LA PERDITA DELLA RITUALITÀ NELL’OCCIDENTE AL TRAMONTO

Mag 20, 2023 | ANTROPOLOGIA

di Silvano Danesi

Uno dei segni della decadenza spirituale dell’Occidente è la perdita del significato della ritualità.

“I riti di una civiltà – scrive Campbell – riproducono i miti a essa sottostanti. Si potrebbe definire, come ho fatto, il rituale come la possibilità di partecipare direttamente al mito. Il rito mette in atto una situazione mitica; partecipando al rito, si partecipa direttamente al mito”. [1] E aggiunge: “Ciò che il mito fa per noi è mostrare il trascendente oltre il campo fenomenico”. [2]

Ognuno di noi, secondo Campbell, ha “un proprio mito individuale, che lo sappia oppure no”[3] e in effetti “l’individuo deve imparare a vivere secondo il proprio mito”. [4]

“L’intera concezione degli archetipi della psiche umana – sostiene il grande antropologo – si basa sulla nozione che nel cervello umano, nel sistema nervoso simpatico, ci siano strutture che creano la predisposizione a rispondere a certi segnali. Sono strutture condivise da tutta l’umanità, con variazioni individuali, ma essenzialmente allineate”.[5] Tuttavia, ognuno di noi ha “i propri favoriti; ognuno è pronto a un’esperienza diversa rispetto a chiunque altro. I simboli, per cui siamo già pronti, evocano in noi la risposta”.[6]

“Un rituale – afferma Campbell – non è altro che la manifestazione o la rappresentazione drammatica, visiva e attiva di un mito. Partecipando a un rito, ci impegniamo in un mito e il mito opera su di noi, posto naturalmente che siamo catturati dall’immagine”.[7]

Quattro, secondo Campbell, le funzioni del mito:

  • La prima riguarda la ricerca di un ordine e di un senso, che renda cosciente un certo significato dell’esistenza. La mente va sempre in cerca di un ordine e di un significato.
  • La seconda (funzione cosmologica) riguarda la presentazione di un’immagine del cosmo e dell’universo circostante.
  • La terza riguarda la convalida e il sostegno ad un sistema sociale.
  • La quarta è psicologica.

 

Mito e rito, pertanto, sono gli strumenti, con il corredo archetipico e simbolico, per una conoscenza di sé che è, conseguentemente conoscenza del divino e del mondo.

Il rito non è liturgia

Rito, dal latino ritus, è vocabolo che deriva da una radice indoeuropea *are-, la stessa della voce greca arithmós (numero), in sanscrito ritis e *ri- scorrere. Il rito si collega semanticamente al ritmo, rhyitmós e introduce una ripetizione che induce alla non linearità e, conseguentemente, alla circolarità, al cerchio, allo zero, l’eternamente immobile che è perennemente in movimento.

Il rito attiva la circolarità in uno spazio, connotato da un orientamento e da una scansione temporale che non è la scansione temporale lineare.

Da qui la necessaria distinzione del rito dalla liturgia (greco leiturgía = servizio pubblico da léiton = popolare e érgon = lavoro), che si occupa di allestimenti e aspetti cerimoniali.

I quattro piani di lettura e la libertà interpretativa

La ritualità, per la sua natura simbolica, consente più piani di lettura, i quali conducono il libero pensatore, lungo i sentieri della Tradizione, a superare ogni assolutizzazione interpretativa.

Nel Convito Dante, che Réné Guénon (L’esoterismo di Dante, Atanor) considera affiliato all’Associazione della Fede santa, Terzo ordine di filiazione templare, avverte che tutte le scritture “si possono intendere e debbonsi sponere massimamente per quattro sensi”: letterale, filosofico-teologico, politico-sociale e iniziatico.

L’esercizio costante dell’ermeneutica è necessario per evitare l’illusione di essere giunti alla verità e, al contempo, per evitare che le interpretazioni di chi ci ha preceduto assurgano allo status di verità.

Il grado di comprensione di una realtà la determina, cosicché è l’osservatore, con la sua capacità cognitiva, a creare attorno a sé la sua realtà.

Conoscere se stessi e cambiare se stessi, in un processo evolutivo delle proprie capacità cognitive, è pertanto il punto essenziale di inizio di ogni mutamento della realtà.

L’esperienza lo insegna.

La Tradizione massonica necessita, pertanto, del costante lavoro di estrazione delle antiche radici, attraverso un percorso archetipico, simbolico e mitologico.

La drammatizzazione attiva simboli e archetipi

“Un archetipo, per essere tale – scrive Éllemire Zolla -, deve avere una parte inconscia, sommersa: la sua denominazione deve accompagnarsi a sofferenze e allucinazioni e al minimo esige un animo commosso, capace di trasporsi in simboli. Soltanto tramite il simbolo un archetipo traspare”. [8]

Simboli e archetipi sono eterni e sono paradossali, in quanto naturali. La natura, nella sua paradossale essenzialità, li consegna alla nostra sensibilità, alla nostra intuizione, alla nostra capacità interpretativa, che ne cattura, di volta in volta, un significato, mentre gli altri ci sfuggono, secondo un processo cognitivo che oggi potremmo assimilare al principio di indeterminazione di Heisemberg.

Ogni interpretazione di simboli e archetipi è datata, in quanto frutto di una focalizzazione che risente, inevitabilmente, della cultura del tempo e del luogo e ogni focalizzazione è una traduzione e, pertanto, una limitazione.

Rifrequentare simboli e archetipi e rileggerli equivale a riattivarli, a toglierli dalle fossilizzazioni interpretative precedenti e a renderli vivi e operanti.

Ecco la funzione essenziale della drammatizzazione della ritualità: rendere vivi miti, simboli, archetipi.

Essere religiosi, in questo ambito semantico, è essere vivificanti. “Il termine religione – scrive Umberto Gorel Porciatti – deriva dal latino religio ed è di etimologia incerta. Secondo la più accreditata etimologia la radice comune è quella del verbo relegere che vale anche aggomitolar di nuovo, scorrere di nuovo, risolcare; come tale è data da Cicerone (De Nat. Deorum, II, 28)….L’etimologia da religare – rilegare, legar dietro, attaccare, aggiogare – è quella di Lattanzio (Instit. VI, 28)”. [9]

Tra le possibili etimologie preferisco quella che fa discendere il vocabolo religione dalla particella re, che significa frequenza, e dal verbo legere, che equivale a scegliere e, in senso figurato, a cercare, guardare con scrupolosa cura. Cercare è il modo essenziale per conoscere.

Per questo motivo un libero pensatore non può essere irreligioso, in quanto il suo operare è costante ricerca, rilettura, osservazione scrupolosa, sulla via illimitata della Conoscenza.

Nulla a che fare, dunque, la sua religiosità con le “religioni”, ossia con i sistemi ideologici che si occupano, a vario titolo, del Divino.

Il compito essenziale dei restauratori del rito

Se è vero che i riti di una civiltà riproducono i miti ad essa sottostanti, è ovvio che per ottenere una ritualità corretta è necessario un attento riconoscimento, un lavoro di scavo che recuperi l’autenticità di un mito, per consentire ad ognuno di noi di poterlo vivere nella sua verità, ossia nel suo mostrarsi come fondamento.

Il ritorno a Campbell consente, a questo punto, anche di poter svolgere alcune considerazioni sulle funzioni del rito che non possono essere che la conseguenza dell’apparato mitologico.

Il rito, per essere efficace, va pertanto riportato all’essenzialità della sua corrispondenza con il mito e ripulito dalle sovrastrutture liturgiche che lo affaticano e lo sviliscono e da manifestazioni di celebrazione dell’Ego: titoli altisonanti, salamelecchi iperbolici, esteriorità profane e profananti.

Il rito va riportato alla sua essenziale funzione di drammatizzazione del mito, di attivazione archetipica e simbolica, dove la vera maestria è ars maieutica e non inutile e dannosa esternazione gerarchica.

La musica e l’intonazione della voce

Solo per inciso, poiché l’argomento merita un serio approfondimento, metto in evidenza l’aspetto musicale con il quale l’andamento emozionale ed energetico andrebbe accompagnato. Troppo spesso ci accontentiamo di brani musicali evocativi o legati alla tradizione musicale di autori massonici, mentre ritengo che un serio studio dovrebbe ritrovare il senso degli antichi riti, della cui musicalità troviamo poche tracce nella tradizione greca, ebraica e nel canto gregoriano.

Non può mancare un cenno all’intonazione della voce. Gli Egizi insistevano nel designare: “Giusto di voce” colui che procedeva nel cammino iniziatico quando doveva incontrare i Neter, i Guardiani della soglia, i mostri paurosi e pronunciare correttamente il loro nome.

L’iniziazione egizia, della quale non si è persa interamente memoria presume, per la sua riuscita, l’esatta pronuncia del nome, ossia la giusta intonazione vibrazionale. Il campo della ricerca è aperto e affascinante.

Il rito come imitazione dell’atto emanativo

Il rito umano del sacrificio è un’imitazione di ciò che fu fatto in principio, è innegabilmente una mimesis, ma è anche un rito di ricomposizione.

“Di conseguenza – scrive Ananada Coomaraswamy – lo scopo finale del sacrificio non è solo di continuare l’operazione creatrice iniziata «una volta» dalla decapitazione, ma anche «di capo volgerla» con la ricostituzione totale della divinità divisa, e con ciò il sacrificante stesso, identificato con la divinità e con il sacrificio. Abbiamo già visto che con il Sacrificio Prajapâti ritrova la sua integrità, ma soprattutto che non è unilaterale, poiché la divinità dev’essere guarita da coloro stessi che l’avevano divisa”. [10]

In Shatapatha Brâmana (II,2,2,8-20), citato da Ananda Coomaraswamy, gli Dèi e i Titani erano sprovvisti di Sé spirituale e di conseguenza mortali. Solo Agni era immortale. Gli Dèi sacrificarono il fuoco in se stessi: diventarono immortali e invincibili. I Titani edificarono il fuoco esternamente e rimasero mortali.

“Analogamente – scrive Ananda Coomaraswamy – ora il sacrificante edifica il Fuoco sacrificale in se stesso. Per quanto riguarda questo Fuoco così acceso in lui pensa: «Qui stesso sacrificherò, qui farò il buon lavoro». Nulla può intromettersi tra lui e questo Fuoco. «Sicuramente, finché vivrò, questo Fuoco che è stato edificato all’interno di me stesso non si spegnerà»”.[11]

[1] Joseph Campbell, Percorsi di felicità, Cortina

[2] Joseph Campbell, Percorsi di felicità, Cortina

[3] Joseph Campbell, Percorsi di felicità, Cortina

[4] Joseph Campbell, Percorsi di felicità, Cortina

[5] Joseph Campbell, Percorsi di felicità, Cortina

[6] Joseph Campbell, Percorsi di felicità, Cortina

[7] Joseph Campbell, Percorsi di felicità, Cortina

[8] Ellemire Zolla, Archetipi, Marsilio

[9] Umberto Gabriel Porciatti, Simbologia massonica, Atanor

[10]Ananada Coomaraswamy, La dottrina del sacrificio.

[11] Ananada Coomaraswamy, La dottrina del sacrificio

Silvano Danesi

Silvano Danesi

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