©Silvano Danesi
Presente nei Tarocchi Brambilla (1442-47) e Visconti Sforza (1450-51), ossia nelle lame più antiche, la Ruota della Fortuna ha acquisito un posto fisso nei mazzi successivi, occupando la decima lama.
Da sinistra: la Ruota della Fortuna ( Albrecht Dürer Xilografia, 1494) – Tarocchi Marsiglia – Tarocchi Dick 10 – Ferraresi
Nelle varie immagini, sulla ruota si alternano uomini e animali e questa alternanza trova il suo fondamento, come vedremo in seguito, nella tradizione druidica e nella mitologia greca.
La Ruota, anzitutto, introduce il tema della peregrinatio che la collega alle Triadi bardiche e al viaggio intrapreso da ogni essere vivente nell’attimo della sua emanazione dall’origine.
Le Triadi bardiche, pubblicate da Iolo Morganwug (1747-1826) sono state prese da una collezione di manoscritti di Llywelyn, bardo di Glamorgan, redatti intorno al 1560 sono state riproposte in edizione francese da Adolphe Pictet[1].
“La società bardica di Glamorgan – scrive in proposito Jean Reynaud – a volte potente, a volte ridotta pressoché a nulla, e, secondo la fortuna degli avvenimenti, a volte racchiusa nell’ombra e nel silenzio, a volte tollerata e manifestantesi apertamente, non ha cessato di formare uno stelo sistematicamente radicato nelle più lontane profondità del passato. La rivoluzione francese le ha donato il segnale di ricomparire. Nel 1792, Eduard Williams, che occupava allora la sede di Taliesin, pubblicò, di concerto con Owen Pugha, le opere di Llwarch-Hèn, con un’introduzione ampia nella quale dava conto della successione druidica durante il Medioevo. «Nei vent’anni che seguirono la morte dell’ultimo Llewelyn[2], disse Davies, un certo numero di membri si riunirono per stabilire nella contea di Glamorgan una sede, o, altrimenti detto, un collegio bardico, il quale ha resistito fino ai nostri giorni. Si dona l’elenco dei presidenti e dei membri del collegio, da Trahaearn-Bryddyd-Mawr, che fu il primo presidente fondatore nel 1300, fino ad oggi, M. Williams. Si dice inoltre che, nel XVI secolo, alcuni membri iniziarono a far collezione delle conoscenze, delle tradizioni e delle leggi dell’Ordine e che queste collezioni furono riviste e ratificate nel XVII secolo, e che sono ancora attualmente percepite come la regola fondamentale della società» (Myth and rit). Questa rivelazione inattesa fu per il clero anglicano come la testa dell’Idra. Non si trovò alcun inconveniente a che la tradizione dei druidi fosse proseguita durante il periodo dell’indipendenza della Gallia; ma sembrò increscioso l’essere obbligati a riconoscere che essa avesse resistito all’azione della sovranità dell’Inghilterra, e soprattutto che dei princìpi così capaci di risvegliare l’amore dell’indipendenza politica e religiosa osassero riprendere autorità”. [3]
Nel XVI secolo, in Francia “si andò affermando una specie di revival del passato celtico. Gli umanisti francesi preferivano il re dei Galli Vercingetorige al suo avversario Cesare, e iniziarono a studiare la filosofia dei druidi. Nel suo poema, la Galliade (1578), Guy Lefèvre de la Boderie sosteneva che l’antica Gallia fosse stata l’autentica culla delle arti e della scienza e che i suoi fasti fossero destinati a rivivere allora”. [4]
I temi del celtismo riaffiorante sono riscontrabili anche in alcuni artisti italiani, come Bonifacio Bembo, autore dei Tarocchi Visconti e illustratore di un romanzo arturiano e Pisanello che, negli affreschi di una sala realizzati a Mantova, illustrò le avventure dei cavalieri di Artù.
Le otto Triadi bardiche più antiche conosciute sono state messe per iscritto nel XII secolo. Quelle riproposte dal Pictet nella sua traduzione in francese del testo gaelico riguardano gli stati dell’essere e il rapporto tra il divino e l’umano.
In particolare, nelle Triadi bardiche che si occupano di Abred, ossia del ciclo delle migrazioni e delle sue caratteristiche, leggiamo (triade XVIII): “Tre calamità originarie d’Abred: la necessità, la perdita di memoria, la morte”. La triade XIX ci dice come la trasmigrazione in Abred sia una delle condizioni per la pienezza della scienza: “Ci sono tre condizioni necessarie per arrivare alla pienezza della scienza: trasmigrare nell’Abred [cerchio della migrazione, ndr], trasmigrare nel Gwynfyd [il mondo bianco, ndr] e ricordarsi di tutte le cose fino all’Annwn” [il mondo infero dell’incarnazione, ndr]. La triade XX è quella che introduce il concetto di trasgressione della legge di necessità: “Tre cose inevitabilmente legate alla condizione di Abred: la trasgressione della legge [di necessità], poiché non può essere altrimenti; la liberazione dalla morte in presenza di Drwg [il male, ndr] e Cythraul [la coazione a ripetere, ndr]; l’accrescimento della vita e del bene per allontanamento di Drwg nella liberazione dalla morte; e ciò per l’azione di Duw [il Divino, ndr] che abbraccia ogni cosa”. La triade XXI recita: “Tre modi efficaci di Duw, nell’Abred, per dominare Drug e Cythraul, e liberarsi di essi rispetto al cerchio di Gwynfydd: la necessità, la perdita della memoria e la morte”. La triade XXV descrive i motivi per cui l’uomo cade sotto la legge di necessità : “Per tre cose l’uomo cade sotto la necessità di Abred: per l’assenza di sforzo verso la conoscenza, per il non attaccamento al bene e per l’attaccamento al male; ossia, per queste cose egli discende nell’Abred fino al suo analogo, ed egli trasmigra di nuovo come prima”. La triade XXVI elenca i motivi del ritorno in Abred: “Per tre cose l’uomo ridiscende necessariamente nell’Abred, sebbene da tutti gli altri punti di vista si sia legato a ciò che è buono: per l’orgoglio fino all’Annuwn, per la falsità, fino al punto di demerito equivalente e, per la mancanza di carità, fino al grado equivalente di animalità. Da là egli trasmigra di nuovo verso l’umanità come prima”. Infine la triade XLI annuncia la distruzione finale di Abred: “Tre cose si accrescono continuamente: il fuoco o la luce, l’intelligenza o la verità e lo spirito o la vita. Queste cose finiranno con il predominare su tutte le altre e allora Abred sarà distrutto”.
Abred, dunque, è il cerchio delle trasmigrazioni, delle esperienze dell’essere, dell’incontro con la legge di necessità e con il male inteso come condizionamento degli schemi della mente e al contempo della possibilità della liberazione, con la trasgressione alla legge di necessità.
Abred è il cerchio delle molteplici esperienze dei vari stati dell’essere nella materia, così come sono mirabilmente descritti nelle poesie di Taliesin e di Amergin.
Abred è la grande scuola di vita e della trasformazione, dell’apprendimento diretto esperienziale della molteplicità nella quale il Codice si determina e della ciclicità della vita stessa.
Abred può ben essere associato alla Dea Madre Universale nella sua forma di Morrigan, dea della trasformazione continua e anche della guerra, intesa in senso eroico, ovvero come capacità di superamento delle prove. Morrigan è la Dea nella sua affascinante femminilità travolgente, simile al grande mare dell’inconscio; è la dea delle emozioni, del sangue e della carne, della vita in tutte le sue espressioni. Morrigan è la dea che accompagna gli esseri umani nelle migrazioni e ne stimola la trasformazione. Morrigan è il solve del germe di luce pietrificato (aurum nella pietra-Ker) in Annwfn come germe materiale; è il solve del germe nella forma che avvia il percorso esperienziale della vita.
Il ritorno all’animalità corrispondente
La peregrinazione può concludersi con un successo esperienziale, con il superamento delle prove, ma anche con un insuccesso che riporta l’essere umano a ricadere sotto la legge di necessità, a ripercorrere cammini già percorsi e ad affrontare prove non superate.
In uno dei mazzi più antichi, il Dick10, della corte ferrarese, databile intorno al 1500, così come nei Tarocchi marsigliesi, sulla Ruota della Fortuna si alternano esseri umani ed animali e questo tema ci riconduce al tema della Triade XXVI che elenca i motivi del ritorno in Abred: “….per l’orgoglio fino all’Annuwn, per la falsità, fino al punto di demerito equivalente e, per la mancanza di carità, fino al grado equivalente di animalità. Da là egli trasmigra di nuovo verso l’umanità come prima”.
L’orgoglio, difetto fondamentale, porta a tornare all’inizio del percorso. Altro difetto fondamentale è la falsità. Il terzo difetto è la mancanza di carità.
I tre difetti sono relativi alla relazione.
L’orgoglio impedisce di relazionarsi con gli altri e con la realtà. La falsità ci impedisce di essere veri, anche con noi stessi. La mancanza di carità, di essere capaci di occuparci degli altri.
Il nostro cammino in Abred, inficiato dai tre difetti fondamentali, diviene inutile.
Nel mondo celtico e druidico non esiste il concetto di peccato, ma di incapacità ad essere all’altezza del proprio compito, della prova, della realtà.
I concetti espressi nelle Triadi li troviamo, declinati in forme stilisticamente relative al Nuovo Testamento, nella ritualità massonica.
Giordano Bruno e gli animali di Circe
Il concetto di animalità corrispondente lo ritroviamo nel testo di Giordano Bruno “Il canto di Circe” (Bur) laddove si legge:”Circe invoca gli dèi affinché le sia «possibile stringere in un vincolo gli spiriti che amministrano e dispensano le figure, perché questi, sia pure contro la loro volontà, facciano emergere nella piena luce e (via via che si ritrae la mentita sembianza di un uomo) da occulti che erano rendano finalmente visibili i lineamenti nascosti di un altro genere di esseri viventi». Circe: «Si allontanino, si allontanino – giacché anche noi lo abbiamo proibito – i volti umani dalle bestie».
Meri: «Mirabile a vedersi, Circe, mirabile a vedersi: di tanti uomini che prima potevamo vedere, solo tre o quattro sono rimasti tali, e questi corrono tremanti a mettersi al sicuro. Tutti gli altri, alcuni dei quali si rifugiano nelle caverne più vicine o volano verso i rami degli alberi o si gettano a precipizio nel mare vicino mentre altri di indole più domestica si avvicinano in fretta alla nostra dimora, vedo che sono stati trasformati in animali di diverso genere».
Circe: «Dì piuttosto che solo adesso hanno esplicato e reso visibili le forme che erano loro proprie».
Il concetto è presente anche in Platone, nella Repubblica, quando si narra del mito di Er.
L’interprete del dio dice: «Parola della vergine Lachesi, figlia di Necessità. Anime caduche, eccovi giunte all’inizio di un altro ciclo di vita di genere mortale, in quanto si conclude con la morte. Non sarà il demone a scegliere voi, ma voi il demone. Il primo estratto sceglierà per primo la vita alla quale sarà tenuto di necessità. Non ha padroni la virtù; quanto più ciascuno di voi l’onora tanto più ne avrà; quanto meno l’onora, tanto meno ne avrà. La responsabilità, pertanto, è di chi sceglie. Il dio non ne ha colpa». Ciò detto, egli gettò in mezzo a tutti le sorti e ognuno raccolse quella che gli era caduta vicino; tutti, tranne Er a cui non fu concesso. Raccolta la sorte, fu noto il posto che a ciascuno spettava. A tal punto, di nuovo il sacerdote dispose per terra, dinanzi a loro, i paradigmi delle vite, molti più di quanti fossero i presenti. Ce n’erano di ogni tipo: vite degli esseri animati e vite umane, di ogni specie».
La scelta dipendeva perlopiù dalle vicende della vita precedente.
Er riferì «di aver visto l’anima che un tempo fu di Orfeo scegliere la vita di un cigno…… e anche l’anima di Tamiri scegliere la vita dell’usignolo».
Nel Kore Kosmou le anime più nobili entrano in corpi di re giusti, filosofi autentici, indovini veritieri, bravi erboristi, ecc.
Se poniamo attenzione ai pitagorici, frammenti superstiti dell’opera di Empedocle descrivono come ‘al fine’, appena prima che il processo di divinizzazione sia completo, le anime nella loro ultima incarnazione diventino ‘principi’, ‘indovini’ e ‘guaritori’».[5]
In Bruno, in Platone, nel Kore Kosmou e nella filosofia pitagorica, così come nelle Triadi bardiche, la Ruota della Fortuna riguarda il destino delle anime che si incarnano nelle successive vite e riguarda, pertanto, il karma, ossia l’azione, l’esperienza che le anime scelgono o sono indotte a scegliere sulla base delle esperienza precedenti.
La ruota dei Chierici vaganti livella delle alterne fortune
La Ruota della Fortuna occupa una posizione centrale nei Carmina Burana, corpus di testi poetici medievali dell’XI e XII secolo, prevalentemente in latino, tramandati da un importante manoscritto contenuto in un codice miniato del XIII secolo, il Codex Latinus Monacensis 4550 o Codex Buranus, proveniente dal convento di Benediktbeuern (l’antica Bura Sancti Benedicti, fondata attorno al 740 da San Bonifacio nei pressi di Bad Tölz in Baviera). Il codice è custodito nella Bayerische Staatsbibliothek di Monaco di Baviera.
La Ruota della fortuna nei Carmina Burana
Nei Carmina Burana la Ruota della Fortuna è una livella della storia e della natura, cosicché chi è in alto viene avvertito che potrebbe cadere in basso e chi è in basso che potrebbe salire in alto. La Fortuna, volgendo continuamente la sua ruota innalza e prostra gli individui.
“O Varium Fortunae lubricum, dans dubium tribunal iudicum, non modicum pare huic premium, quem colere tua vult gratia et petere rota sublimia, dans dubia tamen, prepostere de stercore pauperem erigens de rethore consulem eligens”.
(“O Fortuna mutevole ed alterna, tu pronunci sentenze contrastanti, offri ricchi premi a chi è protetto dal tuo favore e lo fai salire al sommo della ruota; poi, mutando le tue incerte decisioni, sollevi il povero dal fango e trasformi il retore in un console”).
La poesia dei “Chierici Vaganti” o “Minnesanger”, stretti parenti dei bardi e dei trovatori, rispecchia la vita dei “Goliardi” o “Cantori d’amore”, che declamavano le doti della giovinezza e gli avvenimenti dell’amore più nobile e puro.
Scritti da poeti operanti in Francia, in Germania ed in Inghilterra nel XII e XIII secolo, tali componimenti ebbero profonde radici religiose, ma nello stesso tempo si distinsero per il loro spensierato spirito dissacratore e per il loro senso ironico nei confronti del clero contemporaneo.
“Fortuna rota volvitur: descendo minoratus; alter in altum tollitur; nimis exaltatus rex sedet in vertice –
caveat ruinam! Nam sub axe legimus Hecubam reginam”.
(“La ruota della Fortuna gira continuamente: scendo sempre più in basso mentre un altro viene innalzato; un nuovo re siede sul trono, sollevato sopra tutti: Stia attento a non cadere! Sotto la ruota troviamo infatti Ecuba, la regina”).
Una celebre canzone del Carmina Burana esalta Venere, dea della bellezza e dell’amore.
“Ave bellissima gemma preziosa, ave onore delle vergini, vergine gloriosa,
Ave astro del mondo, ave rosa del mondo, bianco fiore ed Elena, nobile Venere.
Stella del mattino, colei che le terrestri cose guida e le celesti.
Tu dai nell’erba le viole e rose nelle spine, salute e gloria a Te sia o guaritrice…”.
Jacques Le Goff vede nei Carmina Burana l’abbozzo di una morale naturale, la negazione degli insegnamenti della Chiesa e della morale tradizionale. “Il goliardo non fa forse parte – si chiede – della grande famiglia dei libertini che, al di là della libertà dei costumi e della libertà del linguaggio, mirano alla libertà dello spirito?”. [6]
Ed è la libertà dello spirito, il riferimento a Venere, alla rosa, al fiore che rivela, nei Canti Goliardici e nei Chierici Vaganti l’influenza dei Fedeli d’Amore, dediti al culto della Sapienza.
La Ruota della Fortuna gira e l’opprimente imperio dei papi e dei re lascerà il passo alla libera ricerca della verità.
[1] Adolphe Pictet, Les mistère des bardes de l’ile de Bretagne, Ginevra, 1856
[2] Il nome deriva dall’antico nome Lugubelinos,che era il composto del nome di due divinità celtiche Lug e Belenus.
[3] Jean Reynaud, L’ésprite de la Gaule, Firne ed. Paris, 1864
[4] Arturo Carlo Quintavalle, Storia Universale, Ed. Corriere della Sera
[5] Vedi Peter Kingsley, Misteri e magia nella filosofia antica, Saggiatore.
[6] Jaques Le Goff, Gli intellettuali nel Medioevo, Saggi Mondadori