IL MAESTRO SEGRETO E IL PENSIERO PENSANTE IN CAMMINO

Lug 11, 2025 | MASSONERIA, RITO

di Silvano Danesi

Nel rituale di 1° (4°) grado del Rito scozzese antico e accettato si legge che “una sola forza è costante: il lavoro dell’intelligenza”.

L’intelligenza è il punto focale di questo grado che, di fatto, inizia il percorso del Rito scozzese, essendo i primi tre gradi relativi alla Massoneria in senso proprio. Massoneria sulla quale si sono, successivamente, innestati i riti.

I riti, per usare un’immagine, sono come gli innesti arborei, derivanti da una tecnica di moltiplicazione vegetativa che consiste nell’unire parti di due piante differenti (portainnesto e marza) per creare un unico individuo, il quale può anche dare ottimi risultati, ma non elimina la sua origine derivante da due elementi distinti.

L’etimologia della parola “intelligenza” deriva dal latino intelligentia, a sua volta originata dal verbo intelligĕre, che significa “comprendere” o “capire”. Questo verbo è formato da intus (“dentro”) e legĕre (“cogliere, raccogliere, leggere”), suggerendo quindi una capacità di “leggere dentro” o di “vedere in profondità”.

Il termine latino legĕre ha un significato ampio che include “comprendere”, “raccogliere idee e informazioni”. Pertanto, “intelligenza” può essere letteralmente interpretata come la capacità di penetrare a fondo le cose, di coglierne il significato profondo e di distinguere e selezionare le informazioni.

Alcune interpretazioni alternative suggeriscono la composizione di inter (“tra”) e lègere (“scegliere”), il che porterebbe al significato di “scegliere tra” o “cogliere collegamenti tra le cose”.

L’intelligenza, pertanto, ha in sé sia la razionalità, sia l’intuizione, la conoscenza diretta e immediata di una verità, che si manifesta allo spirito senza bisogno di ricorrere al ragionamento.

Il termine intuizione deriva dal latino intueor, composto da in = «dentro», + tueor = «guardare», cioè «entrar dentro con lo sguardo».

È importante soffermarci sul termine sguardo, in quanto implica un “vedere”, un “vigilare”, ossia uno stare sveglio in osservazione (l’occhio raggiante non è a caso un simbolo significativo del grado).

Se dal latino passiamo al greco, il termine più appropriato per “intelligenza” in greco antico, specialmente in ambito filosofico, è νοῦς (nous), che indica intelletto, mente e ragione.

Da Omero in poi, il νοῦς si riferisce alla facoltà di comprendere, sia un evento che le intenzioni di qualcuno, quindi l’intelletto stesso. Anassagora, ad esempio, lo definì come la divina ragione universale che ordina il mondo a partire dal caos. Altri concetti che toccano aspetti dell’intelligenza includono: Sophía (σοφία), sapienza, conoscenza; Phronesis (φρόνησις), prudenza, saggezza pratica; Metis (μῆτις): astuzia, ingegno pratico, capacità di adattamento e di risolvere problemi con intelligenza (quella di Ulisse) e, infine Logos (λόγος): ragione, discorso, parola, ma anche principio razionale e relazionale del cosmo.

Nell’antico Egitto, il concetto di “intelligenza” non aveva un termine unico e diretto, ma era associato a diverse parole e idee, spesso legate alla saggezza, alla conoscenza e alla capacità di giudizio. Uno dei termini più rilevanti era “sia” (𓊵), che si riferiva alla percezione, alla comprensione e alla capacità di discernimento. “Sia” era considerato un dono divino, spesso associato a Thoth, neter della conoscenza. Un altro concetto correlato era “rekh” (𓍯𓎡𓄿), che indicava il sapere o la conoscenza acquisita, spesso in un contesto pratico o intellettuale. Inoltre, il cuore (“ib”, 𓄣) era visto come la sede dell’intelligenza, del pensiero e della volontà, poiché gli Egizi credevano che il cuore fosse il centro della mente e delle emozioni.

In sintesi, l’intelligenza era espressa attraverso concetti come “sia” (comprensione divina) e “rekh” (conoscenza), con il cuore come fulcro del pensiero.

La parola per “intelligenza” in sanscrito è बुद्धि (pronunciata buddhi). Il concetto di buddhi in sanscrito deriva dalla radice verbale budh, che significa “risvegliare”, “conoscere” o “percepire”. È comunemente tradotto come “intelligenza”, “intelletto” o “discernimento”, ma il suo significato va oltre la mera capacità cognitiva, assumendo una dimensione spirituale e metafisica, specialmente nei contesti vedantici, yogici e della Bhagavad Gita.

Buddhi è considerata la facoltà mentale più elevata, responsabile del discernimento, della comprensione, della ragione e della capacità di prendere decisioni consapevoli. È distinta da manas (la mente inferiore, associata a pensieri, emozioni e percezioni sensoriali) perché buddhi opera a un livello più profondo, analizzando e distinguendo tra ciò che è reale e ciò che è illusorio.

Nella filosofia yoga e nel Vedanta, buddhi è la capacità di discriminare tra il vero e il falso, l’eterno e il transitorio. È lo strumento che permette di superare maya (l’illusione) e di avvicinarsi alla realizzazione del Sé (Atman) o della verità ultima.

In ebraico, il concetto di “intelligenza” è espresso principalmente attraverso termini come binah e chochmah, che hanno sfumature distinte ma complementari. Binah si riferisce all’intelligenza analitica, alla comprensione profonda e alla capacità di discernere o elaborare concetti complessi; è associata alla capacità di dedurre, collegare idee e comprendere significati sottostanti. Chochmah indica la saggezza o l’intelligenza creativa, spesso vista come una scintilla di intuizione divina o la capacità di afferrare verità fondamentali.

Dopo questo breve excursus etimologico, torniamo al concetto greco di νοῦς (nous).

Qui ci aiuta Eraclito, il quale scrive: “Ricchezza di nozioni non insegna l’intuizione…..”. (Fr. 22B40 DK).

Commenta Tonelli: “La conoscenza intellettuale e nozionistica non consente all’uomo di raggiungere il più ampio livello conoscitivo rappresentato dal νοῦς, l’intuizione (…) che è consapevolezza dell’inerenza dell’intuente all’intuito, esperienza diretta di fusione tra soggetto e oggetto, e tra soggetto, oggetto e Principio….”. [i]

Per Anassagora il nous è una forza divina, infinita e intelligente che ordina il cosmo, distinguendosi dalla materia caotica. È la causa del movimento e dell’organizzazione dell’universo. Nel pensiero platonico, il nous è la facoltà più alta dell’anima, quella che permette di contemplare le idee eterne e di accedere alla verità ultima. È associato alla conoscenza intuitiva. Per Aristotele, nel “De Anima”, il nous è la parte dell’anima che pensa e conosce. Aristotele distingue tra nous passivo, che riceve le impressioni sensibili e le elabora e nous attivo (o poietico): capacità di pensare in modo astratto e universale, ed è eterno e divino. Nel suo sistema, il nous è anche legato alla contemplazione (theoria), la più alta attività umana.

Ancora Eraclito afferma: “Coloro che parlano in accordo con l’intuizione devono fondarsi su ciò che è comune, proprio come la città sulla legge, e con più saldezza ancora. Tutte le leggi umane sono nutrite da una sola legge, quella divina: essa domina tanto quanto vuole, e basta a tutte le cose, e sopravanza”. (Fr. 22B114 DK).

Qui entra nella nostra riflessione il termine xynós (ξυνός) che indica ciò che è comune e condiviso da tutti, con particolare riferimento al lógos, la ragione universale e principio ordinatore della realtà, che è presente e accessibile a ogni essere umano.

“La sapienza noetica, intuitiva, che ricompone la scissione tra particolare e universale – commenta Angelo Tonelli – è conoscenza diretta dell’ordito unitario del cosmo, che attraversa e pervade le singole forme, e le unifica e le governa, come accade alla comunità politica in virtù della legge”. [ii]

Nel frammento 22B113 Dk, Eraclito scrive: “Conoscenza dell’immediato è unione di tutte le cose”. [iii]

Qui Eraclito usa il termine phronein” (φρονεῖν) che, scrive Angelo Tonelli, per l’efesino è la “più alta virtù conoscitiva, e indica anche l’atteggiamento sapienziale ed etico che da tale conoscenza deriva. Allude al riconoscimento diretto e consapevole dell’unità di tutte le cose, è conoscenza estatica e vigilante al tempo stesso, condizione della mente in cui si conciliano il principio apollineo del distacco con quello dionisiaco del contatto e della partecipazione mistica”. [iv]

Ancora Eraclito: “Conoscere l’immediatezza è eccellenza suprema, e sapienza è dire e agire cose vere, intendendo secondo l’origine”. (Fr. 22B112 DK).

Qui giunti Eraclito ci illumina su come il vegliare abbia a che fare con il vedere, ossia come l’intuizione si colleghi alle immagini e all’immaginale, che è il luogo proprio dell’anima.

Scrive Eraclito che “gli uomini che amano la sapienza devono essere testimoni diretti di molte cose” (Fr. 22B35 DK).

Eraclito per testimone usa il vocabolo istoras. Angelo Tonelli commenta che in istor “agisce la radice id (id), che implica “vedere”.

La testimonianza diretta è un vedere. Questo vedere va oltre la metafisica e “guarda” all’Essere.

Martin Heidegger, nel suo “Che cos’è la metafisica”, chiarisce che fisica e metafisica si occupano della stessa cosa e così scrive: “Descartes scrive a Picot, che ha tradotto in francese i Principia Philosophiae: Ainsi toute la philosophie est comme un arbre, dont les racines sont la Métaphysique, le tronc est la Physique, et les tranches qui sortent de ce tronc sont toutes les autres sciences… [Cosi tutta la filosofia è come un albero, del quale le radici sono la Metafisica, il tronco la Fisica, e i rami che sorgono dal tronco tutte le altre scienze. Ndr]. Per attenerci a tale immagine, domandiamo: a quale suolo si afferrano le radici dell’albero della filosofia? Da quale fondo le radici e con esse l’intero albero possono trarre i succhi e le linfe che li nutrono? Quale elemento, nascosto nelle profondità del suolo, compenetra le radici che reggono e nutrono tale albero? Dove permane e vive la metafisica? Che cos’è la metafisica vista dal suo fondamento? Infine: che cos’è, in fondo, metafisica? Essa pensa l’essente in quanto essente”. Ovunque si domandi cosa sia essente, è l’essente come tale a porsi all’orizzonte: tale rappresentare metafisico è possibile solo grazie alla luce dell’essere. La luce, ciò che un tale pensare viene a esperire come luce, non perviene più entro l’orizzonte di questo pensare; infatti esso pone innanzi l’essente sempre e soltanto dal punto di vista dell’essente. Sempre entro tale prospettiva il pensiero metafisico ricerca una fonte esistente e un artefice della luce. Si ritiene che questa sia sufficientemente rischiarata, poiché accorda trans-parenza (Durchsicht) ad ogni prospettiva sull’essente. Comunque si interpreti l’essente, come spirito nel senso dello spiritualismo, o come materia e forza nel senso del materialismo, come divenire e vita, o come rappresentazione, come volontà, come sostanza, come soggetto, come Energeia o anche come eterno ritorno dell’identico, ogni volta l’essente in quanto tale si manifesta grazie alla luce dell’essere. Dovunque la metafisica si ponga-innanzi l’essente, essere è già dischiuso. Essere è pervenuto a una non-latenza (Unverborgenheit)”. [v]

“Tuttavia – aggiunge Heidegger – la metafisica non risponde in alcun modo alla domanda circa la verità dell’essere, poiché essa non la pone mai. Non pone questa domanda poiché si rappresenta l’essente in quanto essente. Essa intende la totalità dell’essente e parla dell’essere. Nomina l’essere e intende l’essente in quanto tale. Il dire della metafisica soggiace stranamente, dall’inizio fino al suo compimento, a una costante confusione di essente ed essere”. [vi]

“Sembra quasi – ci dice Heidegger – che, con il suo stesso modo di pensare l’essente, la metafisica sia destinata, a sua insaputa, ad ostacolare all’uomo il rapporto originario dell’essere con l’essere-umano (Menschenwesen)”.[vii] E aggiunge: “Che sarebbe se l’assenza dell’essere abbandonasse l’uomo sempre più esclusivamente soltanto all’essente, al punto che l’uomo fosse abbandonato quasi totalmente dal rapporto dell’essere con il suo [dell’uomo] essere, e se un tale essere abbandonato restasse a lui inoltre velato?”. [viii]

Eccoci giunti nuovamente al crocevia dove possiamo o non possiamo intraprendere la via che ci porta a tentare lo sguardo noetico.

Heidegger ci dà un’indicazione: “Tutto dipende dal fatto che a suo tempo il pensare divenga più pensante. A ciò si giunge solo se al pensare, invece di imporgli di realizzare un’efficacia maggiore, venga indicata un’altra provenienza (Herkunft). Solo allora il pensare, trattenuto dall’essente in quanto tale e perciò rappresentativo, e solo in tal senso illuminante, sarà superato da un pensare obbediente all’essere in cui l’essere stesso si faccia evento”. [ix]

Qui troviamo il significato autentico del concetto di obbedienza e di dovere contenuto nel rituale.

“La necessità della nostra intelligenza indica uno sforzo personale di disciplina cui ci si sottomette per raggiungere uno scopo, sforzo che si accompagna ad obbedienza al nostro impulso, a fedeltà al dovere che deriva dalla volontà di raggiungere lo scopo”.

Heidegger ci indica la via: “Mettere il pensiero in cammino, per cui esso possa entrare a far parte del rapporto della verità dell’essere con l’essere-umano, far varcare al pensiero un sentiero perché esso possa ri-pensare l’essere nella sua verità più propria: questo è il pensiero ‘in cammino’ (unterwegs) già tentato in Essere e tempo. In tale cammino, nell’assenso alla domanda sulla verità dell’essere, si rende necessario un ri-pensare all’essere-umano”. [x]

Eraclito ci incita: “Se non speri l’insperabile, non lo scoprirai, perché è chiuso alla ricerca, e ad esso non conduce nessuna strada” (Fr. 22B18DK).

Qui Angelo Tonelli ci è da guida quando commenta: “Frammento iniziatico: Il Principio, la trama nascosta, la Verità, la vera natura delle cose, «amano nascondersi», cioè si sottraggono al pensiero che li cerca con gli strumenti della ragione e della riflessione. Soltanto una passione conoscitiva, un intuire carico di attesa può sollecitare il disvelamento di Φύσις. L’epifania della Luce-Fuoco, ἀλήθεια [aletheia]”. [xi]

Ecco la chiave per aprire l’urna nella quale sono racchiuse le virtù del Maestro Hiram (Osiride): la Luce, la Verità. Verità come ἀλήθεια [aletheia]”.

Nel rituale si legge: “Noi abbiamo giurato fedeltà al dovere, qualunque esso sia. Il do­vere comprende l’obbedienza alla Legge e, di conseguenza, la lotta contro la tirannia, poiché ogni tirannia è la negazione della Legge”.

Torniamo ad Eraclito, alla legge divina: lógos, trama nascosta che ordina.

La tirannia è la negazione della libertà e la libertà è la condizione fondamentale per percorrere la via iniziatica.

Tutto questo non ha nulla a che fare con la vera e propria idiozia che ho sentito dire, rivolto ai nuovi appartenenti al 4° grado, da un poveretto rivestito dei paramenti del 33° grado: “Avete ucciso Hiram e ora siete orfani, dovete arrangiarvi”. Premesso che la logica trema, in quanto a uccidere Hiram sono stati tre compagni e a farlo risorgere tre maestri, con la conseguenza che i tre maestri segreti non hanno ucciso nessuno, ridurre il significato del grado alla psicologica uccisione del maestro per essere adulti è davvero banalizzare in modo indecente una ritualità complessa e di alto significato simbolico.

L’essere orfani ha il significato di essere figli della Vedova, ossia di Iside, la qual cosa ci riporta alle origini egizie proclamate nel rituale del 4° grado.

Arpocrate è una divinità appartenente alla religione dell’antico Egitto, corrispondente all’antichissimo Neter Hor pa khred, trasformato in Harpachered, ossia Horo il fanciullo, figlio di Iside ed Osiride.

Il suo culto venne presto adottato anche nell’area greca e romana, dove rappresentò, nell’interpretazione ellenistica, il dio del silenzio, con il dito alla bocca e cinto di un mantello cosparso di occhi e di orecchi.

Silenzio come interiorizzazione della parola, come concentrazione del pensiero, secondo l’interpretazione ellenistica, ma anche simbolo di un silenzio ben più pesante: il silenzio di Heka, la Sacra scienza, che rimane tuttavia vigile e in ascolto.

In età moderna, soprattutto nel corso del Seicento, secolo nel quale sono stati scritti i rituali della Massoneria cosiddetta moderna, molti eruditi, come ad esempio Ralph Cudworth, filosofo neoplatonico, ripresero la figura di Arpocrate come esempio e metafora della discrezione in ambito politico e dell’approccio esoterico alla conoscenza.

Tuttavia il significato autentico di Arpocrate va cercato nella tradizione egizia antica e non nelle interpretazioni successive.

Citato nei Testi delle piramidi, il culto di Arpocrate si sviluppò solo in epoca tarda. A partire dal terzo periodo intermedio il suo culto divenne sempre più popolare e l’iconografia più diffusa lo rappresentava come un bambino stante o in braccio alla madre Iside, mentre si portava un dito alla bocca.

Altro elemento tipico di Arpocrate era la sua testa completamente rasata, ad eccezione di una treccia che gli ricadeva sul suo lato destro.

Un’immagine antica di Arpocrate è quella di Horus fanciullo seduto sul sacro loto.

Il dito in bocca non è simbolo del silenzio, ma è un determinativo che significa figlio, come è ben chiaro nel geroglifico che ne indica il nome.

Arpocrate-Horus è il figlio di Iside, ossia della vedova di Osiride e, pertanto, è un orfano.

Nella Bibbia aperta all’Epistola di Giacomo, I, 26-27, durante lo svolgimento della ritualità del 4° grado, si legge: «La religione pura e immacolata dinanzi a Dio e Padre è questa: visitare gli orfani e le vedove nelle loro afflizioni, e conservarsi puri nel mondo», c’è un significato ben preciso, al di là del velame ebraico: la vera religione è visitare, rivisitare, Iside, Osiride e Horus.

Un’ultima riflessione che riguarda l’attualità: l’intelligenza artificiale.

Dopo quanto si è detto è semplicemente obbrobrioso chiamare con il nome intelligenza un potere calcolante sicuramente di enorme portata, ma pur sempre potere calcolante. Che cosa ha a che fare l’IA con lo “sperare l’insperabile”?

L’algoritmo non spera, calcola.

 

[i] Angelo Tonelli, Eraclito, Dell’Origine, Feltrinelli

[ii] Angelo Tonelli, Eraclito, Dell’Origine, Feltrinelli

[iii] Angelo Tonelli, Eraclito, Dell’Origine, Feltrinelli

[iv] Angelo Tonelli, Eraclito, Dell’Origine, Feltrinelli

[v] Martin Heidegger – Che cos’è metafisica? Tullio Pironti editore

[vi] Martin Heidegger – Che cos’è metafisica? Tullio Pironti editore

[vii] Martin Heidegger – Che cos’è metafisica? Tullio Pironti editore

[viii] Martin Heidegger – Che cos’è metafisica? Tullio Pironti editore

[ix] Martin Heidegger – Che cos’è metafisica? Tullio Pironti editore

[x] Martin Heidegger – Che cos’è metafisica? Tullio Pironti editore

[xi] Angelo Tonelli, Eraclito, Dell’Origine, Feltrinelli

Silvano Danesi

Silvano Danesi

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