di Silvano Danesi
“Il passato può essere dimenticato,
ma non muore mai.
Gli elementi entrati a far parte delle caratteristiche di una nazione in tempi remoti
resistono attraverso la sua storia
contribuendo a modellarla e a determinarne il carattere e lo spirito di quel popolo”.
T.W.Rolleston, I miti celtici, Longanesi
Un interessante racconto, riguardante Mosè e il Rabbi Akiba, riportato da Scholem e citato in un libro di Paolo Zellini, ci indica la via della comprensione del rapporto tra i miti, i riti, gli archetipi, i simboli, ossia la conoscenza tradizionale e la scienza.
Mosé riceve da Dio la Torah scritta con lettere ornate da infiniti riccioli e corone. Per ogni ricciolo, gli dice Dio, Akiba avrebbe formulato, un giorno, innumerevoli dottrine. Mosè chiede di conoscerle e come d’incanto si trova in ottava fila, assieme agli allievi di Akiba, nell’aula dove il rabbino insegna. Mosè non capisce nulla di quello che Akiba insegna, ma si consola quando gli scolari chiedono al rabbino per quale via egli fosse giunto ad affrontare una certa questione e questi risponde che si tratta di una dottrina consegnata a Mosé sul monte Sinai.
“Qui – commenta Paolo Zellini – sta tutto il senso della tradizione, della continua ripresa di sapienze antiche secondo formulazioni più avanzate e suscettibili di diventare nuova sapienza”. [1]
Oggi, molte intuizioni degli antichi filosofi sono avvalorate dalla scienza, come se nelle antiche sapienze ci fossero delle capsule di conoscenza che si svelano nel tempo, con il progredire della conoscenza.
Il mito ha anche un risvolto psichico importante per ognuno di noi.
Ognuno di noi, infatti, secondo Campbell, ha “un proprio mito individuale, che lo sappia oppure no”[2] e in effetti “l’individuo deve imparare a vivere secondo il proprio mito”. [3]
“L’intera concezione degli archetipi della psiche umana – sostiene il grande l’antropologo – si basa sulla nozione che nel cervello umano, nel sistema nervoso simpatico, ci siano strutture che creano la predisposizione a rispondere a certi segnali. Sono strutture condivise da tutta l’umanità, con variazioni individuali, ma essenzialmente allineate”. [4]Tuttavia, ognuno di noi ha “i propri favoriti; ognuno è pronto a un’esperienza diversa rispetto a chiunque altro. I simboli, per cui siamo già pronti, evocano in noi la risposta”.[5]
Il Green Man e il mito della Testa
Riguardo a queste sapienze antiche, che ci giungono in veste mitologica e archetipica, vorrei in questo articolo porre l’attenzione in particolare su quella del Green Man che, come specifica Federico Gasparotti[6], è una tarda riproposizione simbolica di un archetipo (la Testa) evidenziatasi nel XII secolo e “fiorita” tra il XIII e il XVII secolo.
Il Green Man è la “Testa”, ossia il “puro pensiero”, il “progetto”, che ritroviamo simbolicamente e diffusamente presente nella mitologia celtica.
L’esempio più significativo è quello di Bran, il quale, per “la tradizione gallese – scrive in proposito l’amico Riccardo Taraglio[7] – è il dio dell’Altro Mondo ….Nel poema Cad Goddeau (“Il combattimento degli Arbusti”) il bardo Taliesin lo rappresenta con l’Ontano. Un’altra denominazione del dio è Bran il Benedetto, figlio di Llyr e fratello di Manannan. Bran è un dio eroe gigantesco che possiede un calderone in grado di ridare la vita ai guerrieri morti in battaglia, ed è talmente enorme che se si corica fra due rive di fiume fa da ponte alla sua intera armata e per la sua stazza è impossibile reperirgli una cavalcatura. Ma le sue dimensioni hanno anche un lato positivo: infatti, quando i suoi compagni si trovano a dover attraversare l’oceano durante una spedizione, egli trascina le loro barche dietro di sé. E’ un dio solare legato alla profezia, agli scritti e alla musica, ma anche alla guerra e ai capi. I suoi simboli sono la terra e la montagna che lo rappresentano e sono posti sotto la sua protezione”.[8] La sua storia, ricorda ancora Riccardo Taraglio, viene narrata nel Secondo ramo dei Mabinogion e racconta le sue avventure iniziate al momento in cui concede in sposa al re d’Irlanda Matholwch sua sorella Branwen, che però deve subire un’impensabile mancanza di rispetto. Bran organizza quindi una spedizione armata, ma durante uno scontro egli viene ferito ai piedi con un colpo mortale da una lancia avvelenata e il suo calderone si infrange. Il dio chiede ai sette compagni sopravvissuti di tagliarli la testa e seppellirla sotto la Collina bianca (oggi Tower Hill di Londra) perché sia in grado di proteggere il regno da futuri invasori. La testa, prima di essere interrata, continua a parlare ai suoi compagni e li guida verso un’isola misteriosa, dove la Compagnia della Nobile Testa trova rifugio per ottant’anni. Il tempo passa senza che nessuno dei guerrieri in preda ad una strana gioia si accorga di nulla e solo quando uno di loro apre una porta dimenticata che guarda verso Ovest si ricordano della loro mortalità. “Fu solo allora che alcuni di loro, fra i quali Taliesin, portarono la testa meravigliosa alla Collina bianca, dove venne seppellita”.[9]
Un altro esempio è la testa del re Conair (in “La distruzione dell’Ostello di Da Darga”, Lebor na hUidre, 1100 circa e Libro giallo di Lecan, XIV secolo[10]), il quale muore per arsura. La sua testa, staccata dal corpo, dopo che gli è stata versata in gola “l’acqua della coppa”, canta: “Grand’uomo Mac Cecht!/Benvenuto, Mac Cecht!/Porta da bere a un re/Agisce bene”.
Ritroveremo la testa mozzata, in questo caso di San Giovanni Battista, nel piatto della leggenda del Graal[11] nella narrazione di Chrétien de Troyes.
Il Green Man è, come scrive Federico Gasparotti, “l’Anima Naturale”(alla quale si relaziona l’Homo Selvaticus in quanto “Natura Animale”, la messa in opera del puro pensiero) e riconduce all’archetipo basco del Jakin (non a caso egli è anche Jack in the Green), che significa sapere: Jakinde è conoscenza[12]e Jakindea scienza in generale. [13]
Nel mio “Tu sei Pietra” ho evidenziato il collegamento semantico tra Jakin, Jaques e Giacomo. I costruttori celti si chiamavano tra loro Enfants de Maître Jaques, ossia, potremmo aggiungere, i Figli dei Maestri Jakin, i sapienti dei Baschi, e il cammino di Saint Jaques de Compostele, già percorso dai pellegrini in epoca precristiana, è il cammino degli Jacques, degli Jakin, ovvero di coloro che sanno.
L’Uomo Selvatico, da non confondere con il Green Man, è nuvola archetipica dalle molteplici sfaccettature e ci riconduce al basco Basjun, il Bassa Jaun[14], il Signore dei Boschi, divinità di collegamento tra il mondo degli dei e quello degli uomini.
Nella sua Histoire de Basques, Augustin Chaho scrive: “L’immaginazione dei Baschi, aiutata dalle reminiscenze confuse dei paesi che i primi Euskariens hanno abitato, non ha mancato di popolare i Pirenei di esseri misteriosi e bizzarri, che servono da legami superstiziosi tra la creazione materiale e visibile e il mondo fantastico delle larve e degli spiriti. Il più popolare di questi miti pirenaici è il Signore selvaggio (Bassa Jaon), sorta di mostro dall’aspetto umano, che i Baschi mettono al fondo del nero abisso, o nella profondità della foresta. La taglia del Bassa Jaon è alta, la sua forza prodigiosa; tutto il suo corpo è coperto di un lungo pelo liscio, che sembra ad una capigliatura; cammina all’inizio come l’uomo, con un bastone alla mano e supera i cervi in agilità. Il viaggiatore che accelera la sua marcia nelle valli o i portatori che riuniscono le loro greggi all’approssimarsi di un temporale, si sentono chiamare con il loro nome ripetuto da collina a collina; è il Bassa Jaon. Degli urli strani si mescolano con il mormorio dei venti e ai gemiti sordi dei boschi al primo lampeggiare del fulmine; è ancora il Bassa Jaon! Un nero fantasma, illuminato dal chiarore improvviso, si erge nel mezzo degli abeti o si accoccola su qualche tronco d’albero decrepito, spostando i lunghi crini tra i quali brillano i suoi occhi scintillanti, Bassa Jaon! Il cammino di un essere invisibile si fa percepire dietro di voi, il suo passo cadenzato accompagna il rumore dei vostri passi; sempre Bassa Jaon!”.[15]
Il Bassa Jaon o Jaun (Jaun in basco significa signore) è il Signore della Natura, il Signore della Selva, il Signore del fare e poiché la lingua Euskara è la lingua delle mani, ossia dell’abilità manuale, il Bassa Jaon si evidenzia come un sapiente capace di operare sulla natura e di comprenderne gli intimi segreti. Accanto al Bassa Jaun troviamo la Bassa Andera o Baxaandera, la Signora selvaggia, Signora della Natura.
Genio di sembianze umane, così come viene definito da alcuni, il Bassa Jaun è coperto di peli ed ha lunghi capelli accuratamente pettinati che scendono fino alle ginocchia. In tutte le mitologie i capelli sono simbolo di potenza e, pertanto, dei lunghi capelli ben curati sono una potenza, un’energia, custodita e alimentata con cura. Pettinare i capelli è simbolicamente ordinare l’energia. Il Bassa Jaun sa, dunque, come indirizzare la forza.
Il Bassa Jaun è il Sapiente del Bosco che ritroviamo in molte leggende dell’arco alpino italiano e che, come spiega Massimo Centini[16], è considerato il primo abitante della montagna, maestro dell’arte casearia, dell’apicoltura, delle tecniche minerarie e della metallurgia, creatore e insegnante di canti e proverbi (con funzione divinatoria e propiziatoria), conoscitore dei segreti della natura. Razionale e attento allevatore e mago alchimista della natura, il Sapiente del Bosco ha funzioni sacerdotali sciamaniche ed è considerato anche dio delle profezie.
V’è, inoltre, un tratto specifico che ha una grande importanza: il Bassa Jaun ha uno dei piedi a pianta circolare, tratto caratteristico che lo associa al dio della vegetazione (l’antica divinità celtica Math), le cui caratteristiche sono trasmesse al re primordiale dell’età dell’oro, il cui ferimento è causa di sterilità della Terra. L’evirazione o ferita ai genitali viene rappresentata con: gambe ferite, fianchi trafitti, claudicazione o, in senso più ampio, con una mutilazione. Il dio della vegetazione è caparbio, cocciuto ed è domato tramite l’immersione nell’orcio, simbolo del ventre della Dea Madre, la cui acqua è il liquido amniotico. Math trae la sua forza vitale immergendo i piedi nella vagina di una vergine, così come l’unicorno riposa con le zampe nel grembo della vergine, che è nel giardino (la Grande Dea) e tiene in mano lo specchio, simbolo di Venere.
Un mitico re ferito è Nuada (re primordiale dei Tuatha Dé Danann), che ritroviamo nel Re Pescatore del ciclo del Graal.
Un bambino cocciuto e collerico, al contempo grande eroe delle saghe celtiche, è Cù Chulinn raffreddato dal suo furore con tre immersioni nell’«orcio».
Il dio della vegetazione e il rito dell’immersione richiamano i cicli stagionali ed il regressus ad uterum, processo psicologico iniziatico di morte e rinascita.
Sul rapporto piede, scarpa, calza, zoppo, claudicante si diffonde lungamente Margarete Riemchneider[17] con ampi riferimenti alle saghe del Graal e ai miti antichi sottostanti.
Il mito di Merlino
Incarnazione leggendaria del dio delle vegetazione è Merlino, nato da un incontro tra un essere divino e una vergine e chiuso nell’«orcio» da Viviana.
Merlino è “unico e molteplice: è l’Incantatore, ovviamente, ma è anche il Profeta. E, ciò che si sa di meno – scrive Jean Markale – egli è anche il Folle dei Boschi, l’Uomo Selvaggio, il Signore degli Animali, il Saggio per eccellenza, colui che è riuscito a ritrovare la purezza dei tempi mitici, quando l’essere umano viveva in pace con i regni inferiori, tempi mitici dell’Età dell’Oro o dell’Eden biblico. …. Egli rappresenta in effetti una certa concezione del mondo e della vita. Il suo comportamento può essere modello esemplare di coloro i quali cercano, nel XX secolo, di riconciliare l’Uomo e la Natura”. [18]
Merlino “è inoltre lo Spirito”[19] e, dunque, si pone come sintesi dell’Uomo Selvatico e del Green Man, dell’Anima naturale e della Natura animale e in quanto tale è il simbolo attuale di una “nuova alleanza”. [20]
Chi sia Merlino (Llallogan Myrddin – Mori Dunum, Fortezza Marina) non è facile a dirsi, data la complessità del personaggio.
“Non si conosce – scrive Markale – né il personaggio autentico che ha fatto nascere la leggenda e sotto il nome del quale noi possediamo dei poemi in lingua gallese, né la prima forma della leggenda dell’Uomo Selvatico, dell’Uomo dei Boschi e che contiene tutti i ricordi di un’antica mitologia connessa a Carnaval, a Gargantua e, in ultima analisi al druidismo”. [21] Tuttavia, due aspetti di Merlino sono ben delineati nella letteratura: l’Uomo Selvatico e il Bambino Sapiente, il mago, il demiurgo.
Nella “Vita Merlini” di Goffredo di Monmouth, Merlino (Myrddin ab Morvryn) ha cinto la corona di un regno del Galles, è sposato ed ha una sorella, con la quale intrattiene rapporti incestuosi, che si preoccupa per lui. Durante una battaglia perde la ragione, si ritira nei boschi e diventa un Uomo Selvatico. [22] Merlino si nutre dei frutti della foresta, capisce la lingua degli animali, cavalca un cervo ed è amico di un eremita, suo maestro, di nome Blaise, francesizzazione di Bleidd (bretone Bleiz) che vuol dire Lupo. “Come pensava Jean Jaques Rousseau – scrive Jean Markale – il linguaggio prima di essere intelligente si accontentava di essere supporto oggettivato. Se si comprende questa verità fondamentale, si è capaci di comprendere il linguaggio degli animali e di rifare con loro un patto di fraternità che libererà il mondo”. [23]
Merlino, scrive Markale, “è ritornato alla natura, ritrovando grazie ad essa il comportamento e il pensiero degli antichi druidi, i quali comunicavano con la natura e si rifiutarono sempre di costruire templi, pensando che la Divinità non fosse accessibile che nel mezzo della foresta, nei nemeton, in luoghi deserti al riparo dai tumulti”.[24]
Merlino, in questa versione, è Signore della Foresta e Signore degli Animali, come il Dio Cornuto, il Kernunnos, il paredro della Grande Cerva, ossia di Diana (Dana, Ana), la generatrice.
Nella Storia dei re di Britannia di Goffredo di Monmouth, i druidi ricercando un fanciullo particolare, trovano Merlino (Myrddin Emrys) figlio di una donna ingravidata da un essere fatato. Interrogata sull’avvenimento, la giovane donna, risponde: “Mio signore e re, sulla salvezza della mia e della tua anima non ho mai conosciuto l’uomo che può aver generato in me questo figlio. So solo che quando mi trovavo nelle mie camere insieme alle mie compagne mi si presentava spesso qualcuno con le sembianze di un bellissimo giovane. Egli mi prendeva tra le braccia e mi copriva di baci, e poi si intratteneva con me per qualche tempo e scompariva d’improvviso senza che io riuscissi più a vederlo. Anche altre volte mi parlava senza farsi vedere mentre me ne stavo seduta tutta sola. E più volte, durante le sue visite, si coricò con me come farebbe un uomo, e io ne rimasi gravida. Ora, signore, poiché non ho mai avuto rapporti con altri uomini, decidi tu nella tua saggezza chi è il padre di questo ragazzo”. [25]
Il bambino prodigioso vaticina la sconfitta del Drago Rosso (i Bretoni) da parte del Drago Bianco (i Sassoni) e si propone come sapiente, mago, veggente, capace di molteplici prodigi.
Merlino è anche assimilabile al Dagda irlandese, il quale “esprime la totalità dell’essere riconciliato con se stesso e con le cose. Poiché il Dagda si fa beffe della Morale e delle leggi della Società. Se analizziamo il suo caso, noi apprendiamo che è padre della propria madre, che è zio di suo figlio, che è l’amante e il figlio (mac Oc) di sua figlia (Boinn, la quale è la sposa di suo fratello, dunque equivalente di sua sorella). Ciò che sembra complicato è nondimeno di una grande semplicità: Dagda, in quanto «Dio buono», riassume il cammino ascendente del mondo. Egli sfugge al tempo e allo spazio perché egli stesso è il passato, il presente e il futuro. E la egli è giunto perché si trova sulla cima dell’Albero del Mondo. Egli regna dunque sulle pietre, sulle acque, sui vegetali, sugli animali, sugli umani e sugli dei. Egli è l’immagine trascendente della fusione fraterna che esisteva prima della separazione degli elementi, prima della conoscenza del Bene e del Male. Il ché rende chiaro per quale motivo la sua mazza è ambivalente, in quanto può uccidere o donare la vita. Nulla è più separato, l’essere ha la possibilità di fare tutto, in un senso come nell’altro”. [26]
Il Merlino della Storia dei re di Britannia può essere associato, direi sovrapposto, a Taliesin, anch’egli bambino prodigioso e Pennbeirdd (Capo dei Bardi), il cui nome, sostiene Myriam Philibert (Colui che ha la fronte cinta o luminosa) corrisponde ad una traduzione esatta del Kernunnos, il Dio Cervo.
Il mito di Taliesin
Nel mito Karidwen affida al fanciullo Gwion la cura del calderone nel quale si sta formando il liquido magico che darà l’immortalità al figlio. In un momento di distrazione Gwion si versa su un dito tre gocce del liquido. Il liquido è bollente e Gwion si succhia il dito dolorante, assorbendo così il potere magico della pozione di Karidwen, mentre la restante parte, ancora nel calderone, diventa velenosa e inservibile. Karidwen infuriata insegue Gwion che si trasforma in lepre, poi in pesce, in uccello e in un chicco di grano, che la Dea, trasformatasi in gallina, inghiotte rimanendo incinta. Dalla gravidanza della gallina-Karidwenn nasce Taliesin. I simboli sono evidenti: lepre, iniziazione della terra, pesce, iniziazione dell’acqua, uccello, prova dell’aria, chicco di grano, prova del fuoco (fuoco simbolicamente rappresentato dal chicco di grano che matura al sole e ne ha il colore). Inghiottito dalla gallina nera, la Terra, il chicco del grano, ossia il Sole la ingravida. Taliesin, dunque, rappresenta il frutto delle nozze ierogamiche della Terra con il Sole e dell’iniziazione dell’uomo, che da Gwion, giovane garzone, diventa Taliesin, Fronte Luminosa, illuminato: il Kernunnos.
Esiste, dunque, una conoscenza antica che si acquisisce “scottandosi” ed assorbendone l’essenza con un gesto (il succhiarsi il dito) che evoca quello di un bambino, ossia di chi è libero da schemi e, al contempo, di chi è disponibile a congiungere alla trasmissione orale della conoscenza teorica quella delle mani, ovvero delle opere, del fare: l’esperienza (la Testa-Anima naturale e il corpo-Natura animale).
La seconda nascita di Gwion-Taliesin ne fa un essere speciale, un iniziato, e, in un contesto pagano, un druida, un bardo, simbolo della saggezza fatta uomo e, come s’è visto in relazione al mito di Bran, uno dei Sette Saggi.
La tradizione gallese presenta un altro personaggio, “sovente associato – scrive Markale – a Taliesin, e che potrebbe essere un parallelo di Merlino nel suo aspetto di mago: si tratta di Gwyddyon, figlio della dea Dôn, nipote del re Math, maestro di magia, e fratello incestuoso della dea Arianrod”.[27]
Nella tradizione gallese si racconta di Gilwaethwy, uno dei figli di Dôn, il quale essendo innamorato della giovane Goewin (la vergine che permette a Math, re del Gwynedd, figlio di Mathonwy, mago dei Tuatha de Danann, di vivere, mettendo i piedi nella sua vagina) con la complicità dal fratello Gwyddyon riesce a violarla. Math è zio di Gilwaethwy e di Gwyddion e Gwyddion lo distrae e con la scaltrezza lo allontana, consentendo al fratello la violazione. Math, maestro di magia, trasforma temporaneamente i due fratelli in animali di sesso diverso (cervo e cerva, cinghiale e scrofa e lupo e lupa).
Va notato che i figli di Dôn sono cinque: Amaethon, il coltivatore della terra; Gilwaethwy, colui che viola la vergine; Govannon, o Gofannon o Goibniu, il fabbro; Gwyddion, il druido sapiente, anch’egli mago (nel nome di Gwyddyion c’è la radice gwydd che significa legno e per estensione albero e contemporaneamente sapienza); Arianrod, l’aurora, ossia colei che annuncia la luce, la Corona del Nord detta anche Ruota d’argento, Kaer Arianrod. I cinque figli di Dôn sono sottomessi all’autorità di Lug, che è, tra i molti suoi attributi, anche il politecnico e rappresenta, pertanto, la scienza e la sapienza. I cinque figli sono le dita di una mano. Al centro c’è Lug.
Il mago Math, come s’è detto, non può vivere senza porre i piedi nella vagina di una vergine e poiché la vergine è la natura, il significato del mito è che chi opera, ossia il druida, il costruttore, il sapiente, lo scienziato, lo deve fare mantenendo un intimo rapporto filiale con la natura, che è la Dea Madre, la virgo paritura. I cinque figli dell’uomo sono cinque aspetti archetipici, riferibili all’uomo e al suo rapporto con se stesso e con la natura. Il coltivatore rispetta la natura e ne trae alimento. Il fabbro la trasforma, ma seguendone le regole. Il saggio Gwyddion dovrebbe, proprio perché saggio, sapere che la natura non va violata, ma si lascia trasportare dall’ego e accontenta il fratello, pensando di essere più furbo di Math. Il fratello è l’uomo che si lascia trasportare dalle passioni, in barba alla regola e viola la natura. Math li condannerà ad essere animali, ossia prigionieri della dinamica fisica inconsapevole e della dualità sessuale, che è simbolo della dualità in generale, ossia del diaballo, della divisione. Chi viola la vergine e chi è correo della violazione è condannato alla dualità. Chi collabora con la natura, con la vergine, è da lei amato come un vero amante e può godere del suo amore, spirituale e carnale, perché ne rispetta la libertà. Il mito, dunque, ci induce ad un’analisi dei comportamenti dell’uomo, al rispetto della libertà (essenziale per i druidi), alla collaborazione armonica con la natura.
Gwyddyion, in quanto albero e sapienza rappresenta la conoscenza arborea, la conoscenza della foresta, come quella di Merlino. Una conoscenza che è sempre soggetta ad essere corrotta dall’Ego, dalla volontà di potenza, dalle passioni incontrollate. “E’ evidente che – scrive in proposito Markale – che nella tradizione orale, trasmessa nel corso dei secoli, di generazione in generazione, la scienza e la conoscenza sono connesse con l’Albero”, che ritroviamo nel melo dell’Eden, in Yggdrasyl e, più in generale nell’Albero del Mondo.
Va notato che Caer Gwyddion per i Celti era la casa di Gwyddion, ossia la via Lattea, coincidente sulla terra con il cammino che da Santiago (Jakin) de Campus Stellae, seguendo il Camino de las estrellas, ossia della conoscenza, portava, attraverso Tolosa, Orléans, Chartres, Notre Dame di Parigi e Amiens a Rosslyn, cuore della connessione tra tradizioni celtiche, templarismo e Massoneria. Se consideriamo, inoltre, che Arianrod è l’aurora e Math significa orso, il mito apre una serie di interrogativi su un complesso di asterismi di estremo interesse dei quali, in questo contesto, non ci rimane che segnalare l’importanza.
Merlino e il femminile
La figura di Merlino è in relazione con un femminile (Viviana, Nimue, Niniane, Gwendydd) che rappresenta contemporaneamente la donna, l’Anima junghiana e la Dea Madre.
“La donna – scrive Jung – con la sua psicologia così dissimile da quella maschile, è ed è sempre stata una fonte d’informazione sopra cose per le quali l’uomo non ha occhi. Essa può rappresentare per lui l’ispirazione; la sua capacità di intuizione, spesso superiore a quella dell’uomo, può dargli utili ammonimenti, e il suo sentimento, orientato verso ciò che è personale, può indicargli vie irreperibili al sentimento di lui, che ha meno riferimenti ai fattori personali”.[28] L’Anima, che definisce l’elemento femminile presente nell’uomo contiene “un’immagine collettiva della donna”. [29]
Per contro, l’Animus junghiano si presenta come una specie di “assemblea di padri e di altre autorità, che ex cathedra emettono inoppugnabili «ragionevoli» sentenze. …. Gli uomini adatti alla proiezione sono copie viventi del Buon Dio, che sanno tutto, o novatori disconosciuti i quali dispongono d’un fluido vocabolario con cui traducono ogni sorta di cose comuni in terminologia elevata. L’Animus sarebbe mal caratterizzato, se lo si definisse unicamente come una coscienza collettiva conservatrice; esso è anche un novatore che, in contrasto con le sue giuste opinioni, ha il debole per le parole ignote e mal comprensibili, che sostituiscono gradevolmente l’odiosa riflessione”. [30]
La coppia Viviana-Merlino rappresenta, pertanto, psicologicamente il rapporto Anima-Animus.
Niniane, possibile deformazione di Diana, ci riporta a Dana (la dea dei Tuatha Dé Danan) e a Ana, divinità che nelle Triadi Bardiche è connessa con l’Annwun, l’abisso, il cavo, il luogo dell’inizio: “Tre fasi necessarie di tutte le esistenze in rapporto alla vita: l’inizio in Annuwn, la trasmigrazione nell’Abred e la pienezza nel cielo o cerchio di Gwynfyd, e senza queste tre cose nulla può essere eccetto Duw” (Triade XIV). Annwun “è il più basso del cerchio di Abred, o della trasmigrazione, il chaos che contiene tutti i germi di tutte le vite. Tutte le cose qui preesistono, ma allo stato d’involuzione, d’oscurità, la quale è espressa da cyflwr Abred …, in opposizione a ciflwr ryddyd, la libertà nella condizione umana. Così l’Annwfn, l’abisso senza fondo, fa parte del cerchio di Abred; è il punto di partenza della trasmigrazione in base alla quale gli esseri si elevano gradualmente verso la luce e la vita”. [31] In Annuwn, nell’abisso, troviamo “ la vita al suo minore grado, vale a dire, in germe, la sostanza materiale che costituirà l’inviluppo perituro delle creature, e la morte, vale a dire il sonno primitivo nel seno delle tenebre, ove tutte le vite prendono il loro punto di partenza per svilupparsi ulteriormente”. [32]
In questa descrizione, Annwn o Annwfn, richiama il calderone, come quello di Gundestrup o del Dagda o di Karidwen, dove i morti entrano per trovare nuova vita. Annwfn è l’utero della femmina arcana, il vasto ventre della Grande Madre Universale, ovvero di Ana, Karidwen (Dana, Diana, Jana), la Grande Cerva, la dea degli inizi, la Vergine nera. Dana (Ana) è la Natura nella sua funzione creatrice della vita nel mondo reale, ossia delle res, dello spazio tempo. La Natura è, se facciamo riferimento alla cultura vedica, la forza creativa della Coscienza dell’Essere che agisce in base alla Regola, ossia all’essenza del Vasto di Verità, Brihat-Ritam. Seguire la propria Natura (seguire Dana) è seguire la forza-coscienza del Vasto di Verità e, dunque, la nostra verità, che è alla base della nostra esistenza.
Il rapporto Merlino-Viviana (Niniane, Diana, Dana) fa del grande mago, uomo dei boschi e fanciullo prodigio, l’equivalente del Dio Cornuto, del Kernunnos, cosicché la coppia Merlino-Viviana rappresenta la coppia primordiale Cerva (Diana, Signora degli animali) e Cervo (Signore degli animali, Pasupati o Kernunnos o Lug) e al contempo il rapporto tra Dea Madre Signora della Foresta e il figlio arboreo (simbolo della rinascita): Mabon, Adone, Attis. Un rapporto che ci riporta a quello primordiale tra la Dea e il suo paredro, che è figlio, amante, padre, mai marito.
Si pone qui un quesito, che riprenderemo più avanti, relativo alla legge naturale entro la quale, secondo alcune ideologie, secondo alcune religioni (ne è stato fatto addirittura un sacramento indissolubile per volontà di Dio) e secondo alcune morali, andrebbe collocato il matrimonio, ascrivibile soltanto a esigenze di regolazione sociale.
Il matri-monio, dovere delle madri di allevare i figli, che si accompagna al patri-monio, dovere dei padri di assicurare alle madri e alla prole il sostentamento, è una pura e semplice regola sociale senza alcun fondamento naturale. Una regola sociale che sottende il possesso reciproco. “Sotto il mantello del matrimonio ideale ed esclusivo egli [l’uomo, ndr] cerca la protezione materna, e così asseconda lusinghevolmente l’istinto di possesso proprio della donna”. [33]
La legge di Natura prevede più semplicemente l’unione dei complementari nel reciproco riconoscimento delle potenzialità dell’altro, in un’unione alchemica che è generatrice di amore (a-mors, vita). “Ritirati dal mondo perché viventi un amore assoluto che, per natura, li separa dalla società, Merlino e Viviana bastano a se stessi”. [34]
L’amore primordiale naturale basta a se stesso, non ha bisogno di regole sociali. “Gli uomini obbediscono alle leggi della Società. Merlino si mette al di fuori di queste società e non riconosce altra legge che quella della Natura alla quale partecipa”. [35]
Ritroviamo questo amore incompatibile con il matri-monio nelle leggende di Tristano e Isotta o di Diarmaid e Grainné e ne riscontriamo il fondamento naturale nella Potnia, la Grande Madre che è la Natura nella sua accezione cosmica. E sono la foresta e la grotta che “rappresentano precisamente questo mondo chiuso e femminile dove regna la sensibilità e non la logica, mondo ove veramente «il cuore ha le sue ragioni che la Ragione non conosce»”. [36]
La Dea (la Potnia), nella sua forma originaria di divinità non generata, rappresentante la suprema e concreta femminilità del divino, era oltre il limite dello spazio-tempo, come Essere (potremmo dire Brighit, ossia Brahman) e entro lo spazio-tempo come Mater (potremmo dire Dana, Morrigan), dove nella radice indoeuropea Mātr è insito il concetto di limite (m), che fa della Dea Madre (materia, misura) colei che si occupa del limite, che si prende cura del limite, quindi colei che si prende cura della vita.
Assisteremo, in seguito, alla rottura di questa unità e ad una scissione che proietta la Luna e il Sole oltre la Terra.
La Potnia è intimamente connessa con il concetto di libertà; non rifiuta l’amore, anzi lo cerca, ma rifiuta il giogo dell’amore, ossia il matrimonio. La Potnia è la donna non domata per natura, in quanto è la Natura, sempre incinta, sempre amante e sempre vergine. Il maschio ne è figlio e paredro e tra il maschile e il femminile si consuma l’incesto sacro.
“La natura è aristocratica”[37] e da un punto di vista psicologico, il “desiderio d’incesto”, come scrive Jung, “ha un particolare valore e una particolare necessità, la quale nei miti è messa in rilievo dal fatto che è appunto il più forte e il migliore [aristos, ndr] del popolo, il suo eroe, quello che cede alla bramosia regressiva e affronta volontariamente il pericolo di essere inghiottito dal mostro del fondo materno primordiale. Ma egli è un eroe appunto perché alla fine, anziché lasciarsi divorare dal mostro, lo vince, e non lo vince una sola volta ma molte. Dalla vittoria della psiche collettiva deriva il vero valore, la conquista del tesoro, dell’arma invincibile, del talismano magico, o di che altro il mito escogiti di desiderabile. Quindi, chi s’identifica con la psiche collettiva – in termini mitici chi si lascia ingoiare dal mostro – e in essa si risolve, è bensì vicino al tesoro custodito dal drago, ma involontariamente e con suo gravissimo danno”. [38]
Il rapporto tra Viviana e Merlino è una “ierogamia, un’unione simbolica tra due esseri che hanno una nascita identica”[39] ed è nel “vaso chiuso della camera di cristallo che può operarsi in modo ideale la fusione tra due elementi alchemici rappresentati da Merlino e Viviana”. [40]
“La società – scrive Federico Gasparotti – esige che ogni persona segua un corpus normativo condiviso; l’Uomo Selvaggio segue un corpus normativo naturale, non scritto ma interiorizzato in ogni essere vivente nel momento stesso del concepimento”. [41]
Questa affermazione impegnativa ha implicazioni di carattere psicologico e filosofico.
L’aspetto psicologico: Merlino come il Sé
Se seguiamo la linea di pensiero junghiana, possiamo, sia pur schematicamente, considerare il percorso dell’essere umano (la sua peregrinazione in Abred, direbbero le Triadi Bardiche) come un faticoso processo di individuazione per avvicinarsi al proprio Sé, ovvero alla propria vera essenza, al proprio nome originario, al proprio suono nel concerto universale a quel corpus normativo naturale presente, come sostiene Gasparotti, nell’essere umano nel momento stesso del concepimento, ossia dell’entrata del puro pensiero (il Progetto) nel campo della forma (la Natura animale): incontro tra l’Anima naturale e la Natura animale. Un incontro che dà inizio al percorso dell’essere umano spirituale nel mondo naturale, dove prende avvio il processo di individuazione.
Il processo di individuazione fa i conti con la Psiche collettiva cosciente (l’insieme di modelli culturali e di norme che costituiscono la morale, l’etica condivisa dal demos, ossia il nomos, la legge degli uomini) e con la Psiche collettiva inconscia, della quale sono espressione il simbolismo (attività spontanea e connaturata dell’essere umano) e gli archetipi (forme strutturanti dell’immaginazione inconscia, immagini primordiali) che nel loro insieme costituiscono parte di quell’inconscio collettivo i cui contenuti sono “strutture originarie, indipendenti dall’esperienza personale e rintracciabili nei prodotti coscienti e inconsci di tutta l’umanità, in ogni tempo e in ogni luogo, salvo particolari declinazioni relative a specifiche configurazioni etniche e storico-culturali”. [42] Il processo di individuazione emancipa l’essere umano dalla Persona, maschera della psiche collettiva: “una maschera che simula l’individualità, che fa credere agli altri che chi la porta sia individuale (ed egli stesso vi crede), mentre non si tratta che di una parte rappresentata in teatro, nella quale parla la psiche collettiva”. [43] Chi fa della Persona, della maschera sociale la propria individualità, inevitabilmente scompare nel collettivo, diventa, «piatto». “La Persona – scrive Jung – è un’apparenza, una realtà bidimensionale, come scherzosamente la si può definire”. [44] Chi si identifica con la propria Persona è una maschera che aderisce allo schema che la psiche sociale richiede e queste identificazioni con “il ruolo sociale sono ricche sorgenti di nevrosi”[45], come la realtà odierna ci mostra con sempre maggiore evidenza. La società esige che ogni essere umano sia un pezzo del collettivo, ben ordinato alle esigenze del collettivo, talmente integrato da confondere la sua Persona con la sua Essenza. L’essere umano scompare, privo di spessore, e si scioglie nel collettivo del quale è solo un ingranaggio.
Quando un essere umano entra a contatto con la Psiche collettiva inconscia rischia di esserne travolto e di identificarsi con gli archetipi. Abbiamo così i santi, i profeti, i convertiti, i condottieri, gli eroi ecc. ecc. “L’uomo posseduto da un archetipo diventa una semplice figura collettiva, una specie di maschera, dietro la quel l’umano non si può più sviluppare e progressivamente intristisce”. [46]
Il risultato, nell’uno e nell’altro caso, è l’autoreferenzialità narcisistica, l’incapacità a relazionarsi con la realtà degli altri. Emanciparsi dalla Persona significa emanciparsi dalla morale, dall’etica condivisa, per assumere pienamente la responsabilità di se stessi, delle proprie azioni e delle proprie relazioni.
Fare i conti con la Psiche collettiva inconscia è decisivo per il processo di individuazione. “Io considero – scrive Jung – quindi opportuna la perdita di equilibrio, perché essa sostituisce la coscienza, che viene meno, con l’attività automatica e istintiva dell’inconscio, la quale mira a stabilire un nuovo equilibrio ed effettivamente vi riesce, purché la coscienza sia in grado di assimilare i contenuti prodotti dall’inconscio, cioè di capirli e di elaborarli”. [47] Si tratta, in buona sostanza, di attivare la “vitale cooperazione di tutti i fattori”.[48] “Purtroppo il nostro spirito occidentale, per la sua mancanza di civiltà sotto questo rispetto, non ha ancora trovato un concetto che serva a conciliare i contrasti in una via di mezzo (punto capitale dell’esperienza interiore), e tanto meno un nome che possa stare decentemente a lato del cinese tao. Esso è in pari tempo il fatto più individuale e l’adempimento più universale e più regolare del senso dell’essere vivente”. [49]
La perdita di equilibrio è la follia di Merlino, che abbandona il suo ruolo di re (Persona) e si ritira nella foresta (inconscio personale e collettivo) dove impara il linguaggio della Natura e diventa Saggio, ossia integra i contenuti dell’inconscio, integra la sua Ombra: diventa integro.
La follia di Merlino lo accosta alla figura dei «Buffoni sacri» o «Clown divini» o «Giullari sacri» presenti in molte culture e che in Europa si chiamano «Trickster».
Il «Buffone sacro», come Merlino, può dire solo la verità.
Una particolare focalizzazione del trickster viene dal mondo celtico e segnatamente dall’Irlanda. Alan Harrison, autore del saggio “The Irish Trickster”, citato da Leda Berné, “analizza i diversi tipi di buffoni e menestrelli, mitici o realmente esistiti, attraverso l’antica letteratura ed i documenti storici. Le caratteristiche di queste figure in Irlanda sono significativamente le stesse dei diversi trickster già incontrati, divinità della soglia, prive di limiti, psicopompi di anime, gioiosi ed irriverenti, legati ad una sessualità libera e incoercibile, non riproduttiva. Uno dei nomi con cui venivano designati era per esempio quello di “Drúth” che significa letteralmente allegro, gaio, pazzerello, impudico, immorale, selvaggio, lussureggiante, lascivo, libidinoso”. [50] I «Buffoni», i «Giullari» erano dei «privilegiati», ossia dei privi di leggi e in quanto tali, capaci di andare all’essenza oltre gli schemi e di essere «specchio» dell’illusoria realtà.
“Se ci si immagina la coscienza, con l’Io al centro, come contrapposta all’inconscio e se ci si rappresenta il processo di assimilazione dell’inconscio, questa assimilazione – scrive Jung – può essere pensata come una specie di accostamento fra la coscienza e l’inconscio, dove il centro della personalità totale non coincide più con l’Io, ma è un punto situato in mezzo fra la coscienza e l’inconscio”. [51]
“La conoscenza e la saggezza sono propedeutiche alla sapienza – scrive Federico Gasparotti -: quando l’uomo ha imparato le leggi del mondo civile, deve utilizzarle per tornare alla sua dimensione naturale senza il rischio di annientare la propria umanità nelle pulsioni animali”. [52] Merlino abbandona il suo reame (i nomoi, le leggi del mondo) e preso da “follia” torna alla legge naturale, senza tuttavia perdere la sua conoscenza acquisita. Nell’equilibrio tra i nomoi e la physis è la sua Sapienza. Merlino è diventato il simbolo del Sé.
“Secondo la nostra esperienza – scrive Jung -, noi possiamo affermare che i processi inconsci stanno in relazione compensatrice con la coscienza. Dico a bella posta «compensatrice» e non «contrastante» perché coscienza e inconscio non sono necessità in contrasto fra loro, ma si integrano vicendevolmente formando un tutto, il Sé. Secondo questa definizione il Sé è quindi un’entità sovraordinata all’Io cosciente. Esso abbraccia non solo la psiche cosciente ma anche la psiche inconscia, ed è quindi, per così dire, una personalità che anche noi siamo. Possiamo ben immaginarci di possedere anime parziali; possiamo, ad esempio, vedere senza difficoltà noi stessi come Persona. Ma capire quel che siamo come Sé è cosa che supera le nostre capacità rappresentative, giacché per questa operazione la parte dovrebbe comprendere il tutto. Non c’è speranza di raggiungere una consapevolezza anche solo approssimativa del Sé, giacché, per quante siano le cose di cui noi possiamo acquistare coscienza, resterà sempre un ammontare indeterminato e indeterminabile di inconscio, che appartiene anch’esso alla totalità del Sé. E così il Sé resterà sempre una grandezza sovraordinata a noi”[53]
Il nostro Sé, “quale compendio del nostro sistema vivente, non soltanto contiene il deposito e la somma di tutta la vita vissuta, ma anche il punto di partenza, il terreno materno gravido di tutta la vita futura, il presentimento della quale è intimamente altrettanto chiaro quanto l’aspetto storico. Da questo fondamento psicologico proviene legittimamente l’idea dell’immortalità”. [54]
E Merlino è il Sapiente immortale, il druida primordiale, l’archetipo del Sé, di un «qualcosa» che, come scrive Jung, “ci è estraneo eppure vicinissimo, coincide con noi eppure non è da noi conoscibile, è un punto virtuale di costituzione talmente misteriosa che può esigere tutto, la parentela con gli animali e con gli dei, con i cristalli e con le stelle, senza farci meravigliare e senza suscitare la nostra disapprovazione. Questo qualcosa esige affettivamente tutto ciò, e noi non abbiamo in mano nulla da opporre con qualche diritto a questa richiesta; è perfino salutare ascoltar questa voce”. [55] E la voce di Merlino l’Incantatore parla dai luoghi più nascosti della foresta e dà consigli agli uomini e ai re.
“Il Sé – scrive ancora Jung – potrebbe essere caratterizzato come una specie di compensazione per il conflitto tra l’interno e l’esterno; formulazione non impropria, in quanto il Sé ha il carattere di un risultato, di una meta conseguita, di qualcosa prodottasi a poco a poco e divenuto sperimentale con molte fatiche. Pertanto il Sé è anche lo scopo della vita, perché è la più perfetta espressione della combinazione di destini che si chiama individuo, non solo singolo uomo, ma un intero gruppo, nel quale uno si integra all’altro per costituire l’immagine completa. Quando si riesce a sentire il Sé come un irrazionale, come un ente indefinibile, al quale l’Io non è né contrapposto né sottoposto ma pertinente, e intorno al quale esso ruota come la Terra attorno al Sole, allora lo scopo dell’individuazione è raggiunto. Quando si riesce a «sentire», dico, perché così definisco il carattere percettivo della relazione fra l’Io e il Sé”. [56]
[1] Paolo Zellini, La matematica degli dèi e gli algoritmi degli uomini, Adelphi
[2] Joseph Campbell, Percorsi di felicità, Cortina
[3] Joseph Campbell, Percorsi di felicità, Cortina
[4] Joseph Campbell, Percorsi di felicità, Cortina
[5] Joseph Campbell, Percorsi di felicità, Cortina
[6] Federico Gasparotti, il Green Man e l’Homo Selvaticus, Su Amazon
[7] Riccardo Taraglio, presidente di Olno, Oltre la Nona Onda, Accademia Bardica e Druidica Italiana, della quale è cofondatore.
[8] Riccardo Taraglio, Il vischio e la quercia, Ed. Dell’Acquario
[9] Riccardo Taraglio, Il vischio e la quercia, Ed. Dell’Acquario
[10] Saghe e racconti dell’antica Irlanda, Mondadori, 1983
[11] Vedi in proposito i miei: “Tu sei Pietra”, “la via druidica”, volume primo e secondo.
[12] Vocabolario basco francese di W.J. Van Eys, Paris, Maisonneuve, 1873
[13] A.Baudrimont, Histoire des Basques ou escualdunais primitives, Paris, Chez Benjamin Duprat, 1834.
[14] Lo troveremo scritto in molti modi tra loro simili: Baxa Jaun, Bassa Jaun, Basa Jaon, ecc.
[15] Augustin Chaho, Histoire de Basques, Imprimerie e Lithographie de P. Lesper, Bayonne, 1847
[16] Massimo Centini, Il Sapiente del Bosco, Xenia
[17] Margarete Riemschneider, Miti pagani e miti cristiani, Xenia
[18] Jean Markale, Merlin l’Enchanteur, Editions Albin Michel
[19] Jean Markale, Merlin l’Enchanteur, Editions Albin Michel
[20] Jean Markale, Merlin l’Enchanteur, Editions Albin Michel
[21] Jean Markale, Merlin l’Enchanteur, Editions Albin Michel
[22] Geoffrey di Monmouth, la Follia di Merlino, Sellerio
[23] Jean Markale, Merlin l’Enchanteur, Editions Albin Michel
[24] Jean Markale, Merlin l’Enchanteur, Editions Albin Michel
[25] Goffredi di Monmouth, Storia dei re di Britannia, Guanda
[26] Jean Markale, Merlin l’Enchanteur, Editions Albin Michel
[27] Jean Markale, Merlin l’Enchanteur, Editions Albin Michel
[28] Carl Gustav Joung, L’io e l’inconscio, Boringhieri
[29] C.G.Jung, L’io e l’inconscio, Boringhieri
[30] C.G.Jung, L’io e l’inconscio, Boringhieri
[31] Adolphe Pictet, Le mystère des bardes de l’ile de Bretagne ou la doctrine des bardes gallois du moyen age sur dieu, la vie future e la trasmigration des ames, Joel Cherbuliez, librarie éditeur – Genève-Paris, 1856
[32] Adolphe Pictet, Le mystère des bardes de l’ile de Bretagne ou la doctrine des bardes gallois du moyen age sur dieu, la vie future e la trasmigration des ames, Joel Cherbuliez, librarie éditeur – Genève-Paris, 1856
[33] Carl Gustav Joung, L’io e l’inconscio, Boringhieri
[34] Jean Markale, Merlin l’Enchanteur, Editions Albin Michel
[35] Jean Markale, Merlin l’Enchanteur, Editions Albin Michel
[36] Jean Markale, Merlin l’Enchanteur, Editions Albin Michel
[37] Carl Gustav Joung, L’io e l’inconscio, Boringhieri
[38] Carl Gustav Joung, L’io e l’inconscio, Boringhieri
[39] Jean Markale, Merlin l’Enchanteur, Editions Albin Michel
[40] Jean Markale, Merlin l’Enchanteur, Editions Albin Michel
[41] Federico Gasparotti, Il GreenMan e l’Homo selvaticus, l’anima naturale e la natura animale, Il miolibro.it, 2011
[42] Mario Trevi, introduzione a Carl Gustav Joung, L’io e l’inconscio, Boringhieri
[43] Carl Gustav Joung, L’io e l’inconscio, Boringhieri
[44] Carl Gustav Joung, L’io e l’inconscio, Boringhieri
[45] Carl Gustav Joung, L’io e l’inconscio, Boringhieri
[46] Carl Gustav Joung, L’io e l’inconscio, Boringhieri
[47] Carl Gustav Joung, L’io e l’inconscio, Boringhieri
[48] Carl Gustav Joung, L’io e l’inconscio, Boringhieri
[49] Carl Gustav Joung, L’io e l’inconscio, Boringhieri
[50] Leda Berné, Dioniso e le donne, Edizioni della Terra di Mezzo
[51] Carl Gustav Joung, L’io e l’inconscio, Boringhieri
[52] Federico Gasparotti, Il GreenMan e l’Homo selvaticus, l’anima naturale e la natura animale, Il miolibro.it, 2011
[53] Carl Gustav Joung, L’io e l’inconscio, Boringhieri
[54] Carl Gustav Joung, L’io e l’inconscio, Boringhieri
[55] Carl Gustav Joung, L’io e l’inconscio, Boringhieri
[56] Carl Gustav Joung, L’io e l’inconscio, Boringhieri