POLITIKÉ – UNO

Mar 28, 2024 | FILOSOFIA

di Angelo Tonelli

Della crisi della politica e della società in atto – Interiorità è politica –

“Quando in uno studio sull’Ellenismo si voglia parlare di politica bisogna anzitutto mettere in chiaro cosa si vuol dire con questa espressione. Attività politica per il Greco non è semplicemente l’occuparsi direttamente degli affari dello Stato, ma significa in senso amplissimo ogni forma di espressione, ogni estrinsecazione nella pólis della propria personalità. Politico non è solo chi partecipa all’amministrazione pubblica, ma ogni cittadino libero che in un modo o nell’altro ha una sua funzione nella vita della pólis, e sopra ogni altro lo è colui che agisce come educatore dei giovani nella città, come il poeta o il filosofo, i quali più di tutti influiscono profondamente sulla formazione della spiritualità della pólis. Politiche divengono quindi tutte le attività spirituali dell’uomo, arte religione e filosofia: non è concepibile nel mondo greco un religioso che dalla sua vita interiore sia condotto all’ascetismo, in modo da abbandonare completamente ogni convivenza con altri, come pure non esistono poeti che scrivano i loro versi per la posterità, senza curarsi di influire sulla pólis o tutt’al più sui contemporanei”.

(G. Colli, Filosofi sovrumani, Milano 2009)

Con queste parole si apre una delle opere giovanili più importanti di Giorgio Colli, che sancisce una volta per tutte come “politica” per i Greci sia riversamento nella vita consociata di una interiorità il più possibile affinata dall’arte, dalla Sapienza, dalla filosofia, dalla spiritualità.

A questa visione dobbiamo tornare, per rigenerare cittadinanza e governance nel cuore della crisi della politica e della società in atto.

“Io penso di esercitare, insieme con pochi altri Ateniesi, per non dire da solo, la vera arte politica, e di agire politicamente solo tra i viventi”

(Platone, Gorgia 521d)

Così Socrate nel Gorgia di Platone testimonia che la vera arte politica non consiste nel mestiere del politico, ma nella capacità di incidere sulle interiorità dei concittadini e dei governanti attraverso la pratica della dialettica, ovvero un rimodellamento degli schemi di pensiero e comportamento a partire dalla messa in crisi delle consuetudini mentali e la rigenerazione delle medesime.

E Giorgio Colli così commenta:

“Questo pensiero era forse già prima balenato alla mente di Platone, ma che egli non vi avesse insistito si può arguire dal fatto che da un lato non aveva mai veduto in Socrate il vero politico e dall’altro non aveva pensato se stesso seriamente come un filosofo, appunto perché voleva essere un politico. Ora questo pensiero gli si impone come una luce improvvisa, come la verità che colma l’abisso tra reale e ideale, che placa i suoi dubbi e gli ridà la fiducia; egli aveva fino ad allora aspirato ad essere anzitutto un politico, ma ogni volta che si era accostato agli omini di stato ateniesi e ne aveva osservato il modo di comportarsi era stato costretto ad allontanarsi da loro ed a ritornare alla filosofia – scegliere l’una o l’altra strada sarebbe stato sacrificare una parte vitale di se stesso – e ora finalmente veniva la soluzione che sintetizzava le due attività, o per meglio dire innalzava la politica alla filosofia. Una chiara conferma di questo stato d’animo di Platone dopo la composizione del Gorgia abbiamo dalla Lettera VII, di cui riportiamo questo brano descrivente le sue convinzioni prima di partire per l’Italia: ‘infine venni a riconoscere che tutti gli Stati attualmente esistenti sono mal governati, giacché senza un prodigioso sforzo cui dovrebbe venire in aiuto un caso fortunato, le loro leggi sono quasi insuscettibili di miglioramento. E così non vidi altra possibilità fuorché ascrivere a lode della filosofia che solo partendo da essa la vita dello stato e del singolo potesse essere continuamente posta sotto il punto di vista della giustizia. Il genere umano dunque non sarebbe mai stato liberato dal male se prima non fossero giunti al potere i legittimi e veri filosofi, o i reggitori di Stato non fossero, per divina sorte, divenuti veramente filosofi’ (Lettera VII 326 a-b) ”.

(G. Colli, Platone politico, Milano 2007, pp. 47-49)

È sufficiente sostituire il termine filosofia con Sapienza, e filosofo con Sapiente per cogliere la profondissima portata rivoluzionaria del gesto di Platone, che trovò nella Scuola Pitagorica e nell’educazione pitagorica il metodo perfetto per la formazione dei politici-filosofi.

Mentre a partire da Machiavelli, ma anche molto prima che egli ne delineasse i contenuti e i contorni, la politica è una scienza amorale della dominazione, e tale resta al giorno d’oggi, per i Greci, o meglio, per i più eccellenti tra i Greci, essa era strettamente congiunta con la coltivazione dell’interiorità, e per poter essere buoni cittadini, e buoni governanti, occorreva essere individui progrediti sulla via della conoscenza, attraverso i metodi a disposizione, in primis la Sapienza, la filosofia e i percorsi iniziatici.

Aristotele si accosta alla questione della politiké da un’angolatura diversa, ma comunque convergente sulla politica come arte della buona consociazione dei viventi attraverso la conoscenza dell’interiorità:

“La virtù su cui si deve indagare, è chiaro, è la virtù umana, giacché è il bene umano e la felicità umana che stiamo cercando. Intendiamo poi per virtù umana non quella del corpo, bensì quella dell’anima: anche la felicità la definiamo attività dell’anima. Se le cose stanno così, è chiaro che l’uomo politico deve conoscere in qualche modo ciò che riguarda l’anima, come anche chi deve curare gli occhi deve conoscere anche tutto il corpo, e tanto più, in quanto la politica è più degna di onore e più nobile della medicina: i più valenti dei medici si danno molto da fare per conoscere il corpo. Anche l’uomo politico deve cercare di conoscerla per le ragioni dette, e nella misura sufficiente per quello che stiamo cercando…”

(Aristotele, Etica Nicomachea I 13 1102a 26 ss., trad. C. Mazzarelli)

segue

Silvano Danesi

Silvano Danesi

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