Segue da La vera Luce 4 – https://www.casadellavita.eu/massoneria/la-vera-luce-4-la-ghianda-e-la-piramide/
di Silvano Danesi
La Stella Fiammeggiante, simbolo massonico fra i più interessanti, induce a considerare la luce come il fattore di relazione tra l’essere noetico e l’essere corporeo, ossia come il fattore intermedio tra i due, appartenente ad un mondo eidenetico, ossia immaginale. Mentre lo stato corporeo è accessibile ai sensi, quelli noetico e eidenetico sono accessibili alla visione interiore e all’intuizione che, proprio per questo motivo, Eraclito rende sia con nóos (Fr.22B104 DK), sia con eidenai (Fr. 22B50 DK)[1], conoscere per immagini.
Scrive Angelo Tonelli che “Φύσις [phýsis] […] è la scaturigine perpetua di tutte le cose e l’insieme delle cose stesse generate. E’ il Principio colto nella sua dimensione dinamica, espressiva, e in essa si incontrano e confliggono gli opposti, per azione di Pólemos, la Contesa”. [2]
La “Φύσις [phýsis], che è δύναμις [dýnamis] (potenza generativa) del Principio cosmico, il Fuoco, ed è attraversata λόγος [lógos], il senso cosmico, la Legge, sempre in fieri….”[3]
Il Fuoco-Principio, è simbolo dell’energia-luce è la sostanza del cosmo è anche λόγος [lógos], e si configura come Sé cosmico, una sorta di Noûs anassagoreo. Eraclito in proposito afferma. “Sapiente è il Fuoco” (22B64 DK).
Le fiamme della Stella sono simbolo della luce-fuoco.
La Stella Fiammeggiante contiene la sintesi della trinità del cosmo e dell’essere umano.
Come tutti i simboli, la Stella Fiammeggiante si propone con una molteplicità di significati, la cui chiave sembra essere la lettera G che troviamo al centro.
Possiamo, senza inoltrarci in altri significati possibili, soffermarci su due di essi, che ci danno la chiave della manifestazione e dell’incarnazione: la G come γνῶσις – gnòsis , intelligenza suprema, intelletto, puro pensiero e la G come Greve (gravità).
In meccanica classica il campo gravitazionale è trattato come un campo di forze conservativo e secondo la relatività generale è espressione della curvatura dello spazio-tempo creata dalla presenza di massa o energia.
Dal simbolo possiamo intuire (conoscere per immagini) la compresenza di tre universi:
1) il mondo noetico, dell’intelligenza suprema, dell’intelletto, del puro pensiero, della conoscenza (γνῶσις – gnòsis), composto da informazione, apprendibile per pura percezione intellettuale;
2 ) il mondo eidenetico, immaginale, nel quale l’intelletto prende corpo e il corpo prende intelletto: uno strato sottile ed immateriale;
3 ) il mondo materiale, apprendibile con i sensi.
Se volgiamo questi tre universi nella chiave della scienza fisica possiamo definirli in questo modo:
– mondo dell’informazione;
– campo elettromagnetico, dove la forza elettromagnetica è mediata dai fotoni: particelle/onde di luce senza massa;
– mondo della materia, la cui forza è mediata dai fermioni e dove agisce la forza di gravità.
Il campo elettromagnetico, che nel simbolo massonico è rappresentato dalle fiamme di luce che attorniano la stella, assume un’importanza fondamentale, in quanto rappresenta l’anima, ossia quell’elemento del mondo immaginale che è ponte, connessione, relazione tra il mondo noetico e il mondo materiale.
Anche quando pensiamo al vuoto, come assenza di ogni elemento materiale, c’è un livello di base di oscillazione elettromagnetica nello spazio dopo che tutto ciò che si può rimuovere è stato rimosso.
Proprio come un’onda che si propaga sulla superficie di un lago, la radiazione cosmica di fondo è un’oscillazione del campo elettromagnetico di cui è “imbevuto” il cosmo.
Possiamo pensare al campo elettromagnetico di base o radiazione cosmica di fondo come l’Anima Mundi, un mondo di luce, un mondo di immagini.
Il mondo immaginale è il mondo di mezzo, un mondo intermedio che, come sostiene Elemire Zolla, è magistralmente descritto da Pavel Aleksandrovič Florenskij.
“Soltanto Florenskij – scrive Zolla – in tutta la filosofia europea sa formulare la natura dell’immagine propria del «mondo intermedio» con la precisione dei metafisici dell’Iran. Roberto Calasso mi suggerisce che Henry Corbin per tutta la vita è venuto cercando invano nei testi più reconditi della filosofia nostrana qualcosa di pallidamente analogo alla teoria immaginale degli illuminazionisti persiani recuperando appena la tenue idea della spissitudo spiritualis dei platonici di Cambridge; ma è qui, nelle pagine di Florenskij, che il fatale incontro con quei pensatori persiani avviene davvero. […] Nella Filosofia del culto sarebbe stato esplorato e definito il «mondo intermedio», in base a una metafisica rifondata. Florenskij ripristina l’intellezione metafisica ma scoprendo che la scienza moderna si va adeguando a premesse metafisiche”. [4]
Florenskij è un mistico, un teologo, ma anche un matematico ed uno scienziato che coglie il punto d’incontro fra fisica e metafisica.
Henry Corbin, scrivendo degli illuminazionisti, afferma: “Per loro esiste, «oggettivamente» e realmente, un triplice mondo: tra l’universo percepito dalla pura percezione intellettuale (l’universo delle Intelligenze Cherubiche) e l’universo percepibile dai sensi, c’è un mondo intermedio, quello delle Idee_Immagini, le Figure_archetipi, i corpi sottili, la “materia immateriale”; mondo come reale e oggettivo, coerente e sussistente, come mondo intelligibile e sensibile, universo intermedio «in cui lo spirituale prende forma e il corpo diventa spirituale», costituito da materia reale e dotato di estensione reale, sia pure in forme sottili e immateriali, rispetto rispetto alla materia sensibile e corruttibile. L’organo di questo universo è proprio l’Immaginazione attiva; è questo il luogo delle visioni teofaniche, il palcoscenico in cui eventi visionari e storie simboliche si realizzano nella loro vera realtà. Parleremo molto qui di quell’universo, senza che venga mai pronunciata la parola immaginario, poiché quel termine, con la sua ambiguità consueta, pregiudica la realtà raggiunta o da raggiungere, rivelando l’impotenza di fronte a quel mondo intermedio e mediatore al tempo stesso che noi chiameremo mundus imaginalis”.
Scrive ancora Florenskij: “Questi due mondi – il visibile e l’invisibile – sono in contatto. Tuttavia la differenza fra loro è così grande che non può non nascere il problema del confine che li mette in contatto, che li distingue ma altresì unisce. Come si può intenderlo? Così le immagini che separano il sogno dalla realtà, separano il visibile dall’invisibile, e in tal modo congiungono i due mondi. […]. Così nella creazione artistica l’anima si solleva dal mondo terreno ed entra nel mondo celeste. Lì si nutre senza immagini della contemplazione di quel mondo, tocca gli eterni noumeni delle cose e, quando se ne è impregnata, colma di conoscenza ridiscende nel mondo terreno. E giù per quella strada presso la frontiera terrena, il tesoro spirituale che ha acquistato viene investito di immagini simboliche – le stesse che, fissandosi, formano l’opera d’arte. Sicché l’arte è un sogno che si è materializzato”.[5]
“Lo stesso – precisa Florenskij – avviene nella mistica. La legge generale è la stessa: l’anima si inebria del visibile e, perdendolo di vista, si estasia dell’invisibile – questa è l’abolizione dionisiaca dei ceppi del visibile. Sollevata che si sia nell’invisibile, cala di nuovo nel visibile dove le vengono ancora incontro le immagini simboliche del mondo invisibile – i volti delle cose, le idee: questa è la visione apollinea del mondo spirituale”.[6]
Eccoci giunti alla piena comprensione di quel fiammeggiare che circonda la stella a cinque punte, simbolo del campo morfogenetico, in quanto contenente, nelle sue proporzioni, il numero aureo.
“Il mondo spirituale, invisibile, – afferma Florenskij – non sta in qualche luogo remoto ma ci circonda; e noi, come sepolti al fondo dell’oceano di luce ne siamo sommersi, eppure la scarsa assuefazione, l’immaturità dell’occhio spirituale ci impediscono di scorgere, perfino di sospettare la presenza di questo regno di luce e solo col cuore intuiamo, seppure indistintamente, il fascio delle correnti spirituali attorno a noi”.[7]
Florenskij ci guida verso uno degli aspetti più significativi dell’intuizione eidenetica
“Ogni raffigurazione – scrive infatti Florenskij -, di necessità simbolica, manifesta un contenuto spirituale non diversamente da come accade quando risaliamo “dall’immagine all’archetipo”, nel contatto ontologico con l’archetipo; allora e soltanto allora il segno fisico trabocca di linfa vitale e poiché è inscindibile dall’archetipo, non è una “raffigurazione” ma si effonde come un’onda, un fascio di onde propagatrici della realtà che le ha suscitate. E egualmente tutti gli altri modi in cui si manifesta al nostro spirito sono onde, emanazioni, così com’è tale il nostro nesso vitale con questa realtà: noi ci associamo all’energia dell’essenza e per suo tramite all’essenza stessa, mai direttamente”.[8]
Il mezzo con cui il mondo spirituale si manifesta avviene anche con apparizioni che “sono arrise a molti che erano ben lungi dallo stato ascetico: intendo parlare di quell’acuta sensazione per cui la realtà del mondo spirituale penetra nell’anima come un urto”.[9]
Questo penetrare nell’anima come un urto risponde al concetto di spissitudo spiritualis dei platonici di Cambridge e alla materia immateriale degli illuminazionisti.
A questo proposito, il 26 giungo 2000, durante la conferenza stampa relativa al documento “Il messaggio di Fatima”, il cardinale Joseph Ratzinger ebbe a dire: “Una volta determinato il luogo teologico delle rivelazioni private, dobbiamo cercare di chiarire un poco il loro carattere antropologico. L’antropologia teologica distingue in questo ambito tre forme di percezione o “visione”: la visione con i sensi, la percezione interiore e la visione spirituale. È chiaro che nelle visioni di Lourdes, Fatima, ecc. non si tratta della normale percezione esterna dei sensi. Così pure è evidente che non si tratta di una “visione” intellettuale senza immagini, come essa si trova negli alti gradi della mistica. Quindi si tratta della categoria di mezzo, la percezione interiore, che certamente ha per il veggente una forza di presenza, che per lui equivale alla manifestazione esterna sensibile. Vedere interiormente non significa che si tratta di fantasia, o solo di un’espressione dell’immaginazione soggettiva. Piuttosto significa che l’anima viene sfiorata dal tocco di qualcosa di reale anche se sovrasensibile e viene resa capace di vedere il non sensibile, il non visibile ai sensi – una visione con i “sensi interni”. Si tratta di veri “oggetti”, che toccano l’anima, sebbene essi non appartengano al nostro abituale mondo sensibile”.
La G come Greve
Come ogni simbolo, anche la Stella Fiammeggiante, contiene in sé una molteplicità di significati.
Dopo esserci soffermati sui tre stati dell’essere dove la G rappresenta lo stato noetico, proviamo ora a intendere la G come Greve, ossia indice del pesante (gravità).
In questo caso il simbolo ci comunica che il campo elettromagnetico, che dà origine ad un campo morfogenetico dove prevale come codice il numero aureo, acquista le caratteristiche corporali in quanto coinvolto nella Greve, nel pesante, nella gravità.
Nelle laminette orfiche, ritenute istruzioni per navigare nell’aldilà e che sono, probabilmente, anche istruzioni per un viaggio iniziatico, si riscontrano elementi interessanti che testimoniano della complessità ontologica dell’essere umano.
La laminetta orfica relativa a Mnemosyne ci offre elementi di possibile interpretazione psicologica e fisica di grande interesse.
Leggiamo prima di tutto la laminetta.
“Di Mnemosyne è questo sepolcro. Quando ti toccherà di morire,
andrai alle case ben costruite di Ade: v’è sulla destra una fonte,
accanto ad essa si erge un bianco cipresso;
lì discendono le anime dei morti per aver refrigerio.
A questa fonte non accostarti neppure;
ma più avanti troverai la fredda acqua che scorre
dal lago di Mnemosyne: vi stanno innanzi custodi,
ed essi ti chiederanno, in sicuro discernimento,
che mai cerchi attraverso la tenebra dell’Ade caliginoso.
Dì loro: “Son figlio della Greve e del Cielo stellato;
di sete son arso e vengo meno: ma datemi presto
da bere la fredda acqua che viene dal lago di Mnemosyne”.
Ed essi son misericordiosi per volere del sovrano degli Inferi,
e ti daranno da bere (l’acqua) del lago di Mnemosyne;
e tu quando avrai bevuto percorrerai la sacra via su cui procedono gloriosi
anche gli altri iniziati e posseduti da Dioniso”.
Tralascio l’analisi dei possibili altri significati della laminetta, per concentrare l’attenzione sul fatto che l’iniziato (o il morto) per poter bere l’acqua del lago di Mnemosyne deve dire di essere figlio di Greve e del Cielo stellato.
Perché Greve e non Gea?
Probabilmente per il fatto che qui è collocata la chiave fondamentale di tutta la laminetta.
Greve implica gravità, mette in campo la massa, mentre il Cielo stellato è il simbolo del Nero luminoso, di un mondo energetico non affetto da pesantezza, dove regna la luce implicita, che si manifesta nel campo elettromagnetico (luce esplicita).
Il simbolo della Stella Fiammeggiante è, a questo proposito, assolutamente chiaro: la luce si materializza in un campo di forma ordinato dal numero aureo ϕ (stella a cinque punte) che contiene e realizza il corpo materiale, ossia Greve, in quanto dotato di gravità.
Come ci ricorda Franco Rendich,[15] in ambito indoeuropeo, Na sono le Acque scure e insondabili, che contengono una luce increata Ka, dal significato di Acque luminose, luce e anche felicità. Potremmo definirla la Vera Luce.
Eka, l’Uno, derivante da e, rafforzativo di i (andare, da cui in latino ire) è il muoversi delle Acque Luminose Ka ed è la sintesi delle sostanze luminose che costituiscono l’universo.
Eka, l’Uno, è detto anche Hiranyagarbha, il germe luminoso.
Garbha è il seme, portato hira dalle Acque n in cui si trova ya.
L’Uno, ossia l’universo (uni-verso) esce dalle Acque scure e insondabili in cui si trova come Acque Luminose Ka in movimento e.
Il mito mette a confronto la gravità propria dei corpi e la leggerezza propria dell’energia non soggiogata alla gravità.
Nel mezzo possiamo collocare gli immaginali, intesi come archetipi, impronte dell’archè (archè-týpos), che noi percepiamo “immaginandoli”, ossia collocandoli in fotogrammi, scritture di luce.
La funzione della frequenza
Se alla simbologia della stella fiammeggiante togliamo la G, ossia la Greve, otteniamo la possibile rappresentazione dell’energia non soggiogata alla gravità, ma ordinata in un campo di forma.
La tradizione, a questo proposito, ci consegna il vocabolo “trasmutazione” che, nello specifico della tradizione alchemica – come spiega Serge Hutin – assume più significati: fisico, mentale e spirituale.
Nel suo manuale rosacruciano H. Spencer Lewis (citato da Hutin) scrive a tale proposito: “Trasmutazione significa cambiamento della natura vibratoria di un elemento materiale o dell’espressione vibratoria di una manifestazione spirituale, in modo che la manifestazione o espressione sia diversa dopo il cambiamento”.
“L’alchimista – osserva Hutin – si sforza di riprodurre su scala ridotta ciò che in origine si era svolto in grande al momento dell’organizzazione del caos primordiale indifferenziato per intervento della Luce radiante”. [16]
Detto in altri termini, il campo elettromagnetico è l’elemento ordinante e conseguentemente assume un’importanza fondamentale la frequenza.
“Scoprendo i ritmi della vita stessa, della passione del cosmo – sostiene Hutin – l’adepto acquisterà a poco a poco una conoscenza diretta di ritmi vibratori che governano lo svolgimento dei fenomeni, di tutte le apparenze possibili”. [17]
Interessante, prima di procedere, la derivazione di alchimia dall’egizio Kemi, che designava il colore nero.
Nel Kore Kosmou (Estratto XXIII, 32) ricorre il “Nero perfetto” quale dono che Iside ottenne da Camefi, ossia da Kamutef (o Kamatef), il “padre di sua madre”, l’autogenerato, il serpente primordiale. Tale “Nero perfetto” è la tenebra che contiene e genera la luce. Il serpente cosmico Kamatef ha deposto Bnnt m Nu, il seme del Nu. Il “Nero perfetto” evoca le acque cosmiche, il Mu-Nu egizio, l’Abisso celeste, del quale è l’alter ego il serpente Kamutef, “un luogo che, in base alle descrizioni degli antichi Egizi, sembra posto al di fuori del tempo e dello spazio”. [18] “Questo oceano – scrive Boris de Rachelwiltz – era descritto come un’espansione illimitata di acque prive di moto che continuano ad esistere, sotto forma di flusso infinito («Hehu») dopo la creazione della Terra, ai suoi estremi confini, che sarebbe tornato un giorno a distruggere e a dare vita a una nuova creazione”. [19]
(Vedi in proposito il mio: Il Tutto divino”).
L’immagine del triangolo radiante ci rende molto bene l’idea di un’energia che entra nella forma.
Oggi la fisica mette la relazione tra energia soggiogata alla gravità e energia non soggiogata alla gravità nella formula di De Broglie mc2=hf, che stabilisce l’equivalenza tra la massa per la velocità della luce al quadrato e la frequenza moltiplicata per la costante di Planck, che rappresenta l’azione minima possibile o elementare dell’energia quantizzata.
Quando prendiamo in esame la formula di De Broglie apprendiamo l’equivalenza della natura corpuscolare e di quella ondulatoria dell’energia, ossia, in altri termini, tornando al mito, tra la vita dominata dalla pesantezza, la massa (sono figlio di Greve) e quella dove domina la leggerezza (sono figlio del Cielo stellato).
Cosa significa ricordare, riaccordarsi? Probabilmente significa apprestarsi a cambiare frequenza.
Max Planck, nel 1944, pochi anni prima di morire scrisse: “Avendo consacrato tutta la mia vita alla Scienza più razionale possibile, lo studio della materia, posso dirvi almeno questo a proposito delle mie ricerche sull’atomo: la materia come tale non esiste! Tutta la materia non esiste che in virtù di una forza che fa vibrare le particelle e mantiene questo minuscolo sistema solare dell’atomo. Possiamo supporre al di sotto di questa forza l’esistenza di uno Spirito Intelligente e cosciente. Questo Spirito è la ragione di ogni materia.”[20]
Tra questo Spirito intelligente e cosciente, che dal mio punto di vista è il Tutto di Energia intelligente, informata, significante e cosciente e la vita greve del corpo fisico, si colloca l’immaginazione, ossia la capacità della psyché di cogliere gli “immaginali”, di pensare gli archetipi, di rapportarsi agli Dei.
Qui si apre un elemento importante di riflessione riguardante il concetto stesso di anima.
Richard Broxton Onians rileva come ψυχή (psiché) venga comunemente intesa come “anima-respiro”, ma come anche lo stesso termine sia spesso correlato a quello di θυμός (thymos) dall’analogo significato.[21]
In altri è evidente che i due elementi siano di differente significato.
In tal senso thymos viene usato quando è racchiuso nei polmoni (ritenuti organi dell’intelligenza) come un elemento caldo; il termine diviene invece psyché quando abbandona il corpo con l’ultimo respiro, divenendo un elemento freddo. L’uomo, integro e intero durante la vita, si scinde, lasciando dietro il corpo che si corrompe e liberando la psyché.
Accade anche che thymos e psyché lascino insieme il corpo. Psyché lo abbandona giungendo nell’Ade come “un fantasma visto in sogno”, mentre thymos viene distrutto dalla morte.
Onians ricorda come la psyché sia associata, come luogo, alla testa, da dove veniva espirata, e che essa corrisponde piuttosto alla skiá (σκιά, ombra) come descritta nell’Odissea, piuttosto che all’anima-respiro (rientrando così nell’ambito del thymos).
Platone, in Leggi X scrive. «Ebbene ψυχὴ dirige ogni cosa, tutte le realtà celesti, terrestri, marine, grazie ai suoi propri movimenti, i quali hanno un nome: volere, analizzare, avere cura, prender decisioni, giudicare bene e male, provar dolore e gioia, coraggio e paura, odio e amore, e tutti gli altri moti che possono essere assimilati a questi e che costituiscono i movimenti primari, guide di quelli secondari – i moti dei corpi – e determinanti in ogni cosa la crescita e la diminuzione, la separazione, e l’unione con quel che ne segue, ossia il caldo e il freddo, il pesante e il leggero, il bianco e il nero, l’aspro e il dolce».
In Aristotele l’anima è concepita come forma che determina la materia e il suo fine.
In Aristotele (De anima), infatti, l’anima è “sostanza nel senso di forma e cioè quiddità di un corpo d’una determinata qualità”. “Se l’occhio fosse un animale – spiega Aristotele – anima sua sarebbe la vista. […]. L’occhio è materia della vista”.
Per Aristotele l’anima contiene in sé il telos, ossia la sua meta finale, la sua entélechia. Se il corpo è óusía os ýlé (sostanza materiale) l’anima ne è la forma che determina la materia (óusía os eidos) cosicché la forma, determinando la materia, ne fa il “questo qui” (tóde ti).
L’anima, in quanto dotata di telos, è entélechia del corpo e in quanto tale ne determina la meta finale.
Aristotele distingue poi l’anima prima: “ciò che nutre” e la “generatrice di un essere simile a chi la possiede” (la più bassa e legata al corpo), dall’anima intellettiva e afferma: “quella parte di anima che chiamiamo [noûs] intelletto (e dico intelletto non per cui l’anima pensa e come concepisce) non è in atto in nessuna delle cose prima di pensarle. Perciò non è ragionevole che sia mescolato al corpo. […]. Hanno ragione quindi quelli che sostengono che l’anima è il luogo delle forme, solo che non l’anima intera è tale, ma l’intellettiva e che non si tratta di forme in atto, ma in potenza”.
Esistono, pertanto un’anima nutritiva e un’anima intellettiva, ma quest’ultima appartiene al mondo degli intelligibili, una realtà priva di materia dove “sono lo stesso il pensante e il pensato”.
L’anima è la forma del corpo (morfé sómatos), è attività del corpo (enérgheia sómatos), è causa e principio del suo movimento (sómatos aitía kai archè) ed è attuazione compiuta della sua natura (entélechia sómatos physichoú).
Tutte le funzioni dell’anima, con la sola esclusione dell’intelletto (noûs) sono legami di natura fisiologica con il corpo.
L’anima intellettiva come luogo delle forme è assai vicina al concetto di anima come facoltà di rapportarsi agli immaginali.
Ancora una volta l’anima, corpo di luce, si propone come il fiammeggiante involucro attivante la morfogenesi.
Infine un cenno al ponte di luce della tradizione norrena.
E’ l’ásbrú, il ponte arcobaleno, a fornire un passaggio dalla terra al cielo. Questo ponte ha un nome: Bilrost, la «via dai molti colori», o Bifrost, la «via tremula», e furono gli dèi stessi a costruirlo, con arte e profonda sapienza. Passaggio arduo e difficile, il ponte arcobaleno è accessibile soltanto a coloro che sanno come accedervi.
L’idea di una via che connetta la terra al cielo, ovvero il mondo grossolano della manifestazione materiale e il mondo sottile della manifestazione spirituale, fa del ponte arcobaleno un altro simbolo del mundus imaginalis, quale mondo sottile di luce che ci avvolge.
[1] Scrive angelo Tonelli: “Con Colli, a differenza di quasi tutti gli interpreti, conservo εἰδέναι tramandato da P [Platone], che significa conoscere per immagini, intuire”. Angelo Tonelli, Eraclito, dell’Origine, Feltrinelli
[2] Angelo Tonelli, Eraclito, dell’Origine, Feltrinelli
[3] Angelo Tonelli, Eraclito, dell’Origine, Feltrinelli
[4] Prefazione all’opera di Florenskij “Le porte regali”, Marsilio
[5] Pavel Aleksandrovič Florenskij, “Le porte regali”, Marsilio
[6] Pavel Aleksandrovič Florenskij, “Le porte regali”, Marsilio
[7] Pavel Aleksandrovič Florenskij, “Le porte regali”, Marsilio
[8] Pavel Aleksandrovič Florenskij, “Le porte regali”, Marsilio
[9] Pavel Aleksandrovič Florenskij, “Le porte regali”, Marsilio