di Silvano Danesi
Il Prologo del Vangelo di Giovanni, se letto con uno sguardo non religioso, acquista un insostituibile ruolo di sintesi estrema del divenire al mondo, del farsi mondo del Principio.
Nel Principio (Arché) era il Lógos,
il Lógos era presso Theon
e il Lógos era Theos.
Egli era nel Principio presso Theon:
tutto è stato fatto per mezzo di lui,
e senza di lui niente è stato fatto
di tutto ciò che esiste.
In lui era zoé
e zoè era la luce degli uomini;
la luce splende nelle tenebre,
ma le tenebre non l’hanno accolta.
Una delle chiavi di comprensione del farsi mondo del Principio è nel concetto di tenebre e nel non “accoglimento” della luce.
Le tenebre, l’abisso, ossia l’archè, non ricevono la luce, non la accolgono, ma la emanano, essendo l’Origine da cui tutto emerge.
La traduzione di catabalen con accogliere non rende il significato autentico del verbo, che deriva da kata (in giù) e lembano (afferrare qualcosa in modo forte, afferrare esattamente).
La luce non è afferrata e tratta all’interno delle tenebre in quanto sono le tenebre che la emanano.
Nel Kore Kosmou (Estratto XXIII, 32) ricorre il “Nero perfetto” quale dono che Iside ottenne da Camefi, ossia da Kamutef (o Kamatef), il “padre di sua madre”, l’autogenerato, il serpente primordiale. Tale “Nero perfetto” è la tenebra che contiene e genera la luce. Il serpente cosmico Kamatef ha deposto Bnnt m Nu, il seme del Nu.
Il “Nero perfetto” evoca le acque cosmiche, il Mu-Nu egizio, l’Abisso celeste, del quale è l’alter ego il serpente Kamutef, “un luogo che, in base alle descrizioni degli antichi Egizi, sembra posto al di fuori del tempo e dello spazio”. [1]
“Questo oceano – scrive Boris de Rachelwiltz – era descritto come un’espansione illimitata di acque prive di moto che continuano ad esistere, sotto forma di flusso infinito («Hehu») dopo la creazione della Terra, ai suoi estremi confini, che sarebbe tornato un giorno a distruggere e a dare vita a una nuova creazione”. [2]
Hehu è l’eternità e Nu è l’inerte, il non organizzato. Nel Libro di Nut (Papiro di Carlsberg) il Nu è “quella regione che è oltre il cielo, è in totale oscurità, i suoi confini sono sconosciuti nelle quattro direzioni”.
Nel capitolo 75 del Libro dei Morti, Osiride dice ad Atum: “Che cos’è questo luogo deserto in cui sono venuto? Non c’è acqua, non c’è aria, è profondo incommensaurabilmente, è nero come la notte più nera”.
Nei Testi dei Sarcofagi il Nu è definito come “l’infinito nulla, inesistente, buio”.
Nu è definito da Wallis Budge (The Encyclopedia of Ancient Egypt”) come un luogo “informe, scuro, della nerezza della notte più nera”.
Nell’antico Egitto Heka è il Neter del potere creativo, della magia e della parola. Nei Testi delle Piramidi (397) è scritto: “Heka, o essenza vitale, portata dall’Isola di Fuoco, patria della luce inestinguibile”. Robert Thomas Rundel Clark (pag. 240) sostiene che l’essenza vitale Heka era stata portata da una fonte magica remotissima, l’Isola di Fuoco, la patria della luce inestinguibile, al di là dei confini del mondo dove erano nati o resuscitati gli dèi”. [3]
L’Isola del Fuoco ricorda il concetto di ardore che si accende nelle indo vediche Acque tenebrose Na, chiamate “madri”, che “si rivelano come la vera e unica causa efficiente dell’Universo”. [4] In sanscrito le Acque cosmiche sono chiamate āpo-mātarah «madri» e definite genitrici di tutte le cose mobili e immobili del creato”. [5]
La Grande Madre è qui presente come Na e come Ka e come Isola del Fuoco.
E’ evidente la similitudine concettuale dell’egizia Heka con le lingue indoeuropee dove da Ka deriva Eka (e+ka è il sorgere della luce), che dà origine a Da, luce creata. Prima dell’inizio, ossia della nascita dell’Uno, Eka per la potenza dell’ardore Tapas, esiste un’insondabile profondità di Acque Na oscure, tenebrose, il Nulla (nessuna cosa), un Vuoto senza forma.
Se analizziamo questi concetti alla luce delle radici indoeuropee con le quali gli inni vedici sono stati formulati, Na sono le Acque scure e insondabili, che contengono una luce increata Ka, dal significato di Acque luminose, luce e anche felicità. Potremmo definirla la Vera Luce.
Il Sole è l’aspetto demiurgico, l’azione evidente e vivificante di una realtà nascosta che è al di là, oltre il d’intorno. Il Sole è Lógos, è azione intelligente della luce e, in quanto azione, è lavoro: érgon.
Il Sole è l’agente dell’Archè, del Nun, del Na, dell’Oceano primordiale, del Nero luminoso, che contiene in sé la Vera Luce, quel Nero perfetto” che Iside ottenne in dono da Camefi, ossia da Kamutef (o Kamatef), il “padre di sua madre”, l’autogenerato, il serpente primordiale.
Fare finalmente i conti con il concetto di tenebra è il modo per comprendere il Prologo e il processo di emanazione con il quale il Principio si manifesta nella molteplicità dei mondi.
“Ogni luce arde nella notte, erompe dalla notte e la dirada. In tal modo – scrive Fink – l’oscurità è il presupposto per ogni luce”. [6]
Il tema della Tenebra come luogo del nascondimento del Divino è presente nella Bibbia ed è uno dei temi fondamentali della cultura greca.
“Quando Mosè pascolava il gregge di Jetro, Jahve gli apparve sopra il monte Sinai, «come fiamma di fuoco» nel folto di un roveto che ardeva senza consumarsi”. (Esodo, 3, 1-8).
“Jahve discese ancora una volta sulla vetta del monte Sinai: simile ad una fiamma divoratrice, avvolto di fumo e nascosto da una nuvola densa e oscura. Nascosto in una nuvola impenetrabile Jahve strinse un’alleanza perpetua con il suo popolo, consegnando a Mosè le tavole di pietra”. (Esodo, 19 -9, 16,18 e seguenti).
David afferma che Dio aveva “posto nel suo padiglione l’oscurità” (et posuit tenebras latibulum suum) (Salmi, XVII,12).
Crisippo scrive: “….e nel primo libro dice che la Notte è la primissima Dea”. (Crisippo, 281-277 a.C, frammento 636).
Ermia scrive a sua volta: “Certo a Protagono nessuno guardò con i suoi occhi, se non la Notte sacra, ma tutti gli altri si stupirono scorgendo nell’etere uno splendore insperato: tale luce balenava dal corpo di Fanes immortale”. (Ermia, V secolo d.C, Commento a Fedro di Platone ). …“…nacque Adrastea, che è sorella di Ida: Ida dalle belle forme e la germana Adrtastea [significato: inevitabile, figlia di Ananke, la necessità] … perciò si dice che anche essa faccia strepito davanti all’antro della Notte: diede nelle mani di Adrastea bronzei cimbali. Sulla porta dell’antro della Notte, difatti, si dice che Adrastea faccia strepito di cimbali….Dentro invero, nel santuario della Notte, siede Fanes, nel mezzo sta la Notte che profetizza per gli dèi. Davanti alla porta invece sta Adrastea, che plasma per tutti leggi divine”. …“E oltre a ciò disse che queste sono creature della Notte, che rimangono dentro di lei…E la Notte a sua volta generò la Terra e l’ampio Cielo, li rivelò manifesti, da nascosti che erano, e quali sono per nascita”. (Ermia, V secolo d.C.Commento al Fedro di Platone).
“E del resto – scrive Aristotele -, se le cose stanno come dicono i teologi che fanno iniziare la generazione della Notte….”. (Aristotele, Metafisica). “E la teologia tramandata da Eudemo il Peripatetico – aggiunge Eudemio di Rodi -, e da lui attribuita ad Orfeo, passa sotto silenzio tutto ciò che è oggetto dell’intuizione, in quanto totalmente inesprimibile e inconoscibile…E assume il principio dalla Notte, da cui prende le mosse anche Omero, anche se non con una genealogia continua. Non bisogna difatti accettare l’affermazione di Eudemo, secondo cui Omero inizierebbe da Oceano e da Teti, poiché Omero sembra anche sapere che la Notte è la più grande divinità, al punto che lo stesso Zeus la venerava: «invero egli temeva di fare cose non gradite alla Notte, la veloce». Dobbiamo dire dunque che anche Omero comincia con la Notte. Quanto a Esiodo, mi sembra essere stato il primo a condiserare il Caos, a chiamare Caos la natura inafferrabile dell’oggetto dell’intuizione e compiutamente unificata, e ad aver posto accanto a esso in seguito la Terra, come principio dell’intera generazione degli dèi…”. (Eudemio di Rodi – 370-300 a.C.).
Giovanni Malalas, nella sua Cosmografia, afferma: “Da principio si rivelò al Tempo l’Etere creato dal Dio; e di qua e di là dell’Etere vi era Caos; e Notte tenebrosa copriva tutte le cose e nascondeva quanto era sotto l’Etere… E Orfeo disse che la Terra era invisibile a causa delle tenebre….dicendo che la luce che aveva squarciato l’Etere era quell’essere ….più alto di tutti, il cui nome lo stesso Orfeo, avendolo udito dall’oracolo, rivelò come Metis, Fanes, Erichepo”. (Giovanni Malalas, 491-578 d.C, Cronografia).
Infine, Filodemo scrive: “In alcune fonti si dice che tutte le cose derivano da Notte e da Tartaro, inoltre invece che derivano da Ade e da Etere. Chi ha scritto la «Titanomachia» dice che le altre cose discendono da Etere, mentre Acusilao dice che il primo da cui discendono è Caos. Nelle poesie poi attribuite a Museo sta scritto che dapprima ci furono Tartaro e Notte, e per terzo Aere”. (Filodemo, 110 a.C-35 a.C) , Sulla pietà).
Alcuni secoli dopo gli Umanisti, cultori dell’antica cultura greca ed ellenistica, esprimono, riguardo alle tenebre, e al loro rapporto con la luce, concetti simili.
Ficino, scrivendo di un “oscuro fulgore”, afferma che questo fu chiamato da Platone “tenebre luminose”.
Pico della Mirandola afferma: “Finora, certo, siamo rimasti nella luce, ma Dio abita nell’oscurità”.
Nicola Cusano, a sua volta scrive: “E’ scritto che Dio è nascosto agli occhi dei saggi” (De ludo globi) e nel De Visione Dei, scrive che “il Volto dei volti è velato in tutti i volti e visto in un enigma”.
Il luogo del nascondimento è caligine, nube, oscurità.
“Questa oscurità – scrive ancora Cusano – tuttavia, rivela che è qui, nel trascendere tutti i veli, che il volto è presente… E quanto più densa si avverte l’oscurità, tanto più vero e ravvicinato è l’approccio, in virtù di questa oscurità, alla luce invisibile”.
“Il trono – scrive Dryden – è oscurità nell’abisso di luce. Un fulgore di gloria che impedisce la vista”. [7]
Nella sua Ars Magna (Magnetica), Athanasius Kirker scrive di una luce magnetica che attira a sé tutte le cose e su cui ha fatto studi particolari, essendone stato attratto lui stesso “potentemente da non sa quale catena Eracleotica”.
La tenebra è il luogo non luogo ove non c’è spazio e non c’è tempo e pertanto nulla è percepibile.
La tenebra è l’archè, che Anassimandro chiama apeiron, l’illimitato, senza morte e senza distruzione. L’apeiron compie interminabilmente l’ekkinesthai, la dissipazione delle cose, spingendole all’esserci.
L’arché è theion, il Divino e pensata nell’apeiron si disvela come phýsis.
L’apeiron di Anassimandro, come asserisce Fink, è il “theion inteso come phýsis, la natura onnipresente, sempre assente, inesauribile, che racchiude in sé morte e vita, che genera e annienta…”. [8]
L’apeiron di Anassimandro è l’abisso che fa uscire tutte le cose, così come l’arché, che è abisso chiuso e silenzioso, come indica la radice ark, con il significato di contenere, trattenere.
E to theion è quel neutro che non è un’astrazione degli dèi personali, bensì ciò di cui gli dèi sono simbolo e riflesso.
Aristotele sostiene che l’uno originario è la phýsis, che è sempre, che permane, che è imperitura, che sostiene il sorgere e il trapassare, essendo così lo stoicheion, l’elemento e l’arché, il principio delle cose.
Con Aristotele abbiamo l’identità di phýsis e archè, ove la phýsis è la natura creatrice.
Anassimandro sostiene che “la phýsis è il fondamento non cosale di tutte le cose percepibili nel pensiero, fondamento che permane imperituro in tutto il loro trapassare. La phýsis stessa non appare; è l’ente ad apparire, ma tutto ciò che appare viene fuori dal grembo della phýsis e in essa ritorna”. [9]
La phýsis, descritta anche come “materna notte” e come “abisso”, “è anche – scrive Fink – ciò da cui la luce erompe, il luminoso apparire del fuoco cosmico che assegna alle cose la visibilità del loro aspetto”. [10]
La phýsis, scrive Fink, “è proprio l’in-apparente, il velato per eccellenza; la velatezza della phýsis è il contro-concetto rispetto al sophon, all’aperto; la phýsis è la profondità dell’essere chiusa in sé; essa non si mostra, ad essa non conduce nessuna via, se non il salto rischioso del pensiero che, a partire dal chiarore mondano dall’aperto, torna al fondamento di questo chiarore: dal chiarore del mondo torna nella notte del mondo, nella velatezza omniavvolgente dove l’essere non è ancora in sé diradato e smembrato nella gran varietà delle cose essenti”. [11]
“L’Uno assoluto – scrive in proposito Jung – è innumerabile, indeterminabile e inconoscibile; diventa conoscibile soltanto quando appare nel numero uno”. [12]
La Phýsis è il Grembo che tutto partorisce: la Grande Dea Madre Cosmica.
E dal Grembo escono la luce, i mondi e la nostra stirpe, come narra Aristofane.
“Da principio – scrive Aristofane – c’era Caos e Notte e Erebo [tenebra] nero e l’ampio Tartaro [realtà tenebrosa e sotterranea], ma non c’era terra né aria né cielo; e nel seno sconfinato di Erebo, Notte dalle ali nere genera anzitutto un uovo sollevato dal vento, da cui nelle stagioni ritornanti in cerchi sbocciò Eros [entità primigenia vivificatrice dell’universo] il desiderabile, con il dorso rifulgente per due ali d’oro simili a rapidi turbini di vento. E costui di notte mescolandosi con Caos alato, nell’ampio Tartaro, fece schiudere la nostra stirpe, e prima la condusse alla luce”. (Aristofane, 450-385 a.C – Uccelli).[13]
“….e nel grembo immenso dell’Erebo – scrive ancora Aristofane – la Notte nero-alata partorì dapprima un uovo senza germe, onde, col mutar delle stagioni, nacque Eros, fulgide sul dorso l’ali d’oro, impetuoso come turbine di vento”(Aristofane, Uccelli).
Ecco dunque Eros, il vivificatore, assimilato a Fanes, che è il primogenito della Notte ed è detto “nato da un uovo” negli inni orfici.
Di Fanes Giorgio Colli scrive essere (il dio dell’apparenza, in generale, ma un’apparenza ambigua: da un lato come unica realtà possibile, che gode del suo splendore e della sua visibilità in quanto forma di un’esistenza totale; dall’altro come una figura che esprime, manifesta qualcosa che apparenza non è, l’emergere in altra forma, con un sussulto di una realtà abissale”. [14]
Fanes si pone come sophon, Essere, che risiede nell’arché e il lógos è una potenza dell’Essere che articola, dispone. “Il lógos di Eraclito – scrive Fink – è la forza improntante e disponente che dispone”[15] delle cose.
“Il lógos di Eraclito – aggiunge Fink – è l’impronta ontologica che preme le cose nel loro profilo, che le unisce, le separa e le mantiene insieme in tutte le separazioni, che le compie in unità. Nel sophon sono pensate le condizioni ontologiche delle realtà, spazio, tempo e il mostrarsi, nel lógos sono pensate le condizioni dell’essere-cosa, l’articolazione della costituzione d’essere che mantiene insieme l’intera ricchezza dei momenti strutturali”. [16]
Anassagora, a questo proposito, introduce il concetto di nous, l’intelletto cosmico che interviene a trasformare il caos iniziale in cosmo. Il nous è la facoltà del pensare e il pensare e lo stesso che essere. Il nous pensa l’Essere come arché, ma è esso stesso l’Essere, in quanto sophon, mentre l’arché rimane sullo sfondo, al di là dell’Essere.
Il nous è diverso dalla dianoia, che è la modalità ragionante con cui la mente umana esplica la propria attività conoscitiva discorsiva, in quanto procede derivando conclusioni da premesse.
In Ermete Trismegisto (La dottrina armena) il l lógos è il servitore dell’intelletto, perché ciò che vuole l’Intelletto, il discorso lo interpreta. Nulla è irraggiungibile per l’intelletto e nulla è inesprimibile per il discorso. Siccome l’intelletto concepisce il discorso che [proviene ] dal silenzio e dall’intelletto [è] una salvezza.
Un cenno è necessario, a questo punto, ancora alla teologia egizia dove troviamo in altra forma gli stessi concetti.
Immerso nelle acque del Nun, l’oceano primordiale, risiede un principio creatore, Atum, scintilla della vita, il quale avvia il movimento della potenzialità verso la realizzazione, attiva il potenziale vitale del Nun e lo traduce in materia. Da uno stato di puro e semplice Essere Atum assume la modalità del divenire, emerge dall’oceano primordiale come alta collina ed è la luce che brilla nelle tenebre del non-essere.
Nella teologia ermopolitana il lógos è Thot, il dio-luna, che trasmette l’effusione dell’energia divina in modo ordinato. Thot è il signore delle parole divine e ha come sposa Maat, la giustezza.
Nella cosmogonia memfitica, infine, appare il concetto di verbum come principio della creazione. Ptah avrebbe dato origine al mondo organizzato mediante l’azione collegata del cuore (l’intelligenza) che concepiva le cose e della lingua che, formulando il pensiero espresso dal cuore, suscitava gli elementi della creazione.
Anche nella cosmogonia nordica troviamo concetti simili. Nell’Edda di Snorri (Islanda), si legge: “Gangleri domandò: «Quale fu l’inizio? E come ebbe origine ogni cosa? E prima che c’era?». Hár risponde: «Come è scritto nella Völuspá:
Vi fu un tempo remoto
in cui nulla era:
non sabbia né mare
né gelide onde.
Non c’era la terra
né la volta del cielo;
ma voragine immane
e non c’era erba».
Il Divino dei Druidi, espresso con un’immagine che evoca l’arché, risiede in Ceugant (cerchio vuoto), nel vuoto, nel vacuo, nello zero. Una concezione che richiede un’accettazione e una rivalutazione del vuoto e del nulla.
Troviamo un concetto simile nell’Inno della Creazione del Rig Veda: “In principio non c’era il Non-Essere, e non c’era l’Essere. Non c’era l’atmosfera e non c’era il cielo. Non c’era la morte, né l’immortalità. Niente distingueva la notte dal giorno. Tutto era tenebra coperta di tenebra, l’universo era un indistinto ondeggiare. E il principio vitale che era racchiuso nel vuoto generò se stesso come Uno, mediante la potenza del proprio calore. Ma chi sa veramente, chi può veramente spiegare da dove ha origine la creazione?”.
Anche il Brahaman e il Tao sono il vuoto.
Secondo la fisica moderna, che non si discosta dalla sapienza antica e, anzi, la conferma, in principio era il vuoto e “non soltanto perché – come scrive Piergiorgio Oddifredi -, secondo la relatività generale, la materia non è altro che una discontinuità del campo gravitazionale: cioè un buco in un’entità puramente matematica. Ma anche, e soprattutto, perché secondo la meccanica quantistica, il vuoto è in realtà un teatro sul cui palcoscenico continuamente appaiono e scompaiono particelle e antiparticelle, grazie al principio di indeterminazione di Heisemberg. Anche quello che noi chiamiamo universo si può vedere come una fluttuazione del vuoto cosmico, un non-nulla spontaneamente generato dal nulla, senza che questo richieda alcuna violazione della legge di conservazione dell’energia. Come infatti ha compreso nel 1973 Edwuard Tryon, basta assegnare al campo gravitazionale un’energia negativa, pari a quella positiva posseduta dalla materia, per poter interpretare l’apparizione della forza gravitazionale come il prezzo che l’universo paga per creare materia pur mantenendo la sua energia totale nulla, come in effetti essa deve essere in un universo vuoto che precede la creazione. Alla domanda di Leibniz: «Perché c’è qualcosa invece del nulla?» oggi si può dunque rispondere. E non solo, metaforicamente:«Perché Dio ha voluto così». Ma, scientificamente: «Perché il nulla è instabile e la materia è da esso generata, non creata, della stessa sostanza del niente»”.[17]
I matematici fondano anch’essi “l’intera loro disciplina sul principio che «in principio era il vuoto»: in questo caso nella forma vuota senza forma dell’insieme vuoto, che non ha nulla dentro di sé”[18].
In sintesi, se una sintesi è possibile, si potrebbe dire che nell’Arché, la tenebra, l’abisso, il silenzio, l’apeiron, risiedono:
- il Sophon, l’aperto (la potenzialità dell’apertura), che è la Luce della Ragione che rischiara il mondo (ragione intesa come potenza dell’Essere);
- Fanes- Eros, la Luce al di là della luce, che è impulso, forza, essenza primigenia vivificatrice dell’universo;
- Lógos, che è azione, energia, vibrazione, lavoro e che è l’aspetto creativo dell’Archè, che risponde alla Ragione del Sophon e all’impulso di Fanes-Eros, creando materia e vita universale (zoé).
Possiamo anche presupporre che da Fanes-Eros derivi l’impulso affinché il Lógos emetta il soffio igneo, lo spiritus e successivamente l’olcsos (impropriamente è tradotto con anima), ossia il campo di forma, il corpo e la psiché (il complesso mentale emozionale).
Se questi concetti reggono, possiamo dire che siamo figli di una Grande Madre, la tenebrosa Arché-Phýsis, il silente abisso e di un Grande Figlio trinitario, che è: Ragione (Sophon), Impulso (Fanes-Eros) e Azione (Lógos).
Sostituendo al femminile, al Grembo che tutto partorisce, all’Arché-Phýsis un padre come unità originaria, si è persa la possibilità di arrivare al fondamento.
Dalla sostituzione nasce anche la formula trinitaria: padre, figlio, relazione, con l’annesso archetipo dell’omousia di padre-figlio-ka mutef, che appare per la prima volta nella teologia regale dell’Egitto.
[1] Massimo Barbetta, Stargate – Il cielo degli Egizi, Uno ed.
[2] Boris De Rachewiltz, Miti egizi,
[3] Robert Thomas Rundel Clark, Mito e simbolo nell’antico Egitto, Saggiatore
[4] Franco Rendich, L’origine delle lingue indoeuropee, Palombi Editore
[5] Franco Rendich, L’origine delle lingue indoeuropee, Palombi Editore
[6] E. Fink, Le domande fondamentali della filosofia antica, Donzelli Editore
[7] Dryden, The Hind and the Panther, citato in Edgar Wind, Misteri pagani nel Rinascimento – Adelphi
[8] Eugen Fink, Le domande fondamentali della filosofia antica, Donzelli editore
[9] Eugen Fink, Le domande fondamentali della filosofia antica, Donzelli editore
[10] Eugen Fink, Le domande fondamentali della filosofia antica, Donzelli editore
[11] Eugen Fink, Le domande fondamentali della filosofia antica, Donzelli editore
[12] C.G.Jung, La simbolica dello spirito, Fabbri
[13] Citato in Giorgio Colli, La sapienza greca, Adelphi
[14] Giorgio Colli, La sapienza greca, Adelphi
[15] Eugen Fink, Le domande fondamentali della filosofia antica, Donzelli editore
[16] Fink, Le domande fondamentali della filosofia antica, Donzelli editore
[17] Piergiorgio Oddifredi, La Repubblica, 22 maggio 2006.
[18] Piergiorgio Oddifredi, La Repubblica, 22 maggio 2006