di Gianfranco Costa
Qualche tempo fa scrissi un breve testo di commento alla ricerca che stava conducendo la AgrupaciónAstronómica de Fuerteventura, associazione di appassionati di astronomia di cui facevo parte alcuni anni or sono quando lì vivevo, a proposito di una struttura archeologica conosciuta come “los Soles de Tejate”, sita nel nord dell’isola canaria di Fuerteventura.
Si tratta in realtà di una coppia di strutture circolari, entrambe con forma di sole e solo visibili dall’alto, le cui zone centrali hanno un diametro di 39 metri, da ciascuna delle quali si diramano 59 muri radiali, disposti come “raggi” di un “sole”.
In un articolo precedente illustravo una mia personale speranza, quella di poter riuscire a dimostrare che la datazione di tali strutture potesse essere addirittura precedente all’arrivo dei primi abitanti sull’isola in epoca romana.
Gli studi storici attuali suggeriscono che l’arcipelago sia stato abitato dai berberi, in fasi diverse, a seguito della deportazione operata dagli invasori del nord Africa. L’ipotesi oggi più accreditata consiste nel ritenere che questo sia avvenuto principalmente all’epoca dell’impero romano: i gruppi ribelli locali più determinati nella difesa della loro terra, dunque pericolosi nell’economia della conquista, venivano deportati alle isole canarie. Ma è possibile che lo stesso sia accaduto anche in epoche precedenti all’espansione romana, per esempio ad opera dei Fenici, con la fondazione di Cartagine (almeno questa è una mia personale ipotesi).
Ad ogni modo, quegli antichi berberi non avevano nozioni di navigazione. Non sapevano come muoversi da un’isola all’altra. L’ipotesi delle deportazioni ad ondate successive spiega dunque il loro arrivo scaglionato nel tempo e le conseguenti differenze a livello di tradizioni, sviluppatesi autonomamente con differenze contestuali da isola a isola. Portarono comunque con sé, oltre alle loro forme di culto, i loro animali (fondamentalmente capre) e il loro linguaggio, le loro divinità di base di tipo solare: tutt’ora le popolazioni di lingua amazigh del nord Africa annoverano tradizioni molto antiche di culto a sole e luna.
Uno degli elementi più sorprendenti di queste strutture alle quali mi riferisco, nonostante siano ormai archeologicamente parlando solo ridotte in rovina, è che però vanno ben al di là di un semplice richiamo alle religioni tipiche di un culto solare: si tratta probabilmente di un vero e proprio osservatorio astronomico. Un culto stellare, cioè molto più antico (da qui la mia ipotesi di una loro possibile datazione precedente).
Voglio dire che, unica situazione conosciuta nell’arcipelago, è il solo caso in cui si mescolano elementi di culto al sole, alla luna ma anche alle maggiori stelle visibili ad occhio nudo. La struttura ha forma di sole, alcuni dei suoi corridoi puntano ai principali eventi solari, altri a quelli lunari e contemporaneamente altri al sorgere e al tramontare delle principali stelle visibili ad occhio nudo, con particolare riferimento alla loro levata eliaca. Una rarità assoluta.
Alla fine del mese di luglio 2018, pubblicammo attraverso la stampa locale i risultati della prima fase dello studio archeoastronomico relativo, con un esito molto diverso da quello che ipotizzavo inizialmente: un’apparente delusione dal punto di vista personale.
Per riuscire a determinare una possibile datazione partimmo da una semplice considerazione: i corridoi formati dagli spazi tra i vari muri radiali sono disposti secondo angoli (azimut) che corrispondono ai principali eventi astronomici, vale a dire quelli solari (solstizi ed equinozi) e lunari (lunazioni maggiori e minori). Però considerando solo questi, si descrivono 14 angoli. Per dare un senso ai restanti corridoi, che sono la maggior parte, abbiamo preso in considerazione anche le levate ed i tramonti delle stelle più luminose tra quelle visibili semplicemente ad occhio nudo, analizzando le corrispondenze con i vari angoli di nascita e tramonto delle 36 stelle più brillanti durante gli ultimi cinque millenni. Così che, alla fine di questa lunga fase di studio, abbiamo verificato che solo attorno all’anno 1.000 d.c. ad ogni corridoio corrisponde una stella, identificando pertanto quella come possibile data di edificazione della struttura.
Anno 1.000 d.C., ovvero in epoca sì preispanica, però sicuramente nella fase in cui quella cultura berbera lì implementata si era stabilizzata già da un millennio.
Tutte le nostre considerazioni si riferiscono al sole di ovest, quello che attualmente presenta il miglior stato di conservazione, del quale abbiamo molti dati assolutamente certi, inclusa una misurazione topografica di precisione effettuata da un gruppo di archeologi docenti attorno al 1995, grazie alla quale abbiamo potuto risalire con precisione al calcolo degli angoli dei vari azimut.
Quattro anni fa ci riunimmo di nuovo per cominciare a definire gli obiettivi della seconda fase dello studio e personalmente feci notare una cosa che non mi quadrava per nulla: se il sole di ovest è così preciso, se definisce con precisione impressionante tutti questi eventi astronomici stellari, perché costruirne due? A che serviva l’altro?
Così mi domandai se potesse esserci una spiegazione semplice per tutto questo. Ed ecco la nuova ipotesi di lavoro, sulla quale cercammo di avanzare: l’altro sole potrebbe essere molto, molto più antico, addirittura precedente all’arrivo delle popolazioni berbere. Anche di molto precedente quindi all’anno 1.000 d.C.
Per effetto della precessione degli equinozi, che ha un ciclo di circa 26.000 anni, la mia ipotesi è che il primo e più antico dei due soli sia – per così dire – “scaduto” ad un certo punto. Non funzionava più. Voglio dire che, a seguito dell’oscillazione dell’asse terrestre, è possibile che i corridoi del sole di est, dopo alcuni secoli già non corrispondessero al sorgere e tramontare delle varie stelle, tanto da convincere a costruirne un altro, “aggiornato” per così dire alla situazione corrente.
Un elemento illuminante al rispetto è che le due strutture sono perfettamente allineate tra loro secondo l’asse est-ovest, ovvero secondo gli equinozi, gli unici punti che non cambiano molto nel tempo. In altre parole, le uniche certezze per i costruttori del secondo sole.
Se l’ipotesi si verificasse, le conseguenze sarebbero enormi. Per prima cosa ci sarebbero stati abitanti delle isole canarie antecedenti all’arrivo dei berberi, cosa che l’archeologia classica non può dimostrare senza ricorrere all’archeoastronomia. E, cosa molto più intrigante, gli antichi indigeni avrebbero avuto conoscenze, saggezze e probabilmente culti molto precedenti ai classici riti solari delle popolazioni nordafricane. Conoscevano le stelle con una precisione davvero notevole.
L’investigazione però non potette proseguire. Per prima cosa perché quelle antiche meraviglie giacciono su terreni di proprietà privata, motivo per il quale i proprietari furono autorizzati a farne un uso imprecisato, soprattutto disfacendo muri e resti archeologici per sfruttarne le antiche pietre. È così che in quelle terre le cose funzionano, tra favori, famiglie e amicizie compiacenti al di là della valorizzazione di tesori mai compresi. Fu permesso di distruggere quasi tutto (resta in piedi molto poco ormai) per allevare animali e costruire stalle, con relative autorizzazioni concesse dal municipio e dai suoi funzionari. Al momento, a quanto mi risulta, deve ancora risolversi un giudizio che ancora non è stato nemmeno adeguatamente formalizzato.
Fatto sta che a suo tempo, tre anni fa, pubblicai un breve video (chi volesse potrebbe dargli un’occhiata, anche se in spagnolo) per spiegare ai più cosa significasse considerare quelle pietre come un enorme, prezioso tesoro, anche se al momento non seguirono ulteriori azioni da parte dei miei compagni di lavoro di quei momenti (sostanzialmente perché dapprima arrivò questa malefica tragedia del covid e poi perché me ne andai a vivere altrove). Ad ogni modo, dopo aver vissuto l’esperienza emozionante di ripercorrere i passi di quegli antichi osservatori del cielo notturno, rivivendo le sensazioni di quelli che forse furono antichi rituali, ormai sepolti tra le pieghe del tempo, mai capiti e colpiti tanto duramente dalle varie forme d’ignoranza (e relativi interessi privati), ad ogni modo hanno lasciato in me profonde, indimenticabili emozioni.
Chissà, magari qualcuno potrà proseguire il lavoro in futuro. Magari si potrà porre rimedio ai danni tremendi di quelle drammatiche piccolezze istituzionali compiacenti.
Magari un giorno potranno tornare a risplendere quelle ancestrali conoscenze, come fossero bagliori di stelle ormai dimenticate dai più, per tornare a vibrare libere di alimentare gli spiriti più aperti e disponibili. Magari.