ROLANDINA, IPOCRISIA E PREGIUDIZIO NELLA VENEZIA DEL ‘300

Apr 22, 2024 | ARTE

di Silvano Danesi

Marco Amico, giovane regista bergamasco, ha portato in scena “Il processo a Rolandina”, tratto da un libro di Marco Salvador, nel quale si narra la storia vera di una transgender condannata al rogo nella Venezia del XIV secolo.

Gli atti del processo, le testimonianze, la confessione della povera Rolandina,

letti dagli attori dell’Associazione Teatro Fratellanza, emergono in tutta la loro potenza drammatica nella trasposizione dei testi, operata da Amico, e messi in scena in un ambiente, come il quattrocentesco Fondaco del sale (Città Alta, Bergamo), che spaesa lo spettatore, immergendolo in quel secolo di cattolicesimo ipocrita e aggressivo che condannava al rogo chi non si adeguava ai dettami di Santa Madre Chiesa Cattolica Apostolica e Romana e alla ipocrisia della quale i Dandolo si erano adeguati.

Dai testi e dalla drammatizzazione operata da Amico, prima ancora della vicenda che riguarda la protagonista, emerge una Venezia intrisa di pregiudizio, di ipocrisia, e soprattutto assai difforme da quella patina di tolleranza e di distanza dai rigori del rigorismo ipocrita del cattolicesimo con la quale la si vorrebbe dipingere.

E’ la stessa Venezia che nella seconda metà del ‘500 consegnerà Giordano Bruno alla inquisizione del cardinal Roberto Bellarmino, con un finale anticipato dalla vicenda di Rolandina: il rogo.

E’ la stessa Venezia che consentirà il rogo delle streghe in Valle Camonica.

Il rogo è lo strumento di un cattolicesimo oppressivo e pervasivo che sarà usato dalla Santa Inquisizione nella lotta contro le streghe e contro gli eretici, fino alle guerre di religione, e come deterrente a qualsiasi idea non coincidente con con il romano imperio.

Nella Venezia del 1353, da anni una giovane donna gira per Rialto con le sue ceste di uova, fresche e sode, da vendere. Fare la venditrice ambulante non basta a sopravvivere, tanto meno a realizzare il sogno di aprire una bottega tutta sua. Per questo fa anche la prostituta. Rolandina è bella, gentile e sempre disponibile ad aiutare i vicini ed è amata e rispettata.

Accade che un giorno, un ubriacone, dopo essersi accompagnato con lei, la denuncia per sodomia e sorge il sospetto che la giovane non sia veramente una donna. Inizia così un processo che mette a nudo l’ipocrisia e il pregiudizio di una Venezia che si vorrebbe laica e illuminata e che, al contrario, è bigotta e dove la sodomia, anche tra maschio e femmina, è reato.

Un reato che porta al rogo.

Il processo è preceduto da indagini dei Signori della Notte, una sorta di precursori dei dipartimenti di polizia, i quali avevano il compito di assicurare i criminali alla giustizia. Le indagini porteranno alla scoperta che Rolandina in effetti è Rolandino, ma non un rolandino che si traveste da Rolandina. L’esame che condurrà il medico incaricato dal tribunale avrà, infatti, come esito, l’affermazione che Rolandina è donna a tutti gli effetti in tutte le parti del corpo, salvo che al posto di avere la “mona” ha un pene e i testicoli.

Rolandino/Rolandina è nato/nata così. E’ al 95 per cento una donna, salvo quel particolare.

Rolandina, pertanto, nel suo esercizio del meretricio non ha usato la “mona”, ma il “culo”. Così negli atti di Venezia. Siamo al reato di sodomia.

Nelle sue confessioni Rolandina dice di aver avuto incontri con un migliaio di veneziani. Ovviamente tutti morigerati, credenti e timorosi di Dio, salvo ricorrere alla “mona”, perché, si sa, la carne è debole e poi, basta confessarsi e tutto finisce lì.

Se invece c’è di mezzo l’altro orifizio, allora si rischia il rogo. Questione di buchi.

Pare che a proposito di buchi, Rolandina sappia anche ben succhiare. Quando si fanno le indagini è necessario essere precisi, forse anche per qualche inespresso voyeurismo.

Rimane il fatto che del migliaio di clienti del “buco” agli indagatori poco importa. Importa invece moltissimo sapere di uno dei clienti, il figlio del Doge, la cui gondola è stata vista ormeggiare nei pressi della casa di Rolandina.

Ed ecco che prende forma la vera questione: la morale per gli allocchi e il potere per i potenti.

Se Rolandina avesse denunciato il figlio del Doge avrebbe avuto salva la pelle e i Dandolo sarebbero finiti assai male. Rolandina, eroicamente, non dice nulla, anche per il fatto che, come afferma nelle confessioni, senza fare nomi, c’è stato qualche cliente che l’ha amata, così come era. Il figlio del Doge Dandolo, in conclusione, frequentava Ronaldina così come era, senza bisogno di ipocrisia, ma rischiava di finire male e con lui anche il padre.

Ronaldina salva il figlio del Doge, finisce sul rogo. Il potere è salvo. La morale è data in pasto ad un popolo di allocchi che la usa come droga emozionale: tutti in piazza a vedere bruciare il sodomita.

Fine della storia?

No.

La rappresentazione inscenata da Amico, nel Fondaco del sale, ha il pregio di emozionare e anche di indurre una rabbia antica nei confronti di un’ipocrisia che ha percorso i secoli, massacrando il popolo degli allocchi, alloccati per paura e per ignoranza e ha protetto i potenti, collusi con il potere ecclesiastico.

Nella fotografia (da sinistra): Marco Amico, Lucia Gualdi, Luisa Bosio, Marco Franchina, Gianbattista Guerini, Martina Brignoli

 

Ed è qui, probabilmente, il valore di questa esumazione del processo del XIV secolo: la sua attualizzazione.

Anche oggi pregiudizio e ipocrisia albergano negli stessi ambienti: il potere e Santa Romana Chiesa.

Pensiamo alle vicende della pedofilia, con tanto di condanna formale e di copertura sostanziale della quantità di preti pedofili ormai acclarati dalla cronache.

Pensiamo alla Fiducia supplicans, con la benedizione delle coppie gay, ridotta a 15 secondi dopo le proteste, con una colossale presa per i fondelli.

E’ a questo punto che la cancel culture fa la sua parte. Eliminare la storia significa smacchiare il vestito e presentarsi con il volto e la veste candida, predicando la morale che conviene ai tempi.

Ecco che il valore della rievocazione, dello scavo storico e della drammatizzazione emozionale propria della rappresentazione teatrale, hanno il grande valore di evitare l’oblio.

I roghi, se non sono continuamente circoscritti, divampano e i piromani sono sempre gli stessi.

Dulcis in fundo, un accenno al quattrocentesco Fondaco del sale. Costruito con le pietre della torre medievale caduta rovinosamente e smaltato con malta a calce del periodo, Fondaco del sale è stato messo a disposizione gratuita dell’attuale proprietà a “Siparioilmioracconto” e ad altre associazione culturali per fare cultura, musica, teatro.

Il tutto grazie anche al coordinamento culturale di un appassionato come Marco Foresti, artista, attore e regista, in sintesi animatore teatrale di un gioiello all’interno di quel gioiello che è Città Alta.

Silvano Danesi

Silvano Danesi

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