di Silvano Danesi
“Per i risvegliati (εγρηγορóσιν)
c’è un cosmo unico e comune,
ma ciascuno dei dormienti
si involge in un mondo proprio”.
(Eraclito, Fr. DK 22B89).
“Chi impara a vivere con il proprio non-potere
ha appreso molto”.
(Jung, Il libro rosso, Bollati -Boringhieri)
L’Equinozio d’autunno è il punto enantiodromico (di conversione nell’opposto) di passaggio dallo spirito del tempo allo spirito del profondo.
Lo spirito del profondo è quello che parla a Jung e gli dice: “Tu sei un’immagine del mondo infinito, in te dimora ogni ultimo segreto del nascere e del morire. Se non possedessi già tutto questo, come potresti riconoscerlo?”.
Allo spirito del tempo appartiene la morale e la morale cambia con il passare del tempo e dei contesti storici.
La morale (dal latino moralis, derivato di mos moris «costume», coniato da Cicerone per calco del greco ἠϑικός – etikos, derivazione di ἦϑος: ethos, da cui etica), è relativa ai costumi, cioè al vivere pratico, in quanto comporta una scelta consapevole tra azioni ugualmente possibili, ma alle quali compete o si attribuisce valore diverso o opposto (bene e male, giusto e ingiusto).
Allo spirito del profondo, quello che governa le profondità di ogni presente, appartiene l’etica che ha anche il significato di dimora, cosicché essere etici è dimorare. Dimorare presso chi? Presso gli archetipi. Presso i criteri. Presso le leggi immutabili della perenne trasformazione.
Nel termine greco ethos si raccoglie un ampio spettro di significati: l’uno (êthos) indica il carattere, ma anche la dimora, il soggiorno, l’abitazione; l’altro (éthos) raccoglie i significati di abitudine, consuetudine, pratica di vita. In un pensiero del filosofo greco Eraclito (L’êthos è un demone per l’uomo), si riconosce nell’ethos quel tratto, propriamente umano, che è insieme fonte di ispirazione e quindi di autodeterminazione della propria vita. Questa componente etica sovrasta e ispira la regione del nomos, nella quale acquistano codificazione normativa gli usi del vivere comune.
Lo spirito del profondo, ci avverte Jung, “da tempo immemorabile e per ogni avvenire possiede un potere più grande dello spirito di questo tempo, che muta con le generazioni”. [1]
“Lo spirito di questo tempo non è divino, lo spirito del profondo non è divino; divino è l’equilibrio fra i due”. [2] “Sappiate però – avverte Jung – che esiste una follia divina che altro non è che il superamento dello spirito di questo tempo attraverso lo spirito del profondo”. [3]
E’ lo spirito del profondo che costringe Jung a calarsi nelle cose ultime e più semplici.
“Lo spirito del profondo mi ha tolto la ragione e tutte le mie conoscenze, per porle al servizio dell’inesplicabile e del paradossale. Mi ha privato del linguaggio e della scrittura per tutto ciò che non stava al servizio di quest’unica cosa, ossia dell’intima fusione di senso e di controsenso che produce il senso superiore”. [4]
Che cosa è il senso superiore?
Jung lo spiega così: “Nulla vi potrà salvare dal disordine e dalla mancanza di senso, perché essi costituiscono l’altra metà del mondo. […]. Aprite la porta dell’anima affinché nel vostro ordine e nel vostro senso possano affluire le correnti oscure del caos. Sposate il caos con ciò che è ordinato e darete vita al bambino divino, al senso superiore che è al di là di senso e controsenso”. [5] “Come il giorno presuppone la notte, e la notte il giorno, così il senso presuppone il controsenso, e il controsenso il senso. Il giorno non esiste di per sé. La realtà che esiste di per sé, è insieme giorno e notte. Dunque la realtà è un insieme di senso e di controsenso. […]. Dunque il senso è un istante e passaggio da senso a controsenso, e il controsenso è solo un istante e passaggio da senso a senso”. [6]
“Il terreno da cui trae alimento l’anima – scrive Jung – è la vita naturale. Chi non la segue rimane disseccato e campato in aria”. Poche righe sopra, Jung scrive che “il corpo vivente è un sistema di finalismi che tendono alla propria realizzazione”.
Abbiamo qui due affermazioni di estrema importanza. La prima è che la vita va vissuta pienamente in rapporto con la natura e, quindi, anche pienamente con la corporeità.
La seconda è che il corpo vivente è un sistema di finalismi, la qual cosa implica che il corpo vivente abbia dei fini. Quali?
Tra i molteplici fini dei quali è possibile discutere, quello che trovo interessante, in questo periodo equinoziale, punto di enantiodromia, ossia di conversione nell’opposto, è l’inversione, successiva alla raggiunta maturità, dalla vita alla morte.
Scrive Eraclito: “Si riscaldano le cose fredde, le calde si raffreddano; diventano secche le cose umide, le aride si inumidiscono”. (EraclitoFr. DK 2B126).
Vale per gli esseri umani, vale per le civiltà, vale per ogni realtà soggetta alla trasformazione.
Scrive Jung che “molti uomini s’inaridiscono con l’età: si volgono indietro, con una segreta paura della morte nel cuore. Si sottraggono, almeno psicologicamente, al processo vitale, simili alla mitica statua di sale si rivolgono vivacemente ai ricordi della giovinezza, ma perdono ogni vivente contatto col presente. Nella seconda metà dell’esistenza rimane vivo soltanto chi, con la vita, vuole morire. Perché ciò che accade nell’ora segreta del mezzogiorno della vita è l’inversione della parabola, è la nascita della morte”.
Se il Solstizio d’Estate è il punto enantiodromico nel quale la crescita di converte nel declino, l’Equinozio d’Autunno è il punto enantiodromico nel quale si passa dalla luce all’oscurità.
L’Equinozio d’Autunno è la nascita della morte.
Il tema che si presenta alla riflessione è la morte. Ma chi muore? Cosa muore?
“Essere vecchi – scrive Jung – è estremamente impopolare. Non ci si rende conto che il «non poter invecchiare» è cosa da deficienti, come lo è il non poter uscire dall’infanzia. Un uomo di trent’anni che è ancora infantile viene compatito; ma un settantenne giovanile viene considerato «delizioso». Eppure sono entrambi perversi, senza stile e psicologicamente deformi. Un giovane che non lotta e non vince, si lascia sfuggire la parte migliore della giovinezza; un vecchio che si rifiuta di dare ascolto al mistero del torrente che scroscia dalle cime verso le valli, è dissennato, è una mummia spirituale e quindi null’altro che un passato cristallizzato. Egli se ne sta fuori dalla propria vita e non fa che ripetersi meccanicamente fino alla più stucchevole sazietà. Che razza di civiltà può essere quella che ha bisogno di simili fantasmi?”.
“Noi – scrive ancora Jung – attribuiamo uno scopo e un senso al sorgere della vita; e perché non dovremmo fare altrettanto per il suo declino? La nascita dell’uomo è densa di significato, e perché non dovrebbe esserlo la morte?”.
Siamo di fronte alla questione di chi muore, di cosa muore.
Muore l’intero essere umano e di lui non resta nulla, se non, in qualche raro caso le sue opere, oppure muore solo una parte dell’essere umano, quella del corpo materiale e rimane un’altra parte che non muore?
Qui siamo di fronte al tema dell’ecologia dell’essere umano.
L’ecologia dell’essere umano è la cura della casa dell’essere umano, che è sì il corpo materiale, ma anche altro, ossia il corpo di luce o corpo di gloria che dir si voglia: quello con il quale siamo arrivati e con il quale ce ne andremo lasciando sul terreno la salma.
La salma (dal latino tardo sagma, *sauma, dal greco σάγμα «carico, basto», che richiama anche soma, da cui somaro, portatore di basto) in senso lato rappresenta qualcosa di greve, di pesante e quindi di soggiacente allo spazio tempo, alla gravità.
La casa dell’essere umano è la salma? O questa è solo la sua casa quando è nel campo gravitazionale?
La casa dell’essere umano come corpo di luce non appartiene al campo gravitazionale e non soggiace alle regole della corporeità materiale, ma a quelle della corporeità “luminosa”.
Per sentire come verità la presenza del corpo di luce è necessario volgersi enantiodromicamente dallo spirito del tempo allo spirito del profondo, che è quello che parla a Jung e gli dice: “Tu sei un’immagine del mondo infinito, in te dimora ogni ultimo segreto del nascere e del morire. Se non possedessi già tutto questo, come potresti riconoscerlo?”.
E che cosa è un’immagine se non un fotogramma, una “scrittura di luce” del Tutto che, provvisoriamente, si cala nella densità della materia, nel limite spazio temporale?
La nascita della morte, nel tempo enantiodromico equinoziale d’autunno, permette alla nostra consapevolezza di passare dallo spirito del tempo, della gravità materiale, che muore, allo spirito del profondo, che ci connette con il nostro essere immagine, luce individua.
Qual è il significato della morte? Ridare pieno splendore all’immagine che siamo e indurci a ricordare il segreto della vita e della morte che è in noi.
[1] Jung, Il libro rosso, Bollati Boringhieri
[2] Jung, Il libro rosso, Bollati Boringhieri
[3] Jung, Il libro rosso, Bollati Boringhieri
[4] Jung, Il libro rosso, Bollati Boringhieri
[5] Jung, Il libro rosso, Bollati Boringhieri
[6] Jung, Il libro rosso, Bollati Boringhieri