte le opinioni sono ugualmente vane. Ancora Rovelli: Fra la certezze della propria verità e l’equivalenza di tutti i punti di vista, esiste una terza strada: quella della discussione e della critica. Per accettare la critica come base per il cammino verso il sapere, bisogna avere l’umiltà di accettare che quello che oggi ci sembra vero potrebbe rivelarsi falso domani. Spesso gli uomini si aggrappano alle proprie certezze perché hanno paura che esse possano risultare false. Ma una certezza che non ammette di essere messa in dubbio non è una certezza solida. Le certezze solide sono quelle che accettano di essere criticate continuamente e ne sopravvivono. La dialettica, la critica, il dubbio, la mancanza di principi e fondamenti sicuri portano a una verità aperta perché provvisoria e in movimento. Questa affermazione vale sia per la scienza che per la filosofia. Dovremmo tenerne sempre conto.

Merleau-Ponty è considerato un prospettivista. Di fatti in questo scenario non ci si presuppone di poterci dare la cosa in sé o il mondo in sé perché non può mai fare la sintesi finale essendo un esito parziale dell’Essere. Il prospettivismo ci offre invece una molteplicità di orizzonti, di punti vista che, insieme, concorrono a una descrizione sempre parziale della cosa, del mondo e degli avvenimenti senza però mai giungere alla sintesi compiuta.

In Visibile e Invisibile , egli scrive: io che contemplo l’azzurro del cielo, non sono, di fronte a questo azzurro, un soggetto acosmico, non lo possiedo nel pensiero, non dispiego innanzi ad esso un’idea dell’azzurro che me ne scioglierebbe il segreto, ma mi abbandono ad esso, mi immergo in questo mistero, esso “si pensa in me”, io sono il cielo stesso che si riunisce, si raccoglie e si mette a esistere per sé, la mia coscienza è satura di questo azzurro illimitato. Dovrei dire che si percepisce in me e non che io percepisco. La nostra percezione è polimorfa, è ambiguità percettiva.

Con ogni probabilità, a percepire non è del tutto il mio corpo: io so soltanto che esso può impedirmi di percepire, che non posso percepire senza il suo permesso.

La percezione è già portatrice di forma e di senso. E’ originaria, anteriore a qualsiasi distinzione, anche tra soggetto e oggetto. Merleau-Ponty parte dalla percezione e non dalla materia. La percezione e il linguaggio sono dimensionalità dell’essere. Essa ha una dimensione attiva in quanto apertura primordiale, innata, strutturale del mondo della vita. Noi percepiamo per scarto: una cosa rispetto alle altre. Esiste una circolarità fra percezione e riflessione

Il visibile non è pienezza del mondo ma è fatto anche di vuoti, di sfondi e di differenze. La visione dell’uomo non è mai visione totale, comporta sempre zone d’ombra, una invisibilità costitutiva del visibile stesso. L’essere si dà nella presenza e nella latenza, visibile e invisibile. L’essere è intreccio fra visibile e invisibile.

In fenemonelogia della percezione, il filosofo francese scrive: Colui che vede e colui che tocca non è esattamente me stesso perché il mondo visibile e il mondo tangibile non sono il mondo intero. Quando vedo un oggetto, sento sempre che c’è ancora dell’essere al di là di ciò che vedo attualmente, non solo dell’essere visibile, ma anche dell’essere tangibile o udibile – e non solo dell’essere sensibile, ma anche una profondità dell’oggetto che nessun prelevamento sensoriale potrà esaurire.

Non c’è coincidenza del vedente e del visibile. Ma ciascuno attinge all’altro, prende e sopravanza sull’altro, si incrocia con l’altro, è in chiasma con l’altro. Il chiasma non è solamente scambio me l’altro […] è anche scambio fra me e il mondo […] fra il percepiente e il percepito: ciò che comincia come cosa finisce come coscienza di cosa, ciò che comincia come “stato di coscienza” finisce come cosa. Gli orientali direbbero: “quando cerco la mente trovo le cose, quando cerco le cose trovo la mente”. Merleau-Ponty invece parla di percezione.

Il rapporto del filosofo con l’essere non è il rapporto frontale che ha lo spettatore con lo spettacolo ma è una sorta di complicità, una relazione obliqua e clandestina. La filosofia è un fare aperto, finito, temporale, caduco, ma proprio per questo è una costruzione di senso. Merleau-Ponty si pone l’obiettivo di pensare una filosofia senza dualismi: una terza via fra empirismo realistico e idealismo intellettualistico. La trascendenza come pensiero di scarto e non come possesso dell’oggetto. Il pensiero è il grembo dei possibili. Esiste una perpetua dialettica fra senso e non senso. E’ possibile operare un ripensamento dell’ontologia ingenua che prelude ad un nuovo tipo di accesso all’essere non più frontale ma trasversale e obliquo. La filosofia è anche l’interrogativo sparso nello spettacolo del mondo.

Un filosofo, uno scienziato è prima di tutto un corpo incarnato nel mondo: il legame primordiale che unisce uomo e natura. Il soggetto è sempre incarnato, immerso nel contesto che abita. E nel linguaggio, nella cultura che abita.

In conclusione, sussistono alcune assonanze fra la filosofia di Merleau-Ponty e la nuova fisica del ventesimo secolo. Ricordiamo a proposito alcuni dei passaggi più significativi.

Partiamo dalla basilare distinzione, da sempre propria sia della filosofia occidentale che della fisica, e cioè: esiste un soggetto (ego, persona, mente) che guarda, osserva e studia un ben distinto oggetto (mondo, natura, cose). Orbene tale atavica dualità sembra decadere in quanto superata sia dalla fisica quantistica che dalla filosofia fenomenologica di Merleau-Ponty. Ne deriva quindi l’impossibilità di una rigorosa separazione fra soggetti e oggetti. Un cambiamento veramente epocale e impensabile fino a poco tempo fa che trova concordi il nostro filosofo di riferimento e la nuova fisica. Ricordiamo al proposito due citazioni (la prima è di Merleau-Ponty e la seconda è inerente ad Heisenberg):  Non si può porre un dualismo assoluto tra il soggetto e l’oggetto: soggetto e oggetto sono l’uno nell’altro e non è mai possibile separarli […] Il soggetto non è un osservatore assoluto, distaccato dal mondo; l’oggetto non è una realtà trascendente, distaccata dal modo con cui gli uomini la percepiscono; L’aspetto più eclatante del principio di indeterminazione di Heisenberg sta nell’impossibilità di una rigorosa separazione del mondo in soggetto e oggetto.

Questa prima importantissima assonanza ne genera, a sua volta, un’altra altrettanto rilevante: intendiamo riferirci all’ego. Infatti il “soggetto” di cui abbiamo parlato nel paragrafo precedente è facilmente pensabile come un ego, come un io. Ed ecco la novità dirompente: l’ego, sia per l’ontologia di Merleau-Ponty che per la fisica quantistica, non è più nettamente separabile dal mondo e dalle cose. Scrive infatti il nostro filosofo: L’unico modo di assicurare il mio accesso alle cose stesse sarebbe quello di purificare la mia nozione della soggettività: anzi, non c’è “soggettività”, o “Ego”, la coscienza è senza “abitante”. E continua: Quando io tento di cogliere me stesso, si presenta tutto il tessuto del mondo sensibile, e gli altri che sono inclusi in esso. Per chiarire ancora meglio il suo pensiero al proposito Merleau-Ponty scrive: Affinché io sia in e-stasi nel mondo e nelle cose, è necessario che niente mi trattenga in me stesso lontano da esse: nessuna “rappresentazione”, nessun “pensiero”, nessuna “immagine” e nemmeno quella qualificazione di “soggetto”, di “spirito”, o di Ego in virtù della quale il filosofo vuole distinguermi assolutamente dalle cose. Gli fa eco ancora una volta Heisenberg: La scienza naturale non descrive e spiega semplicemente la natura; essa è una parte dell’azione reciproca fra noi e la natura; descrive la natura in rapporto ai sistemi usati da noi per interrogarla. E’ qualcosa questo, cui Descartes poteva non aver pensato, ma che rende impossibile una netta separazione fra il mondo e l’io. In conclusione, la nuova assonanza ci chiarisce che noi ne siamo del mondo e non lo vediamo da fuori ma da dentro. Siamo reciprocamente avvolti noi e il mondo e, quindi, non può esistere la netta distinzione propugnata dal Kosmotheorós e dal vecchio determinismo.

Altro importante punto di comunanza fra nuova fisica e filosofia fenomenologica di Merleau-Ponty sta nel modo di considerare il dualismo Essere-Nulla. Partiamo dalla fisica: La teoria dei campi della fisica moderna ci costringe ad abbandonare la classica distinzione fra particelle materiali e vuoto. La teoria del campo gravitazionale di Einstein e la teoria dei campi mostrano entrambe che le particelle non possono essere separate dallo spazio che le circonda […] Il campo esiste sempre e dappertutto, non può mai essere eliminato. Esso è il veicolo di tutti i fenomeni materiali. E’ il vuoto dal quale il protone crea i mesoni. E ancora: La scoperta delle qualità dinamiche del vuoto è considerata da molti fisici uno dei risultati più importanti della fisica moderna. Merleau-Ponty risulta molto in sintonia affermando in Visibile e Invisibile: Qui, ciò che si dice dell’essere e ciò che si dice del nulla fa tutt’uno, è il rovescio e il diritto del medesimo pensiero. Scrive ancora Merleau-Ponty: In quanto assolutamente opposti, l’Essere e il Nulla sono indiscernibili […] quando vediamo l’essere, il nulla è subito là. Come abbiamo potuto constatare il pensiero contenuto nella fisica quantistica concorda quasi perfettamente con quello del nostro filosofo di riferimento: l’essere e il non essere non sono opposti ma sono contigui, anzi, quasi indiscernibili. Il vuoto, in fisica, è poi pieno di potenzialità: può addirittura generare particelle subatomiche prendendo a prestito energia necessaria da eventi futuri (energia che poi restituirà con l’annientamento delle particelle prima create).

Da sottolineare che i “campi” dei quali abbiamo parlato nel paragrafo precedente sono anch’essi punti di assonanza di notevole importanza fra la filosofia di Merleau-Ponty e la meccanica quantistica. Infatti, per la fisica, Heisenberg scrive: La realtà prima è il campo e non il corpo. Anche Rovelli in La Realtà non è come ci appare, parla del campo: Il mondo non è fatto di campi e particelle ma di uno stesso tipo di oggetto, il campo quantistico. Non più particelle che si muovono nello spazio al passare del tempo, ma campi quantistici in cui eventi elementari esistono nello spaziotempo. Anche il nostro filosofo si interessa del “campo” pur senza citarlo espressamente quando scrive: Per la fisica, il tempo è una variabile che viene isolata dal pensiero me che, tuttavia, non può essere pensata come una realtà separata. Esiste una solidarietà fra tutte le nozioni della fisica come quella di causalità, di luce, di spazio e di energia. E’ questo insieme di nozioni che la fisica si propone di verificare. L’insieme, non i concetti presi ad uno ad uno. In conclusione il “campo” è la nuova categoria che coinvolge concetti fisici, matematici e filosofici. Il “campo” come “insieme” direbbe Merleau-Ponty.

Consideriamo ora la così detta Teoria Unificante o Teoria del Tutto. Abbiamo visto in precedenza che Einstein la cercò fino alla fine dei suoi giorni senza mai trovarla anche perché, forse, essa non esiste. Scrive infatti il cosmologo Barrow in La Teoria del Tutto: Non c’è alcuna formula che possa esprimere tutta la verità, tutta l’armonia, tutta la semplicità. Nessuna teoria del tutto potrà mai farci comprendere ogni cosa. Dunque non esiste il libro ultimo, quello che contiene la verità. E su questo concorda anche Merleau-Ponty che ci propone, al posto della spiegazione ultima, il “sempre di nuovo”, il continuo inizio, la continua nascita. La fontana che zampilla acqua sempre nuova.

Veniamo ora a quello strano fenomeno chiamato entaglement nella meccanica quantistica secondo il quale due particelle subatomiche che hanno in passato interagito fra di loro ne conservano “memoria” anche se si trovano a distanza enorme fra di loro. La separazione spaziale fra due particelle non è dunque sufficiente per assicurare che tutte le loro proprietà siano localizzate dove esse si trovano: esistono proprietà comuni che dipendono dalle interazioni di entrambe con l’ambiente circostante.  Come conciliare tale strano comportamento fisico con il pensiero del filosofo Merleau-Ponty? Semplice, basta ricordare la erste Natur: Questa erste Natur è l’elemento più antico, un “abisso di passato” che rimane sempre presente in noi e in tutte le cose. Questa erste Natur è “trama fondamentale di ogni vita e di ogni esistente.

Occupiamoci ora della finitezza, del limite della conoscenza umana. Anche qui troviamo una profonda assonanza fra il pensiero di Merleau-Ponty e la nuova fisica. Scrive infatti il filosofo in fenomenologia della percezione: Ma in che modo posso avere l’esperienza del mondo come di un individuo esistente in atto, se nessuna delle vedute prospettiche che assumo nei suoi confronti lo esaurisce, se gli orizzonti sono sempre aperti e se d’altra parte nessun sapere, nemmeno quello scientifico, ci dà la formula invariabile di una facies totius universi?. Gli fa eco il fisico Carlo Rovelli: La conoscenza scientifica è dunque intrinsecamente globale, provvisoria ed evolutiva. La crescita del sapere scientifico è essenzialmente critica […] Per accettare la critica come base per il cammino verso il sapere, bisogna avere l’umiltà di accettare che quello che oggi ci sembra vero potrebbe rivelarsi falso domani. Stiamo dunque parlando in entrambi i casi di una verità aperta perché provvisoria e in movimento. Nessuna delle visioni prospettiche esaurisce l’oggetto osservato (sia esso un singolo atomo o l’intero universo) e, di conseguenza, non si potrà mai conoscere in maniera assoluta. Ciò anche perché Niels Bhor amava dire che ci sono due tipi di verità: le verità semplici e le verità profonde. Le verità semplici sono verità la cui negazione non è vera. Una verità profonda è una verità la cui negazione è anch’essa vera!.

La semplice osservazione non può cogliere tutti i dati del fenomeno. Da qui, rispetto all’antico pensiero orientale, si può cogliere un’assonanza fra i due fili conduttori e cioè la filosofia fenomenologica di Merleau-Ponty e la nuova fisica, pare emergere anche un terzo filo che si intreccia spesso con i due già precedentemente esaminati: parlo dell’antico pensiero orientale. Vediamo di sviluppare meglio questa particolare prospettiva.

Anzitutto chiariamo subito che Merleau-Ponty si interessa dell’antico pensiero orientale e ne parla abbastanza diffusamente nel libro Segni  ove incontriamo un paragrafo di otto pagine intitolato L’oriente e la Filosofia. Di questo interessamento di Merleau-Ponty per l’Oriente e per il suo pensiero fa cenno anche Mauro Carbone nella sua presentazione del testo Il visibile e l’invisibile.

Partiamo da questo primo punto. Annota Carbone: Già in uno scritto pubblicato nel 1956, riferendosi alle dottrine indiane e cinesi Merleau-Ponty scriveva che “Da esse la filosofia occidentale può imparare a ritrovare il rapporto con l’essere, l’opzione iniziale da cui è nata, a misurare le possibilità che ci siamo preclusi diventando occidentali e forse a riaprirle”. Anche nel confronto con le tradizioni orientali, pensa Merleau-Ponty, per l’Occidente non si tratta dunque di dismettere la propria identità – ciò che, del resto, sarebbe impossibile – quanto piuttosto di riprendersela. L’esigenza di elaborare una nuova ontologia per “ritrovare il rapporto con l’essere” si accompagna quindi, né può essere altrimenti, a quella di “storicizzare” il pensiero dell’Occidente. Riaprire le possibilità di avere un rapporto diretto con l’essere prima che la razionalità, tagli, affetti l’essere a pezzettini. Ricordiamoci, ancora una volta, che noi ne siamo dell’essere. Vi è un avvolgimento fra l’essere e l’io perché l’io arricchisce, con il suo contributo, l’essere e, d’altro canto, senza l’essere non ci sarebbe alcun ego.

Passiamo ora a analizzare il cuore del problema: L’Oriente e la Filosofia nel libro Segni. Merleau-Ponty esordisce affermando: Questa immensa letteratura pensante, che esigerebbe un volume per se sola, fa veramente parte della “filosofia”? E’ possibile confrontarla con ciò che l’Occidente ha chiamato con questo nome? La verità non vi è compresa come l’orizzonte di una serie indefinita di ricerche, né come conquista e possesso intellettuale dell’essere, bensì come un tesoro sparso nella vita umana prima di ogni filosofia, e indiviso fra le dottrine. La verità è “un tesoro sparso nella vita umana prima di ogni filosofia”. Quindi nessuno possiede la verità. Tutti la cerchiamo, anche solo prospettivamente.

Risvegliarsi è conoscere ciò che la realtà non è. E’ cessare di identificare se stessi con un oggetto qualsiasi di conoscenza. Definizione importante di ispirazione ZEN che va anche oltre il prospettivismo filosofico. Prima di ogni filosofia, incontrando ciò che la realtà non è, oltre, fino a giungere a prima di un ego oggetto di conoscenza: il pre-riflessivo, quello che non è riflessione.

Merleau-Ponty, parlando dell’Oriente dice anche che Il pensiero non sente la necessità di spingere più lontano i tentativi antichi, né di optare fra di essi, e tanto meno di superarli veramente formando una nuova idea dell’insieme. Esso si presenta come commento e sincretismo, eco e conciliazione. Qui Merleau-Ponty ci trasmette l’idea di una profonda conoscenza del pensiero orientale ove ci si limita a commentare il passato senza mai pensare all’irruzione del nuovo, di qualche cosa di innovativo perché nulla mai appare in modo del tutto nuovo. Non si deve superare il pensiero antico, ma lo si deve conciliare, far convivere con quello nuovo.

Merleau-Ponty riafferma poi la sua grande stima per la prospettiva filosofica orientale scrivendo: Quale dottrina occidentale ha mai insegnato una concordanza così rigorosa del microcosmo con il macrocosmo […]? Si ha l’impressione che i filosofi cinesi non intendano come quelli dell’Occidente l’idea stessa di comprendere o di conoscere, che non si propongano la genesi intellettuale dell’oggetto, che non cerchino di coglierlo, ma solo di evocarlo nella sua perfezione primordiale; proprio per questo essi suggeriscono e, nel loro caso, non si può distinguere il commento e ciò che è commentato, l’avvolgente e l’avvolto, il significante e il significato; proprio per questo, inoltre, nei loro testi il concetto è allusione all’aforisma, così come l’aforisma è allusione al concetto. In queste poche righe, il nostro filosofo fa ricorso ad alcuni vocaboli per lui fondamentali quali possono essere l’avvolgente e l’avvolto, il significante e il significato. Ciò forse anche per rimarcare l’importanza che ha per lui questo tipo di pensiero così lontano come origine ma così vicino, per certi aspetti, come impostazione di fondo.

Aggiunge Merleau-Ponty: Il pensiero dell’Oriente è dunque originale: possiamo conquistarlo solo se dimentichiamo le forme terminali della nostra cultura. Piccola considerazione personale: spero proprio che qui Merleau-Ponty intenda “conquistarlo” nel senso di acquisirlo per se stessi e non dominarlo. Piuttosto “impararlo”, avvicinarsi al pensiero altrui, avere empatia con il pensiero altrui ma mai e poi mai di conquista soprattutto se stiamo discorrendo di pensiero orientale.

La “puerilità” dell’Oriente ha qualcosa da insegnarci, foss’anche l’angustia delle nostre idee di adulti. Tra l’Oriente e l’Occidente, come tra il bambino e l’adulto, il rapporto non è quello tra l’ignoranza e il sapere, la non filosofia e la filosofia: è assai più sottile, e riconosce all’Oriente tutte le anticipazioni e le “prematurazioni” possibili. Non ci deve essere subordinazione di un pensiero rispetto all’altro perché stiamo parlando di diverse prospettive, diversi punti di vista, diverse culture della storia umana. Stiamo dunque discorrendo di Filosofia Comparata come direbbe Giangiorgio Pasqualotto.

Anche nelle dottrine che appaiono ribelli al concetto troveremmo – se potessimo coglierle nel loro contesto storico e umano – una variante dei rapporti fra l’uomo e l’essere che ci illuminerebbe su noi stessi, e, per così dire, una universalità obliqua. Le filosofie dell’India e della Cina hanno cercato non tanto di dominare l’esistenza, quanto di essere l’eco o il risonatore del nostro rapporto con l’essere . La nostra filosofia occidentale ha perso il rapporto con l’essere che, ricordiamolo, è stato fin dal suo inizio, un punto cardine: consideriamo, ad esempio, l’Apeiron di Anassimandro o la sfera di Parmenide.

Per quanto attiene invece l’assonanza fra pensiero orientale e fisica quantistica viene spontaneo citare  Heisenberg, il grande fisico, che, in poche righe tratteggia la situazione:Ad esempio, il grande contributo scientifico alla fisica teoretica venuto dal Giappone dopo l’ultima guerra può essere indice dell’esistenza d’una certa relazione tra le idee filosofiche dell’Estremo Oriente e la sostanza filosofica della teoria dei quanta. Può essere più facile adattarsi al concetto di realtà della teoretica quantica quando non si è passati attraverso l’ingenuo modo materialistico di pensare che prevaleva ancora in Europa nei primi decenni del secolo. Altra importante considerazione la traiamo da Fritjof Capra: Al contrario della concezione meccanicistica occidentale, la concezione orientale è di tipo “organicistico”. Per il mistico orientale, tutte le cose e tutti gli eventi percepiti dai sensi sono interconnessi, collegati tra loro e sono soltanto differenti aspetti o manifestazioni della stessa realtà ultima. Ricordiamo al proposito che la meccanica quantistica si basa anche sul principio relazionale (oltre a quello corpuscolare e a quello probabilistico): La realtà è ridotta a interazione. La realtà è ridotta a relazione, scrive C. Rovelli.

Dopo aver evidenziato sia la conoscenza e l’ammirazione di Merleau-Ponty per l’antico pensiero orientale che l’interesse della meccanica quantistica per l’Oriente, passiamo a considerare anche le effettive assonanze più specifiche fra questo terzo filo e gli altri due già esaminati. Partiamo dalla presunta dualità soggetto-oggetto. Anche l’Oriente se ne occupa diffusamente. Scrive infatti il Dalai Lama: Una volta tolta di mezzo qualsiasi possibilità di fondare l’epistemologia in un mondo esterno (o in un mondo interno) veramente esistente, riguardo all’argomento rimane una sola scelta: sviluppare un sistema epistemologico in cui soggetto e oggetto siano interdipendenti. E’ questo l’approccio di base del sistema Madhyamica: in qualche senso la realtà del soggetto è confermata dalla cognizione, e nel contempo la cognizione è confermata dalla realtà dell’oggetto. Le due cose non sono realmente separabili. Sono così intrecciate che parlare di una cognizione valida senza riferirsi alla realtà dell’oggetto è – si potrebbe dire- semplicemente privo di senso. E analogamente, parlare di realtà di un oggetto senza una cognizione che lo verifica è, di nuovo, priva di senso. Dunque l’interpretazione che il Dalai Lama da della presunta dualità soggetto-oggetto concorda perfettamente sia con la meccanica quantistica che con la fenomenologia di Merleau-Ponty.

Anche a proposito dell’ego le assonanze si sprecano fra il filo conduttore del pensiero orientale e gli altri due fili principali già ricordati dettagliatamente. Partiamo da Alan Watts che scrive: Il taoismo, il confucianesimo e lo zen sono espressioni di una mentalità che si sente completamente a suo agio in questo universo e che vede l’uomo come parte integrante delle cose che lo circondano. L’intelligenza umana non è un remoto spirito imprigionato, ma un aspetto dell’intero organismo complicato ed equilibrato del mondo naturale.  La Madukya Upanishad recita poi: Non vi è né nascita, né dissoluzione, né aspirante alla liberazione, né alcuno che sia in schiavitù. E infine: I così detti esseri viventi sono l’assoluto che segue cause circostanziali.

Per quanto attiene al dualismo essere-non essere, il pensiero orientale è ricchissimo di prospettive che si intrecciano molto bene con meccanica quantistica e fenomenologia. Noi ci limiteremo qui a citarne un paio iniziando da quanto recita l’antico testo taoista del quinto secolo avanti Cristo intitolato Tao Tê Ching Essere e non essere si danno nascita tra loro. Anche J. Kirshnamurti scrive qualcosa di simile: Il fondamento è vuoto, è il vuoto. Questa ultima affermazione ricorda molto da vicino il pensiero Merleau-Ponty ove parla di filosofia senza fondamento (ab-grund, an-archè).

L’antico pensiero orientale si occupa stranamente anche del “campo”. Si legge infatti nella Bhagavad Gita  (Il canto del Beato testo del terzo secolo prima di Cristo) :Sappi innanzi tutto che per conoscere veramente il campo, ovvero il mondo naturale, non basta solo ascoltare il processo di una miriade di cose che lo compongono. Per capire la natura stessa è necessario conoscere la consapevolezza umana. Conoscere qualcosa significa essere consci di questa […] Ma anche il sistema nervoso stesso fa parte della natura; ciò che tu usi per conoscere il mondo, la natura, è anch’esso natura. Così ciò che viene conosciuto non può davvero essere separato dal suo conoscitore. Balzano all’occhio soprattutto le vistose affinità con il pensiero di Merleau-Ponty che non si stanca mai di ripeterci che noi ne siamo del mondo e che conoscitore e conosciuto sono vicendevolmente avvolti.

Anche per quanto attiene alla così detta Teoria del Tutto l’Oriente ha una sua ricca letteratura che nega tale possibilità in linea con quanto fanno sia la nuova fisica che la filosofia di Merleau-Ponty. Mi limiterò a richiamare solo uno splendido Koan zen: Se tutto è riconducibile a Uno, a che cosa è riconducibile l’Uno?.

Che cosa ha da dirci il pensiero orientale a proposito dello strano fenomeno dell’entaglement? Basti ricordare l’antico detto taoista cinese che afferma: Il Tao generò l’Uno, l’Uno generò il Due. Pensiamo anche al Dalai Lama che, in un colloquio con alcuni importanti fisici pone la provocatoria domanda: “Forse l’intero universo è entagled nella sua totalità?

Per quanto attiene la finitezza o il limite della conoscenza umana si citano, come esempio, due frasi tipiche del pensiero orientale. La prima è di Doghen che asserisce: Quando si mette in evidenza un lato, l’altro è all’oscuro. L’altra dice invece: Una buona frase è un palo al quale un asino può restare legato per diecimila eoni. Non bisogna quindi restare legati alle vecchie certezze ma è necessario liberarsi sempre però nella consapevolezza del limite insito nella nostra natura e quindi nella nostra conoscenza.

In conclusione …la vera filosofia consiste nel reimparare a vedere il mondo, e in questo senso una storia raccontata può significare il mondo con altrettanta “profondità” che un trattato di filosofia. L’idea del chiasma, cioè: ogni rapporto all’essere è simultaneamente prendere e essere preso […] A partire da qui, elaborare un’idea della filosofia: essa non può essere presa totale e attiva, possesso intellettuale, giacché ciò che v’è da cogliere è uno spossessamento. Dunque dobbiamo reimparare a vedere il mondo liberandoci da tutti gli stereotipi accumulati. Pensiamo, ad esempio, al tempo e allo spazio. Per prima cosa essi non sono due ma sono fusi insieme nello spaziotempo che, a sua volta, è influenzato da ciò che “contiene”. Infatti la massa-energia (altra rivoluzione concettuale profondissima) modifica lo spaziotempo: lo incurva, lo accelera lo “quantizza” e via di seguito. Come siamo lontani dal Kosmotheorós (che prendeva, possedeva senza essere preso, senza considerarsi parte del gioco) ove un EGO (soggetto) ben saldo e definito osservava, studiava il MONDO (oggetto) esterno come se non ne facesse parte. Forse noi non sappiamo neppure cosa siano l’EGO e il MONDO (di cui siamo parte e quindi non posiamo certo vederlo dal di fuori).

Se è vero che la filosofia, non appena si dichiara riflessione o coincidenza, pregiudica ciò che troverà, è necessario che ancora una volta essa riprenda tutto, respinga gli strumenti che la riflessione e l’intuizione si sono date, si installi in un luogo in cui esse non si distinguono ancora, in esperienze che non siano ancora state “elaborate”, che ci offrano contemporaneamente, mescolati, il “soggetto” e l'”oggetto”, l’esistenza e l’essenza, e forniscano quindi alla filosofia i mezzi per ridefinirli. La filosofia di Merleau-Ponty, sulla scia di Schelling, è intesa come studio dell’irriflesso, dell’indiviso, del primordiale prima che entri in scena la riflessione.

E, a proposito della riflessione, scrive il fisico Rovelli: Penso che la considerazione essenziale a questo riguardo sia che non sappiamo, come e perché, pensiamo quello che pensiamo. Non conosciamo la complessità dei processi che danno origine ai nostri pensieri e alle nostre emozioni […] Non siamo noi a pensare, sono i pensieri che passano attraverso di noi.

Viviamo l’ambiguo. Siamo di fronte a un polimorfismo, a una percezione ambigua. Partiamo, orbene, dalle “ambiguità fruttuose”. Vediamo di capire cosa sono queste “ambiguità fruttuose”. Il pensiero dell’aut-aut dovrebbe essere rimpiazzato da una integrazione molto più fruttuosa, sfumata e ramificata, di superficie e di profondità, interno ed esterno, parte e tutto, radice e ramo. E tale capacità di apprezzare le “ambiguità fruttuose”, e non il cercare quello che è vero e certo, in un senso limitato, ciò che dischiude ogni genere di possibilità. Il Dalai Lama ci invita a seguire non le piccole e “infruttuose” verità locali che tendono a dividere ma piuttosto le fruttuose ambiguità che sono potenzialmente piene di novità, di nuovi orizzonti. Ricordiamo che il concetto di ambiguità è centrale in Merleau-Ponty: si devono cercare e valorizzare le diverse prospettive.

In conclusione sia il profondo pensiero del nostro filosofo di riferimento che la fisica del ventesimo secolo ci propongono verità prospettiche (e quindi locali, non assolute) su uno sfondo di assurdità.

 

Silvano Danesi

Silvano Danesi

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