di Silvano Danesi
La drammatizzazione attiva simboli e archetipi
“Un archetipo, per essere tale – scrive Éllemire Zolla -, deve avere una parte inconscia, sommersa: la sua denominazione deve accompagnarsi a sofferenze e allucinazioni e al minimo esige un animo commosso, capace di trasporsi in simboli. Soltanto tramite il simbolo un archetipo traspare”. [i]
Simboli e archetipi sono eterni e sono paradossali, in quanto naturali. La natura, nella sua paradossale essenzialità, li consegna alla nostra sensibilità, alla nostra intuizione, alla nostra capacità interpretativa, che ne cattura, di volta in volta, un significato, mentre gli altri ci sfuggono, secondo un processo cognitivo che oggi potremmo assimilare al principio di indeterminazione di Heisemberg.
Ogni interpretazione di simboli e archetipi è datata, in quanto frutto di una focalizzazione che risente, inevitabilmente, della cultura del tempo e del luogo e ogni focalizzazione è una traduzione e, pertanto, una limitazione.
Rifrequentare simboli e archetipi e rileggerli equivale a riattivarli, a toglierli dalle fossilizzazioni interpretative precedenti e a renderli vivi e operanti.
Ecco la funzione essenziale della drammatizzazione della ritualità: rendere vivi miti, simboli, archetipi.
Essere religiosi, in questo ambito semantico, è essere vivificanti. “Il termine religione – scrive Umberto Gorel Porciatti – deriva dal latino religio ed è di etimologia incerta. Secondo la più accreditata etimologia la radice comune è quella del verbo relegere che vale anche aggomitolar di nuovo, scorrere di nuovo, risolcare; come tale è data da Cicerone (De Nat. Deorum, II, 28)….L’etimologia da religare – rilegare, legar dietro, attaccare, aggiogare – è quella di Lattanzio (Instit. VI, 28)”. [ii]
Tra le possibili etimologie preferisco quella che fa discendere il vocabolo religione dalla particella re, che significa frequenza, e dal verbo legere, che equivale a scegliere e, in senso figurato, a cercare, guardare con scrupolosa cura. Cercare è il modo essenziale per conoscere.
Per questo motivo un massone non può essere un libertino (colui che esercita il libero pensiero) irreligioso, in quanto il suo operare è costante ricerca, rilettura, osservazione scrupolosa, sulla via illimitata della Conoscenza.
Nulla a che fare, dunque, la sua religiosità con le “religioni”, ossia con i sistemi ideologici che si occupano, a vario titolo, del Divino.
Il compito essenziale dei restauratori del rito
Se è vero che i riti di una civiltà riproducono i miti ad essa sottostanti, è ovvio che per ottenere una ritualità corretta è necessario un attento riconoscimento, un lavoro di scavo che recuperi l’autenticità di un mito, per consentire ad ognuno di noi di poterlo vivere nella sua verità, ossia nel suo mostrarsi come fondamento.
E’ un compito da riformatori? No, da restauratori.
Il ritorno a Campbell consente, a questo punto, anche di poter svolgere alcune considerazioni sulle funzioni del rito che non possono essere che la conseguenza dell’apparato mitologico.
Il rito, per essere efficace, va riportato all’essenzialità della sua corrispondenza con il mito e ripulito dalle sovrastrutture liturgiche che lo affaticano e lo sviliscono e da manifestazioni di celebrazione dell’Ego: titoli altisonanti, salamelecchi iperbolici, esteriorità profane e profananti.
Il rito va riportato alla sua essenziale funzione di drammatizzazione del mito, di attivazione archetipica e simbolica, dove la vera maestria è ars maieutica e non inutile e dannosa esternazione gerarchica.
Fatte queste osservazioni di carattere generale, indispensabili al fine di collocare la riflessione sul 18° grado in un ambito corretto, si rende necessario un brevissimo accenno alla struttura della tragedia greca, della quale è in buona parte debitore l’incedere rituale del 18° Grado.
Struttura della tragedia greca
La tragedia greca è strutturata secondo uno schema rigido, di cui si possono definire le forme con precisione.
La tragedia inizia generalmente con un prologo (da prò e logos, discorso preliminare), che ha la funzione di introdurre il dramma; segue la parodo, che consiste nell’entrata in scena del coro attraverso dei corridoi laterali, le pàrodoi; l’azione scenica vera e propria si dispiega quindi attraverso tre o più episodi (epeisòdia), intervallati dagli stasimi, degli intermezzi in cui il coro commenta, illustra o analizza la situazione che si sta sviluppando sulla scena; la tragedia si conclude con l’esodo (èxodos).
Prologo
Il prologo (πρόλογος), secondo la definizione data da Aristotele nella Poetica è “tutta la parte di tragedia che precede la parodo del coro”, cioè la parte recitata compresa tra l’inizio del dramma e l’entrata del coro. Questa parte può essere costituita da un monologo o da un dialogo, ed ha la funzione di introdurre il dramma.
Parodo
La parodo (πάροδος) è il primo canto che il coro esegue nel corso della tragedia, quando entra in scena attraverso dei corridoi laterali, chiamati πάροδοι (pàrodoi).
Episodi
La tragedia si sviluppa attraverso tre o più episodi (ἐπεισόδιοι), che contengono le parti dialogate tra gli attori.
Nel dialogo interviene anche il coro, di solito con brevi battute di commento affidate al “corifeo”, ossia il capocoro.
Il dialogo tragico si sviluppa attraverso alcune forme tipiche: la rhèsis, la sticomitia (stichomythìa) e la monodìa.
La rhèsis, dal greco “discorso”, è il monologo, più o meno esteso, di un personaggio.
La stichomythìa è, come dice il nome stesso, la battuta di un verso solo. Si ha, infatti, quando il dialogo si fa più concitato e i personaggi si scambiano battute di un verso ciascuna.
La monodìa si ha quando un attore canta in metri lirici anziché recitare.
Stasimi
Gli stasimi sono degli intermezzi destinati a separare tra loro gli episodi.
Esodo
L’esodo è la parte conclusiva della tragedia, che finisce con l’uscita di scena del coro.
Struttura del rituale del 18° Grado
La struttura del rituale di iniziazione del 18° Grado sembrerebbe seguire i canoni della tragedia greca. Il rituale si apre con un prologo, comprensivo dell’apertura dei lavori. Il tema della fede è aperto da un intervento del corifeo (una voce di Fratello), seguito da quello degli attori (Saggissimo, 1° Custode) e dall’intervento del coro (voci). L’andamento si ripete, con diverse accentazioni, riguardo ai temi della speranza e della carità, per poi entrare nella fase degli espisodi (viaggio, pramantha, cena) e per concludersi con l’esodo (chiusura o, meglio, sospensione dei lavori).
Il grafico evidenzia le varie fasi dell’iniziazione dal punto di vista emozionale ed energetico.
La parte energetica, fondamentale, andrebbe opportunamente testata, analizzata, indagata, anche alla luce di quanto sappiamo delle ritualità antiche.
Il prologo evidenzia un leggero crescendo, con un salto all’inizio della fase relativa alla “fede”, determinato dall’intervento del corifeo (un Fratello), un ulteriore crescendo (1° Cust. e Sagg.) e un picco con l’intervento del corifeo (un Fratello), un ulteriore crescendo (1° Cust. e Sagg.) e un picco con l’intervento del coro.
Queste fasi sono seguite da una caduta verticale segnata sul grafico da una X.
Cosa è accaduto? E’ caduto un pesante velo.
Dopo le varie affermazioni relative alla fede, il 1° Custode dice: “Fratelli, voi avete incontrato la fiaccola della fede e avete inteso proclamare le credenze degli uomini. Se ve ne è una che la vostra coscienza accetta, seguitela: siete liberi. Se non ve ne è, attendete che una nuova fede vi inspiri”.
Il messaggio è chiaro: è la libera coscienza di ognuno il metro della fede. Ogni credenza è relativa. Tale affermazione è propedeutica a quanto avviene subito dopo.
Il crescendo riprende con le fasi della speranza e della carità, con un picco dovuto all’intervento del coro e alle parole del Saggissimo, ma ad un certo punto c’è una nuova caduta verticale.
Cosa è accaduto? E’ caduto un altro pesante velo.
Dopo la lunga esposizione di un’opinione, che tale rimane, per quanto interessante, relativa a Cristo e che potrebbe apparire come un’indicazione dottrinale, da apprendere come tale, il Saggissimo dice: “Non adottando alcuna credenza determinata ed anzi considerandole tutte come transitorie e subordinate al lento progresso della ragione umana, fedele al solo principio della libertà e del lavoro, la Massoneria superiore ha potuto conquistare, in ogni periodo storico, la verità parzialmente scoperta: ha potuto conservarne il senso esatto, ripudiare i cattivi elementi o gli abusi, abbandonarli senza pena per delle verità più complete. E’ così ch’essa ha glorificato la Fede, la Speranza e la Carità”.
Sembra qui di leggere le teorie di Popper sul principio di falsificazione.
Subito dopo un leggero crescendo sembra attutire il colpo.
Alla pratica del Rito il piacere di proseguire, attraverso i successivi episodi, fino all’esodo.
La musica e l’intonazione della voce
Solo per inciso, poiché l’argomento merita un serio approfondimento, va messo in evidenza l’aspetto musicale con il quale l’andamento emozionale ed energetico andrebbe accompagnato. Troppo spesso ci si accontenta di brani musicali evocativi o legati alla tradizione musicale di autori massonici, mentre un serio studio dovrebbe ritrovare il senso degli antichi riti, della cui musicalità troviamo poche tracce nella tradizione greca, ebraica e nel canto gregoriano.
Non può mancare un cenno all’intonazione della voce. Gli Egizi insistevano nel designare: “Giusto di voce” colui che procedeva nel cammino iniziatico quando doveva incontrare i Neter, i Guardiani della soglia, i mostri paurosi e pronunciare correttamente il loro nome.
L’iniziazione egizia, della quale non si è persa interamente memoria presume, per la sua riuscita, l’esatta pronuncia del nome, ossia la giusta intonazione vibrazionale.
Qui, il campo della ricerca è aperto e affascinante.
Dopo queste riflessioni, sono da introdurre alcune osservazioni sulla ritualità.
segue
[i] Ellemire Zolla, Archetipi, Marsilio
[ii] Umberto Gabriel Porciatti, Simbologia massonica, Atanor