Silvano Danesi
Segue da: ALL’INCROCIO DEI CAMMINI INIZIATICI (1)
Torniamo al nostro ordito, ossia a Martin Buber, sul quale continuiamo a tessere la trama della riflessione.
“Con ogni uomo – scrive Buber- viene al mondo qualcosa di nuovo che non è mai esistito, qualcosa di primo e unico” e “ciascuno è tenuto a sviluppare e dar corpo proprio a questa unicità e irripetibilità, non invece a rifare ancora una volta ciò che un altro, fosse pure la persona più grande, ha già realizzato”.
Eccoci giunti ad un altro crocevia.
Nella triade XXXVII si legge: “ Tre caratteristiche di ciascun essere vivente nel cerchio di Gwynfydd: la vocazione, il privilegio e l’Awen. Non è possibile che due esseri siano identici da tutti i punti di vista; ci sarà una pienezza per ciascuno e per ciò che riguarda la sua peculiarità; e non c’è pienezza d’una cosa senza comprendere tutto ciò che può essere in realtà”.
“Ma in cosa consiste ciò che può fare quell’uomo preciso e nessun altro- aggiunge Buber -, può rivelarsi all’uomo solo a partire da se stesso”. Come scrive Eraclito: “Interrogai me stesso”.
“In ognuno c’è qualcosa di prezioso dentro di sé, l’uomo può scoprirlo solo se coglie veramente il proprio sentimento più profondo, il proprio desiderio fondamentale, ciò che muove l’aspetto più intimo del proprio essere”.
In altri termini, il progetto di vita di ogni essere umano è racchiuso nella sua coscienza, riguarda solo lui, come fosse un codice animico.
A questo crocevia incontriamo l’Awen.
Nelle Triadi bardiche, che ci consegnano il pensiero druidico, ogni essere emanato dalla sede del Divino, Cugant, il cerchio vuoto e che entra nel cerchio delle migrazioni, è dotato di un Awen: intelligente flusso vitale che lo anima, lo muove, lo sostiene e gli conferisce la direzione del movimento; è la sua identità essenziale, il suo codice originario che, calato nel mondo materiale, è parte della psiché e che permane, arricchendosi di esperienza, anche quando dalla psiché (centro di mente, corpo, emozioni) si stacca.
L’Awen, campo informativo di ogni essere, di volta in volta porta con sé i risultati delle esperienze condotte in Abred, il cerchio delle migrazioni, e quando sarà raggiunto il Mondo Bianco (Gwynfydd) conseguirà la sua pienezza.
Nella triade XLV questo concetto è chiaro. “Le tre pienezze di Gwynfydd: partecipare di tutte le qualità con una perfezione originaria; possedere tutti gli Awen con un Awen predominante; ….”.
Un aspetto fondamentale della filosofia druidica è la conservazione da parte di ogni essere umano della propria individualità anche quando, lasciato il transito nel cerchio delle migrazioni, entra in Gwynfydd, ove diviene nell’eternità dell’esistenza.
Dal punto di vista psicologico – scrive Pictet -, l’Awen rappresenta, in qualche modo, lo sviluppo più elevato, la quintessenza intellettuale, il fiore ideale di ciascuna anima individuale. Tutti gli uomini hanno il loro Awen, ma è loro raramente concesso di gioirne durante l’esistenza terrestre. Le mille pastoie della vita e gli accidenti dell’organizzazione materiale, arrestano e disturbano lo sviluppo naturale. …. Eh bene, questo elemento sarà posseduto in modo completo nel cerchio di Gwynfydd, e là ciascuno diventerà in realtà ciò che egli era primitivamente come ideale nel pensiero del Creatore”. [1]
Per “il completo sviluppo dell’Awen e della scienza – dice ancora Pictet -, è necessario che l’uomo ritrovi anche la memoria delle sue esistenze passate, al fine di riconoscere l’unità della sua natura personale, e di riunire in una sintesi definitiva tutti i momenti della sua vita, sparsi nella successione dei tempi”. [2] “Fra i Cambrii – scriveva nel XII secolo Giraud – esistono degli uomini chiamati awendhiou, vale a dire condotti dallo spirito…..E’ più sovente nelle visioni del sogno che è loro infuso il dono della profezia”. [3]
Qui arrivato troviamo un possibile crocevia con nell’incontro tra fisica e metafisica, così come ce lo propone lo scienziato Federico Faggin.
Nelle Triadi, quelli che per gli indù sono i bindu (gocce), nella filosofia druidica sono i mandred. In altri termini potremmo chiamarli gocce di luce, o meglio, particelle di intelligenza cosciente, rivestite di un corpo di luce, distinte, ma non separate dall’Uno-Tutto, che è intelligenza cosciente (Nous) in azione (energia).
Con Faggin ci troviamo al cospetto di un incrocio tra la tradizione druidica e le riflessioni, ai confini tra fisica e metafisica, di uno scienziato, il quale, nel suo: “Oltre l’invisibile” ha elaborato una teoria che si chiama Nousym, da Nous, intelletto e sym, simbolo, nella quale definisce la coscienza come “la capacità dell’Uno di conoscere se stesso”.
In questa teoria, la coscienza è “fondamentale e irriducibile, ed esiste prima di ciò che chiamiamo materia”.
Se così fosse, il suggerimento apollineo “Gnothi seauton” è possibile sia, a questo punto, una legge intrinseca all’Uno-Tutto e che quanto è scritto sul tempio di Delfi non sia un suggerimento, ma la dichiarazione di una legge generale resa come tale agli esseri umani.
Faggin chiama la Coscienza delle coscienze Uno che è “una totalità di ciò che esiste ed è dinamico, olistico e vuol conoscere se stesso”.
Faggin sostiene che i campi quantistici della fisica devono avere coscienza e libero arbitrio” e chiama questi campi e le loro combinazioni seity, dove ogni seity è una parte-intero di Uno ed è generata da Uno.
Le seity si combinano tra loro per creare seity di livello superiore.
In questa teoria, chiaramente affascinante, che tenta di comprendere le grandi leggi che presiedono alla manifestazione, la seity non è il corpo, ma il campo quantistico che controlla il corpo e il corpo “è una struttura ausiliaria della vera natura, di chi siamo veramente”.
Senza andare a fondo delle teorie di Faggin, sembra evidente che partendo da concetti scientifici lo scienziato si avvicina a concetti a contesti narrativi propri di ambiti mitologici.
E da questi riprendiamo alcune considerazioni relative ai bindu, ai mandred, generati da Ceugant, il cerchio vuoto, che possiamo forse pensare come il campo quantistico, ossia un tessuto interconnesso di energia e di informazioni che soggiace alla realtà materiale.
Cosa sia Ceugant ce lo dice la XII Triade: Tri chylch hanfod y sydd : cylch y Ceugant. Ile nid oes namyn Duw, na byw, na marw, ag nid oes namyn Duw a eill ei dreiglo cylch yr Abred, Ile pob ansawdd-hanfod o’r marw, a dyn a’i treiglwys; cylch y Gwynfyd, lle pob ansawddhanfod o’r byw, a dyn a’i treigla yn y nêf.
Tre cerchi della sostanza dell’essere: il cerchio di Ceugant, dove non esiste nulla se non il Demiurgo, né viventi, né morti, e nessuno se non il Demiurgo lo può attraversare; il ciclo di Abred, dove [sono] tutte le qualità delle essenze (sostanze) animate o inanimate, e l’uomo lo attraversa; il ciclo di Gwynfyd, dove [sono] tutte le sostanze qualitative o viventi, e l’uomo lo attraversa in cielo.
La descrizione triadica ci ricorda l’Archè, abitata dal Lógos, che ne è l’azione e in quanto tale ne è il demiurgo, il demi-ergon, il lavoratore pubblico, l’agente manifestativo.
Siamo ad un crocicchio dove incontriamo la tradizione cristiana e quella massonica in un testo, come il Prologo di Giovanni, che non è solo a fondamentale per una religione, ma che si propone come una descrizione di come agisca il Tutto nel suo manifestarsi e che è testo di riferimento fondamentale per la Massoneria.
Theós, nel Vangelo di Giovanni, è Lógos.
Ed ecco che il Prologo acquista il suo insostituibile ruolo di chiave scientifica del mito, in quanto sintesi estrema del divenire al mondo, ossia della legge del farsi mondo del Principio.
ἐν ἀρχῇ ἦν ὁ λόγος, καὶ ὁ λόγος ἦν πρὸς τὸν θεόν, καὶ θεὸς ἦν ὁ λόγος
En archê ên ho Lógos, kai ho Lógos ên pros ton Theón, kai Theòs ên ho Lógos.
Nel Principio era il Lógos,
il Logos era presso Theón
e il Lógos era Theós.
Come ho scritto nel mio: “Il Tutto divino”, l’arché in Parmenide è l’Essere e il fondamento di tutte le cose.
In Aristotele l’arché consiste nell’essere origine e fondamento per l’Essere, il divenire e il conoscere.
Anassimandro chiama l’arché apeiron, l’illimitato, l’imperituro, l’indistruttibile, l’inesauribile e la definisce anche theion, divino. L’apeiron di Anassimandro, scrive Eugen Fink è “il theion inteso come phýsis, la natura onnipresente, sempre assente, inesauribile, che racchiude in sé morte e vita, che genera e annienta….”. [4]
L’apeiron di Anassimandro è l’abisso che fa uscire tutte le cose.
Arché, femminile in greco, deriva dalla radice indoeuropea *ark, che ha il significato di contenere, trattenere. *Ark è scrigno, arca. Arca dell’alleanza.
Arché è, dunque, un illimitato abisso, chiuso e silenzioso, fondamento di tutte le cose (ta panta) ed è phýsis che, secondo Aristotele, è l’uno originario, che è sempre, che permane e che è imperituro. La phýsis è l’arché di tutte le cose, divina, creatrice.
In Anassimandro, come spiega Eugen Fink, la phýsis “è il fondamento non cosale di tutte le cose percepibile nel pensiero, fondamento che permane imperituro in tutto il loro trapassare. La phýsis stessa non appare; è l’ente ad apparire, ma tutto ciò che appare viene fuori dal grembo della phýsis e in esso ritorna”. [5]
La phýsis, in Eraclito, è l’eterna madre immutabile, il fondamento materno del mondo da cui erompe la luce che assegna alle cose (ta panta) la visibilità; è il grembo che tutto partorisce, è la Dea Madre.
La phýsis è l’Essere come origine. La Phýsis è l’inapparente, il velato, la profondità dell’Essere chiuso in sé. “La natura – scrive Eraclito – ama velarsi”.
L’arché è dunque phýsis, fondamento, abisso, grembo partoriente da cui erompe la luce come sophon, l’uno sapiente, la ragione del mondo di cui scrive Eraclito.
Il sophon è l’aperto, “il chiarore della comprensione in cui unità, totalità ed Essere appaiono diradati nel loro rapporto reciproco”. [6]
Il sophon è l’aletheia dell’Essere e in Eraclito è il saphes, il chiarore della luce: fuoco semprevivente. Fuoco cosmico, che assegna alle cose la visibilità del loro aspetto; è il fulmine che nel frammento 64 Eraclito indica come la potenza che governa tutte le cose nel loro insieme (ta panta).
E l’ordine simbolico del fuoco è quello cosmologico del lógos, ossia del sophon: ragione che attraversa il cosmo e custodisce la vicenda dell’apparire.
Il logos in Eraclito “è l’articolazione ontologica che attraversa l’aperto, il principio strutturale del sophon…; è la forza improntante e disponente”[7], che impronta e dispone le cose.
Il Prologo evidenzia il reciproco rapporto tra l’origine (archè, phýsis) e il lógos come luce che evidenzia tutte le cose che sono nell’origine e le impronta, le ordina, dà loro visibilità.
L’origine, arché, phýsis, è un principio creatore del quale il sophon è l’aspetto ordinante e, in quanto logos, improntante e custodente in un continuo avvicendarsi di krisis, separazione, e di krasis, mescolanza: due vocaboli la cui radice *kr è anche quella di creare, ossia di fare.
Nel Prologo leggiamo che tutte le cose sono state fatte per mezzo di lui, ossia che l’attività creatrice dell’origine è propria del lògos, che è nell’origine presso se stesso.
Qui si inserisce una riflessione sul concetto di cosa, che può essere phýsei onta o techne onta, dove nel primo caso le cose sono tali da partire dalla natura per opera del lógos, che si propone come Grande Architetto dell’Universo, Archi-tecton, realizzatore dell’arché e, nel secondo caso, come derivanti dalla techne, per opera degli archi-tecton umani, che assumono il ruolo di collaboratori del lògos e di custodi della phýsis.
Il Prologo continua poi affermando che nel lógos era la vita e la vita era la luce degli uomini. Il vocabolo usato è zoé, ossia vita universale generale e, in quanto tale, luce degli uomini, ossia capace di trarre gli esseri umani all’esistenza, assegnando loro la visibilità del loro aspetto e della loro identità, così come il fuoco semprevivente assegna la visibilità del loro aspetto a tutte le cose (ta panta).
Archè, apeiron, Ceugant: concetti simili, se non uguali. Ecco un bel crocevia.
Torniamo ai manred, ossia agli esseri umani, in quanto gocce di luce, che, generate da Ceugant, cadono nell’Annuwn.
Riprendo dal mio: “La via druidica”, secondo volume.
Annuwn, scrive Pictet nel suo studio sulle triadi “si scrive ugualmente Annwun e Annufn, ma la seconda forma è la più antica. E’ un composto regolare del prefisso negativo an, e di dwfn, fondo, profondità, con il cambiamento ordinario di d in n. Annwfn risponde così esattamente al greco abisso, senza fondo.
Il termine irlandese che corrisponde al gallese dwfn è domhain, o doimhin, profondo, cavo, da cui doimhne, doimhneas, profondità. Domhain significa anche il mondo, l’universo, e si rapporta immediatamente al sanscrito dhâman, paese, contrada, luogo, dimora, dalla radice dhâ, posare, stabilire. Il senso primitivo di tutte queste parole è dunque quello di fondo stabile. Si vede inoltre che la f del gallese dwfn è un’alterazione di un’antica m …”[8]
L’Annuwn, dove il prefisso an è negativo, si propone dunque come l’abisso, il cavo, il contrario della stabilità, una sorta di alter ego del cerchio cavo, vuoto di Ceugant.
Annwn o Annwfn, come ci spiega la triade XIV, è anche il luogo dell’inizio: “Tre fasi necessarie di tutte le esistenze in rapporto alla vita: l’inizio in Annuwn, la trasmigrazione nell’Abred e la pienezza nel cielo o cerchio di Gwynfyd, e senza queste tre cose nulla può essere eccetto Duw”. Annwun “è il più basso del cerchio di Abred, o della trasmigrazione, il chaos che contiene tutti i germi di tutte le vite. Tutte le cose qui preesistono, ma allo stato d’involuzione, d’oscurità, la quale è espressa da cyflwr Abred …, in opposizione a ciflwr ryddyd, la libertà nella condizione umana. Così l’Annwfn, l’abisso senza fondo, fa parte del cerchio di Abred; è il punto di partenza della trasmigrazione in base alla quale gli esseri si elevano gradualmente verso la luce e la vita”. [9] In Annuwn, nell’abisso, troviamo “ la vita al suo minore grado, vale a dire, in germe, la sostanza materiale che costituirà l’inviluppo perituro delle creature, e la morte, vale a dire il sonno primitivo nel seno delle tenebre, ove tutte le vite prendono il loro punto di partenza per svilupparsi ulteriormente”. [10]
Nella XIII triade si legge: “Tre stadi di esistenza degli esseri animati: lo stato di caduta nell’Annuwn, lo stato di libertà nell’umanità e lo stato d’amore o di felicità del Gwynfyd”.
L’Annuwn, l’abisso, il cavo senza fondo e senza stabilità, alter ego del Ceugant, il cerchio vuoto, si propone, nella descrizione delle Triadi bardiche, come il luogo della caduta dei mandred (germi di luce), dell’incontro tra il germe di luce e il germe di vita, tra spirito (proveniente da Ceugant) e materia; il luogo dell’inizio del lungo viaggio dell’evoluzione, che non finirà mai, non solo nell’Abred, ma anche in Gwynfyd. Si suppone, “all’inizio – scrive in merito Panchaud – un punto centrale attorno al quale si sviluppa la circonferenza di un gran cerchio. Il punto si chiama Annwn (pronuncia Announ), che significa abisso, non nel senso di un baratro senza fondo dove tutte le cose si vanno a perdere, ma piuttosto in quello di un immenso ricettacolo che contiene tutti gli esseri che Dio crea, fino al momento in cui li chiama all’attività e allo sviluppo della loro natura e per conseguenza alla coscienza di se stessi”.[11] Alcune creature, alla fine della vita, ridiscendono in Annwun per ottenere una nuova vita, in ragione dell’esperienza compiuta. Alcune si elevano al cerchio di Gwynfyd.
In questa descrizione, Annwn richiama il calderone, come quello di Gundestrup o del Dagda o di Karidwen, dove i morti entrano per trovare nuova vita. Annwfn è l’utero della femmina arcana, il vasto ventre della Grande Madre Universale, ovvero di Ana, Karidwen (Dana, Diana, Jana), la Grande Cerva, la dea degli inizi, la Vergine nera. Annufn è il ventre, il calderone dove i germi di luce, i Mandred, incontrano il divino nella sua determinazione mater-iale, ossia entrano nel mondo delle forme. Annwfn è il luogo dove l’Essere diviene Ente, dove il Codice si attiva in energia, dove l’informazione si traduce in forma: si tras-forma. Re dell’Annwfn è Arawun, il Kernunnos, la parte maschile di Ker (Kar, Gar, pietra) Grande Madre Universale. Annwfn è il luogo dove nasce la vita, ovvero è la porta dell’entrata in azione delle gocce di luce emanate dal Nascosto in Ceugant. Annwfn è il luogo degli Anaon, la gente di Ana.
Possiamo, dunque, associare Annwfn a Ana, Karidwen, Dana, Anna Pourna, Anna Perenna, ovvero alla Dea Madre Universale nella sua funzione di creatrice delle forme, dei campi di forma, delle anime che sosterranno i corpi nella loro migrazione in Abred. Dana è associata a Cassiopea, il cui asterisma è simile alla lettera M e la costellazione viene tradizionalmente ritenuta il luogo dove nascono le anime.
Abred
Morrigan, la Grande Iniziatrice è la Grande Regina di Abred, il cerchio delle trasmigrazioni, delle esperienze dell’essere, dell’incontro con la legge di necessità e con il male inteso come condizionamento degli schemi della mente e al contempo della possibilità della liberazione, con la trasgressione alla legge di necessità. Abred è il cerchio delle molteplici esperienze dei vari stati dell’essere nella materia, così come sono mirabilmente descritti nelle poesie di Taliesin e di Amergin.
La XVII triade afferma: “Tre cause della necessità di Abred: lo sviluppo della sostanza materiale di tutti gli esseri animati; lo sviluppo della forza per superare tutte le contrarietà e Cythraul, e per liberarsi da Drug. E, senza questa transizione di ciscun stato della vita, non si può avere il compimento di alcun essere”. Nella triade XVIII leggiamo: “Tre calamità originarie d’Abred: la necessità, la perdita di memoria, la morte”.
La triade XIX ci dice come la trasmigrazione in Abred sia una delle condizioni per la pienezza della scienza: “Ci sono tre condizioni necessarie per arrivare alla pienezza della scienza: trasmigrare nell’Abred, trasmigrare nel Gwynfyd e ricordarsi di tutte le cose fino all’Annwn”.
La triade XX è quella che introduce il concetto di trasgressione della legge di necessità: “Tre cose inevitabilmente legate alla condizione di Abred: la trasgressione della legge, poiché non può essere altrimenti; la liberazione dalla morte in presenza di Drwg e Cythraul; l’accrescimento della vita e del bene per allontanamento di Drwg nella liberazione dalla morte; e ciò per l’azione di Duw che abbraccia ogni cosa”.
La triade XXI recita: “Tre modi efficaci di Duw, nell’Abred, per dominare Drug e Cythraul, e liberarsi di essi rispetto al cerchio di Gwynfydd: la necessità, la perdita della memoria e la morte”. La triade XXV descrive i motivi per cui l’uomo cade sotto la legge di necessità : “Per tre cose l’uomo cade sotto la necessità di Abred: per l’assenza di sforzo verso la conoscenza, per il non attaccamento al bene e per l’attaccamento al male; ossia, per queste cose egli discende nell’Abred fino al suo analogo, ed egli trasmigra di nuovo come prima”.
La triade XXVI elenca i motivi del ritorno in Abred:“Per tre cose l’uomo ridiscende necessariamente nell’Abred, sebbene da tutti gli altri punti di vista si sia legato a ciò che è buono: per l’orgoglio fino all’Annuwn, per la falsità, fino al punto di demerito equivalente, e per la mancanza di carità, fino al grado equivalente di animalità. Da là egli trasmigra di nuovo verso l’umanità come prima”.
Infine, la triade XLI annuncia la distruzione finale di Abred:“Tre cose si accrescono continuamente: il fuoco o la luce, l’intelligenza o la verità, e lo spirito o la vita. Queste cose finiranno con il predominare su tutte le altre e allora Abred sarà distrutto”.
Per quanto riguarda i significati di Drwg, Cythraul e Duw riprendo dal mio: “La via druidica” volume 1°.
Cythraul e Drug
Cythraul rappresenta, come ben spiega Bertholet,[12]il male in senso generale e Drug o Drog il male stesso generato dal volere di Cythraul.
Cythraul deriva dal prefisso cy e dal sostantivo traul, distruzione.
“Si trova – scrive in proposito Pictet -, a fianco di Cythraul, un altro termine pressoché identico, cythrawl che non differisce che per la vocale w (ou) della parte finale, ma la cui origine è tutt’altra. E’ un derivato regolare del verbo cythru, rigettare, espellere, e che significa: avverso, contrario….. Dobbiamo aggiungere un’analogia curiosa, e può essere fortuita, con il sanscrito çatru, çatrêra, avversario, nemico. Si rapporta alla radice çad, abbattere, uccidere (il latino caedere); ma il derivato dovrebbe allora scriversi çattru. La forma primitiva dovrebbe essere stata katru, e la possiamo ricondurre alla radice katra, (kart, kartr), nel senso di solvere, distendere, ne s’allontana troppo da quello gallese di cythru, rigettare, espellere”.[13]
“Il termine gallese drwg (armoricano droug, drouk, irlandese drock) esprime in generale tutto ciò che è malvagio, in senso fisico come morale….. Si annette evidentemente alla radice sanscrita druh, nuocere, ferire, da cui drôha, offesa, ingiuria, maledizione, druh (come sostantivo), un essere malvagio”. [14]
Se interpretiamo, come alcuni fanno, Cythraul e Drug con il parametro della morale, rischiamo di perderci nell’infinita serie di opposizioni di bene e male che la mente ci suggerisce. Se, al contrario, lo interpretiamo, come suggerisce il contesto delle Triadi bardiche, come la nostra paura, è possibile che riusciamo a trovare il senso vero dell’insegnamento triadico. Istinti ed emozioni consegnano alla nostra mente schemi da elaborare, opposizioni da valutare. La mente funziona così: aut, aut. Se la scelta tra il bene e il male, che ritroviamo in alcune triadi come possibilità dell’essere umano, fosse tra un bene e un male morale, ci ritroveremmo di fronte a scelte morali. Abbiamo però visto che il punto di libertà è una delle unità primitive. Nella prima triade, infatti, che non è prima a caso, ma introduce le altre, si legge: “Ci sono tre unità primitive e di ciascuna non se ne può avere che una sola: un Duw, una verità e un punto di libertà: dove si trova l’equilibrio di tutte le opposizioni”. Il punto di libertà non è dunque nella scelta tra due opposte concezioni morali, ma altro. Per sfuggire al male e abbracciare il bene non ci si deve opporre al male, ma lo si deve eludere, passando per lo stretto sentiero dell’equilibrio di tutte le opposizioni. Sfuggire al male, per andare verso il bene, significa non farsi intrappolare nel gioco perverso della mente che assume le nostre emozioni, le ipostatizza, le mette a confronto e dà loro un potere immenso. La radice del male è la paura. L’emozione della paura è la causa fondante del senso di colpa, dell’ansia e dell’angoscia. La paura ancestrale è quella della morte, il Drug (la droga) dell’essere umano al quale è stato detto che, essendo stato scacciato dall’Eden, è divenuto mortale. Perché è stato scacciato? Per aver disubbidito, aver peccato. Il peccato originale è la condanna perpetua alla paura e al senso di colpa. Il peccato originale, secondo la teologia cristiana, è ereditario, ovvero insito nella natura umana e solo un’operazione salvifica, il battesimo, delegata da Dio a uomini (i sacerdoti mediatori del divino), lo può togliere. In che cosa consiste il peccato originale? Nella Conoscenza. La mela è il frutto dell’albero della Conoscenza ed è la donna che ha convinto l’uomo a conoscere, condannandolo, così, alla mortalità. In controluce leggiamo il processo di entificazione dell’Essere, che si cala nella forma tramite l’azione della Mater per avviarsi lungo la via della Conoscenza. Il peccato di Eva è dunque, per la Bibbia, quello della Mater, di essere Mater.
E’ evidente che il rifiuto dell’eterno femminino è il vizio d’origine delle tre religioni del libro, ovvero dei monoteismi che si rifanno alla Bibbia. La cacciata dall’Eden non è il frutto di una colpa del femminile, ma è la conseguenza del manifestarsi dell’Essere, che si entifica nel campo delle forme, nella Mater. Il Codice, Campo Zero, diviene e si entifica nel molteplice; si traduce in energia, virgo, mater, materia, dando inizio ad un processo di conoscenza. Anche i simboli sono stravolti. Il serpente, simbolo dell’energia in azione, e la mela, simbolo della conoscenza (contiene simbolicamente il numero aureo, morfogeneticamente paradigmatico) assumono il valore del male. L’idea biblica dell’Eden e degli accadimenti in esso avvenuti è agli antipodi di quella delle Triadi bardiche, che ci trasmettono un itinerario di conoscenza non come punizione per un peccato, ma come strumento di elevazione e di partecipazione consapevole all’azione del Nascosto.
L’essere umano, pertanto, secondo questa impostazione teologica, nasce segnato e da solo non può liberarsi.
Qui ritroviamo Pelagio Britanno, il quale sosteneva, ben lontano da queste interpretazioni, che il peccato originale non esiste e che il battesimo ha il solo significato di appartenenza alla Chiesa. Secondo la teologia cristiana maggioritaria e dominante, in quanto religione dell’Impero romano, e pertanto ideologia del potere, il pelagianesimo, considerato un’eresia, riduceva la salvezza eterna a qualcosa di “controllabile” dalla libertà umana: magari anche un ideale di santità molto alto e difficile da raggiungere, ma che comunque avrebbe potuto essere conquistato dalla volontà dell’uomo. La dottrina teologica maggioritaria, invece, considerava l’uomo incapace, dopo il peccato originale di vivere appieno i doni di Dio senza l’ausilio decisivo della sua grazia. Pelagio inoltre negava la trasmissibilità a tutta l’umanità del peccato di Adamo (che secondo lui era mortale anche prima di commettere il peccato), motivandola col fatto che ciascuno è responsabile delle proprie azioni, non di quelle di un altro. Venivano così negati anche gli effetti del peccato originale sulla natura umana: era impossibile che l’anima creata da Dio, fosse caricata di un peccato non commesso personalmente.
Sulla stessa linea della teoria del peccato originale troviamo quella del giorno del giudizio universale. Dio, dopo aver creato anime già affette dal male originale, le giudicherà. La salvezza, ovviamente, può essere raggiunta attraverso la mediazione di caste sacerdotali, abili costruttrici di schemi dottrinari dualistici, che inducono costantemente la mente a occuparsi delle opposizioni e della scelta tra una posizione e l’altra e che detengono così il potere sulle anime. La confessione, da questo punto di vista, è un raffinatissimo strumento di potere. Peccato originale e sensi di colpa inculcati sin dall’infanzia creano costanti paure, ansie, angosce, che vengono tolte o ridotte alla sopportabilità dal fatto di consegnarle ad un altro, sedicente delegato da Dio, che se ne assume il carico attraverso il giudizio e l’assoluzione. Ovviamente, il Drug, la droga della paura e dei suoi derivati (senso di colpa, ansia, angoscia, ecc.) fa il gioco del Cythraul, del potere sugli esseri, costringendoli alla dipendenza. Le confessioni continue sono il segno evidente di una dipendenza drogata, che costringe l’umanità a rimanere soggetta alla legge di necessità e a non potersi liberare. L’umanità è così “gregge” custodito da un pastore. E il concetto di “gregge” rinvia immediatamente a quello di sfruttamento. Così come l’essere umano sfrutta gli animali del “gregge” (latte, lana, carne), il pastore degli esseri umani ne condiziona e sfrutta l’energia.
Cythraul e Drug hanno, dunque, degli ottimi alleati in campo.
Conquistare la libertà è, in primo luogo, diventare un “egregio”, uscire dal gregge e dai condizionamenti del pastore.
Il Gwynfyd
La libertà è andare oltre la mente, oltre gli schemi, oltre la paura, oltre le credenze che suscitano senso di colpa; oltre l’idea di avere un peccato originale che ci rende pecore bisognose di un pastore e prenderci pienamente la responsabilità della nostra vita, della nostra migrazione in Abred, per andare in Gwynfyd, là dove ritroveremo pienamente il nostro awen originario.
Brighit è la signora di Gwynfydd, l’Altro Mondo, il Mondo Bianco, il mondo non materiale nel quale gli esseri usciti da Abred, superata la legge di necessità, proseguono, eternamente e mantenendo la loro individualità, il loro percorso di conoscenza. Gwynfydd è il luogo della Grande Madre dei viventi, Sophia, la Conoscenza in pienezza, Brighit, la Vacca di Luce, Bo-Vinda, la Scrofa Bianca, ovvero la Dea nella sua accezione di Vasto di Verità. Le Triadi bardiche lo descrivono in modo chiaro.
XXXI triade: “Tre elementi principali di Gwynfydd: assenza di male, assenza di bisogni, assenza di morte”.
XXXII triade: “Tre cose che saranno restituite nel cerchio di Gwynfyd: l’awen primitivo, l’amore primitivo e la memoria originarie; poiché senza quelli non si può avere la felicità”.
XXXV triade: “Dalla conoscenza di tre cose risulteranno l’annientamento e la vittoria su tutti i mali e sulla morte: della loro propria natura, della loro causa e del loro modo d’azione; e questa conoscenza sarà ottenuta nel cerchio di Gwynfyd”.
XXXVI triade: “I tre poteri della scienza: compiere la trasmigrazione attraverso ciascuno stato della vita, ricordarsi del passaggio per ciascuno stato e dei suoi incidenti, e poter passare a volontà per uno stato qualsiasi, in ragione dell’esperienza e del giudizio. E ciò sarà ottenuto nel cerchio di Gwynfyd”.
XXXVII triade: “Tre caratteristiche di ciascun essere vivente nel cerchio di Gwynfydd: la vocazione, il privilegio e l’awen. Non è possibile che due esseri siano identici da tutti i punti di vista; ci sarà una pienezza per ciascuno per ciò che riguarda la sua peculiarità; e non c’è pienezza d’una cosa senza comprendere tutto ciò che può essere in realtà”.
XL triade: “Tre vantaggi eccellenti del cambiamento di stato nel Gwynfydd: l’istruzione, la bellezza e il riposo; a causa dell’impotenza di sopportare il Ceugant, che è al di là di tutte le conoscenze”. XLV triade: “Le tre pienezze di Gwynfydd: partecipare di tutte le qualità con una perfezione originaria; possedere tutti gli awen con un awen predominante; amare tutti gli esseri con un amore in prima linea, conoscere l’amore di Duw. E’ in queste tre cose che consiste la pienezza del cielo e di Gwynfyd”.
Le trasmigrazioni in Abred e la loro fine con il passaggio in Gwynfyd trovano una rappresentazione simbolica nella spirale, ovvero nel Caer Sidhi, il castello a spirale che conduce all’Altro Mondo e nell’antico gioco dell’oca, che si svolge anch’esso secondo un percorso a spirale, con avanzamenti, arretramenti, possibili ritorni all’inizio. Un percorso a spirale che conduce alla fine al Paradiso dell’Oca, ossia nel Mondo Bianco. E l’oca è animale, come il cigno, associato a Brighit.
Brighit, l’Eccelsa, è la forma della Dea che ne evidenzia la funzione di manifestazione dell’Origine secondo una Regola che è l’esplicitazione di un ordine implicito e, al contempo, è la Parola creatrice, la Luce del Mondo Bianco.
Brighit, dunque, è la forma della Dea più prossima all’Origine e in quanto tale è una delle divinità più importanti del pantheon druidico.
Essendo Brighit una divinità che ha sussunto sincreticamente, nel corso dei secoli, molte funzioni, non ne affronteremo tutti gli aspetti. Sarebbe impresa ardua e non risolvibile nell’economia di questo scritto. Ne affronteremo, in particolare, il significato originario, che troviamo riproposto, magistralmente, nella sua declinazione cristiana di Santa Brigida, definita balia di Gesù il Cristo, ove quella che sembrerebbe una banale e grossolana interpretazione e falsificazione di un tardo esegeta cristiano, intento a mascherarne l’identità, si rivela invece un’abile riaffermazione del carattere originario della Dea. La balia è colei che dà il latte a Gesù, ossia al Logos (il vedico Rita), così come Brighit, Bo Vinda, la Vacca di luce, dava il suo latte-luce al mondo. Troviamo già qui l’inscindibile rapporto tra Briat e Rita, ossia tra la Vacca di luce e il logos. Brighit, in quanto divinità sincretica, ha portato dentro di sé le antiche caratteristiche della Dea Madre del Neolitico, che ritroviamo diffusa in tutto il mondo antico, dal Mediterraneo all’India, si è confrontata con il mondo egizio, con quello greco e con quello romano, con le influenze norrene e ha poi rivestito, nei panni di Santa Brigida, un importante ruolo anche in epoca cristiana. Tuttavia, è al mondo ario che dobbiamo guardare per trovare il significato originario della Dea. Un mondo dove troviamo la radice indoeuropea Br, che troviamo neutra nel vedico Brahman, declinata al maschile in Brahma e al femminile, appunto, nella celtica Brighit.
Torniamo, avviandoci alla fine di questa riflessione, al nostro ordito, ossia a Martin Buber, il quale scrive che ci sono il pensiero, la parola, l’azione. “Bisogna che l’uomo si renda conto innanzi tutto lui stesso – scrive Buber – che le situazioni conflittuali che l’oppongono agli altri sono solo conseguenza di situazioni conflittuali presenti nella sua anima, e che prima deve sforzarsi di superare il proprio conflitto interiore per potersi così rivolgere ai suoi simili da uomo trasformato, pacificato, e allacciare con loro relazioni nuove, trasformate. […]. Il punto di Archimede a partire dal quale posso da parte mia sollevare il mondo è la trasformazione di me stesso. […]. Ogni conflitto tra me e i miei simili deriva dal fatto che non dico quello che penso e non faccio quello che dico”.
Il “gnothi seauton” ritorna a ricordare che quel che conta è conoscere se stessi e il proprio Sé.
Come fare a uscire dalle illusioni e dallo sfacelo interiore. Per Buber, che ci riferisce la saggezza chassidica, c’è una sola strada: “Capire la svolta – tutto dipende da me – e volere la svolta – voglio rimettermi in sesto. Ma per essere all’altezza di questo grande compito, l’uomo innanzitutto, al di là della farraggine di cose senza valore che ingombra la sua vita, deve raggiungere il suo sé, deve trovare se stesso, non l’io dell’individuo egocentrico, ma il sé profondo della persona che vive il mondo”.
Infine, Martin Buber, nei suoi racconti relativi ai maestri chassidici, narra che Rabbi Eisik, figlio di Rabbi Jekel di Cracovia, ricevette in sonno l’ordine di andare a Praga per cercare un tesoro sotto il ponte che conduce al palazzo reale.
Il sogno si ripeté per tre volte e Rabbi Eisik si recò a piedi a Praga.
Il ponte era sorvegliato dalle guardie e visto che Rabbi Eisik girava attorno al luogo, il capitano delle guardie gli chiese cosa volesse.
Rabbi Eisik raccontò il sogno.
Il capitano delle guardie si mise a ridere e disse che non bisognava fidarsi dei sogni.
“Anch’io – aggiunse – avrei dovuto mettermi in cammino per obbedire a un sogno e andare fino a Cracovia, in casa di un ebreo, un certo Eisik, figlio di Jekel, per cercare un tesoro sotto la stufa”.
Eisik tornò a casa e sotto la stufa dissotterrò il tesoro con il quale costruì una sinagoga.
Fidarsi dei sogni è accettare che il nostro inconscio, al centro del quale dimora il Sé, ci possa inviare messaggi che abbiano un fondamento e divenire consapevoli che non esiste solo la mente razionale, con i suoi discorsi, ma anche l’intelletto intuitivo, che sa intus legere, ossia leggere dentro, in profondità, dando così il giusto spazio alla ragione e all’intelligenza, il cui codice comunicativo è quello dei simboli.
Tutto è giusto e perfetto per Rabbi Eisik, in quanto all’accettazione è conseguita la consapevolezza. Non è stato così per il capitano delle guardie, che si è consegnato alla razionalità, negandosi la possibilità di scoprire un tesoro.
Rabbi Eisik ha accettato il messaggio del sogno e grazie a questo ha trovato, sotto la stufa di casa sua, che da un punto di vista simbolico può essere interpretato come l’ardore interiore, la consapevolezza che il tesoro è nascosto dentro di sé.
V.I.T.R.I.O.L. Visita interiora terrae rectificando invenies occultum lapidem: il Sé.
Commenta Buber: “C’è una cosa che si può trovare in un unico luogo al mondo, è un grande tesoro, lo si può chiamare il compimento dell’esistenza. E il luogo in cui si trova questo tesoro è il luogo in cui ci si trova”.
Il luogo in cui ci si trova è il nostro luogo interiore, là dove dimora il Sé, ma è anche il luogo dove siamo fisicamente e dove ci relazioniamo agli altri.
Accettare di essere dove si è costituisce l’elemento essenziale della consapevolezza, che è esame di realtà, verifica, relazione con il luogo stesso e con chi lo frequenta. Verifica interiore, verifica esteriore.
“Secondo il Baal Shem – commenta ancora Buber – nessun incontro, con una persona o una cosa, che facciamo nella vita è privo di significato segreto”.
Accettare l’incontro è elemento essenziale per indagare il segreto di quell’incontro, nella consapevolezza che un segreto c’è. Niente è senza senso e il senso va sempre ricercato, perché il senso è orientamento, è tendere all’Oriente, al chiarore della Luce; è avere la direzione del cammino.
E forse il segreto più grande è nel modo con il quale viviamo l’incontro.
“La più alta cultura dell’anima – commenta sempre Buber – resta profondamente arida e sterile, a meno che da questi piccoli incontri, a cui noi diamo ciò che spetta, non sgorghi, giorno dopo giorno, un’acqua di vita che irriga l’anima”.
Tutto è giusto e perfetto quando si accetta di cercare il tesoro nascosto dentro di sé e si vive l’incontro con il luogo e con chi lo frequenta consapevolmente, producendo acqua di vita che irriga l’anima, ossia quando si forma una relazione di autentica fratellanza.
[1] Adolphe Pictet, Le mystère des bardes de l’ile de Bretagne ou la doctrine des bardes gallois du moyen age sur dieu, la vie future e la trasmigration des ames, Joel Cherbuliez, librarie éditeur – Genève-Paris, 1856
[2] Adolphe Pictet, Le mystère des bardes de l’ile de Bretagne ou la doctrine des bardes gallois du moyen age sur dieu, la vie future e la trasmigration des ames, Joel Cherbuliez, librarie éditeur – Genève-Paris, 1856
[3] Ed.Panchaud, Le druidisme ou religion des anciens gaulois, Losanna, 1865
[4] Eugen Fink, Le domande fondamentali della filosofia, Donzelli editore
[5] Martin Heidegger, Eugen Fink, Eraclito, Laterza
[6] Martin Heidegger, Eugen Fink, Eraclito, Laterza
[7] Martin Heidegger, Eugen Fink, Eraclito, Laterza
[8] Adolphe Pictet, Le mystère des bardes de l’ile de Bretagne ou la doctrine des bardes gallois du moyen age sur dieu, la vie future e la trasmigration des ames, Joel Cherbuliez, librarie éditeur – Genève-Paris, 1856
[9] Adolphe Pictet, Le mystère des bardes de l’ile de Bretagne ou la doctrine des bardes gallois du moyen age sur dieu, la vie future e la trasmigration des ames, Joel Cherbuliez, librarie éditeur – Genève-Paris, 1856
[10] Adolphe Pictet, Le mystère des bardes de l’ile de Bretagne ou la doctrine des bardes gallois du moyen age sur dieu, la vie future e la trasmigration des ames, Joel Cherbuliez, librarie éditeur – Genève-Paris, 1856
[11] Ed.Panchaud, Le druidisme ou religion des anciens gaulois, Losanna, 1865
[12] Bertholet, La reincarnazione, Ed. Mediterranee
[13] Adolphe Pictet, Le mystère des bardes de l’ile de Bretagne ou la doctrine des bardes gallois du moyen age sur dieu, la vie future e la trasmigration des ames, Joel Cherbuliez, librarie éditeur – Genève-Paris, 1856
[14] Adolphe Pictet, Le mystère des bardes de l’ile de Bretagne ou la doctrine des bardes gallois du moyen age sur dieu, la vie future e la trasmigration des ames, Joel Cherbuliez, librarie éditeur – Genève-Paris, 1856