IL SEGRETO DELLA CANDELA (1)

Mar 26, 2025 | CABALA, SCIENZE ESOTERICHE

IL SEGRETO DELLA CANDELA (1)

Pubblichiamo, suddiviso in più articoli, un prezioso saggio inedito di Shabbat Menkaura.

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Meditare osservando la luce guizzante di una candela costituisce una pratica antichissima, comune a molte culture.

I percorsi esoterici occidentali, quello Martinista per citarne uno, non fanno certo eccezione.

Molti insegnamenti attribuiscono grande importanza a questa forma di meditazione, che costituisce realmente un mezzo efficace di apertura e/o allargamento dei propri domini spirituali.

Nella originale accezione, come vedremo meglio nel testo da cui proviene, la meditazione sulla fiamma è addirittura indicata come mezzo necessario per raggiungere la Santa Unificazione, la Yichud[1] della Kabbalah.

Mi riferisco ad una delle porzioni più affascinanti e significative del Sefer Zohar[2], da molti considerato una delle opere più rilevanti della tradizione kabbalistica.

Dopo aver pubblicato nel gennaio 2025 la traduzione degli “Insegnamenti di Ptahhotep,” ho ritenuto di rendere nella nostra lingua anche questa fonte fondamentale, la cui presenza, velata e incompleta, può essere rinvenuta in molte tradizioni occidentali.

Inoltre, avendo constatato con grande sorpresa che molti esoteristi non conoscevano l’origine e la fonte antica delle loro pratiche meditative sulla candela, ancor di più ho provato un forte desiderio di portare a termine tale compito, malgrado mi fosse chiara la difficoltà dell’impresa.

Molti, infatti, sono gli elementi minimi necessari alla comprensione di una sezione così rilevante dello Zohar, come vedremo nei paragrafi successivi.

Generalmente si considera quale edizione di riferimento del Sefer Zohar quella detta Pritzker Edition, che è dotata di un’ottima traduzione inglese ad opera del Professor Daniel C. Matt. Trattasi di un lavoro di alto livello il cui maggiore difetto risiede, forse, nel prezzo molto elevato, ma cui non si può rinunciare se non altro per il poderoso apparato di note che la caratterizzano.

In questa edizione, di provenienza accademica, si pone però un problema.

Anche se non vi è dubbio alcuno che il Professor Matt sia un grandissimo studioso di Kabbalah, non è detto che egli sia al medesimo livello come Kabbalista e nel tradurre lo Zohar, uno dei sommi testi della mistica, questo elemento può assumere un peso rilevante.

Come già accadde in relazione ad altri illustri personaggi che hanno scritto pagine indelebili di storia della Kabbalah, né lo Scholem, né Moshe Idel hanno mai preteso neppure per un attimo di essere Kabbalisti, e credo che neppure il Professor Matt rivendichi tale titolo.

Per tale motivo non ho paura a confessare che la traduzione ad opera di Rav Berg, lui sì potentissimo Kabbalista, traduzione rinvenibile online grazie all’opera del Kabbalah Center da lui fondato, mi ha molto aiutato a meglio comprendere questa opera unica.

Sono conscio che in lingua italiana esistano alcune antologie che riportano brani dello Zohar, come quella basata sull’opera di Michael Laitman, fondatore e presidente del Kabbalah Education & Research Institute Bnei Baruch, ma è proprio dal confronto del testo con le diverse traduzioni di questo documento a volte quasi incomprensibile, originariamente scritto parte in ebraico e parte in aramaico[3], che si può trovare la migliore chiave di lettura dei misteri rappresentati nel testo.

Si tenga conto, poi, della vastità della edizione completa dell’intero Sefer Zohar.  Corredata da traduzione in lingua inglese l’edizione a stampa ad opera del Kabbalah Center copre ben 23 volumi e la Pritzker Edition ad opera della Stanford University Press 12 volumi per 7792 pagine.

Per ultimo ma certo non per la sua rilevanza, dobbiamo parlare della somma opera di Rav Yehuda Leib HaLevi Ashlag[4], celebre Kabbalista del XX secolo e autore del più profondo ed elaborato commento allo Zohar, il famoso commentario del Sulam (Scala), tanto che Rav Ashlag divenne famoso con il nome di Baal HaSulam (Maestro della Scala).

Come scrive proprio Michael Laitman:

“Non ha senso aprire il Libro dello Zohar senza il commento del Sulam. Sono stati scritti altri commenti allo Zohar, ma il commento del Sulam è l’unico completo. Il Sulam, come indica il suo nome (Scala), è l’unico che può condurci alla perfezione perché il Baal HaSulam ha raggiunto tutti i 125 gradi da cui gli autori dello Zohar hanno scritto il libro. Egli si è collegato a loro e ha interpretato lo Zohar per noi da quel livello.

Il commento del Sulam adatta lo Zohar alle anime che appaiono oggi nel mondo. Così, le nostre anime possono affrontare lo Zohar, la luminosità, la luce superiore, in modo che ci riformi e riporti le nostre anime al legame, un legame in cui appare il Creatore.[5]

Il Sulam ci aiuta a costruire noi stessi nella “linea di mezzo”, in modo che la nostra forma sia la più adatta alla forma in cui la luce superiore viene a noi per poterla ricevere.

La linea di mezzo è la formula con cui dovremmo combinare correttamente le due forze che esistono in Natura: la forza del Creatore – che dona, abbondanza, luce – e la forza della creatura (l’uomo) – la volontà di ricevere. Costruire la linea di mezzo è tutto il nostro mondo, ed è qui che risiede la nostra libera scelta.

Il Baal HaSulam dirige la nostra visione, il nostro approccio e le nostre sensazioni in modo che le parole dello Zohar ci attraversino nella linea di mezzo, il sentiero d’oro.

Il linguaggio dello Zohar è pieno di allegorie, apparentemente legate al corpo umano, che il commento del Sulam interpreta. Il Sulam ci aiuta a percepire lo Zohar in modo più elaborato, così da sentire il testo vicino a noi.

Il Baal HaSulam ha anche tradotto lo Zohar dall’aramaico all’ebraico, ha diviso lo Zohar in paragrafi e saggi e ha aggiunto interpretazioni, introduzioni e spiegazioni introduttive. Non ci resta che salire i pioli della scala dal nostro mondo al mondo di Ein Sof.”

Quest’ultima osservazione consente di introdurre alcun concetti fondamentali per la comprensione del testo.

Nella Kabbalah per Ein Sof si intende l’Essere Supremo prima della sua automanifestazione mediante la creazione di qualcosa di separato, ovvero lo stato precedente alla prima autocontrazione detta Tzimtzum che procura uno spazio “vuoto” ove creare la catena dei mondi (Seder hishtalshelus, “Ordine Evolutivo”).

Ein Sof può tradursi come Senza fine, Interminabile, o semplicemente Infinito.  Dell’Ein Sof, nulla (Ein) può esser compreso (Sof). Da Esso scaturisce l‘Ohr Ein Sof, la “Luce Infinita” (o “luce dell’Infinito D-o”) la Divina Autoconoscenza che prima della Creazione risultava annullata nell’Ein Sof stesso, il famoso paradosso dell’Essere Unico e Supremo che contempla Sé stesso come oggetto della Creazione quale pseudo altro da Sé.

Già Azriel ben Menahem di Gerona[6] (1160 – 1238) si confrontava con le concezioni neoplatoniche[7] secondo le quali D-o non può avere desideri, pensieri, parole o azioni, associandosi a tali idee nella negazione di qualsiasi attributo per l’impossibilità di definire un’esistenza di D-o.

Vorrei aggiungere che il grande Rav Yehuda Leib HaLevi Ashlag ha anche scritto un’utilissima “Prefazione al Commentario Sulam” che può essere trovata comodamente online.

Nello spirito con cui fu scritta, cioè per aiutare tutti a comprendere meglio lo Zohar, ho pensato di tradurla in futuro nel nostro idioma, nel frattempo chi conosce la lingua inglese potrà confrontare il testo bilingue di sefaria.org (un sito meraviglioso e indispensabile per il materiale che contiene) con quello pubblicato da Bnei Baruch di Laitman.

Suggerisco a tutti di adoperarla come principale chiave di lettura per non doversi affidare solo alle mie povere parole divulgative, per le quali non mi assumo alcun merito creativo. Purtroppo, anche la comprensione della Prefazione medesima richiede già un’ottima conoscenza della Kabbalah.

Un’altra opera fondamentale per comprendere lo Zohar, dal punto di vista chassidico, è sicuramente il Tanya, o meglio Likkutei Amarim, ad opera dell’Alter Rebbe.[8]

Questa splendida trattato di filosofia e psicologia in un’ottica Kabbalistica, praticamente sconosciuto in occidente, può servire da pietra di paragone nel proprio viaggio interiore alla ricerca della reintegrazione e dell’elevazione della materia.

Anche qui è richiesta una conoscenza di base della Kabbalah piuttosto estesa, ma superato tale ostacolo, la lettura del Tanya può realmente essere propedeutica alla comprensione del Sefer Zohar.

Per tutte le ragioni sopra esposte, ecco perché studiare lo Zohar, assieme a tutto ciò che serve per comprenderlo, è cosa non per tutti e richiede all’individuo grande dedizione nella preparazione a tale impresa.

Vorrei infine precisare che, per diverse ragioni, offrirò solo le chiavi ermeneutiche necessarie alla comprensione minima dell’oggetto di questo scritto. Anche così, per non limitare la lettura ad una ristrettissima cerchia di persone in ambito non ebraico, poiché nella parte ebraica nessuno ha bisogno del mio limitatissimo punto di vista, l’apparato di note sarà comunque abbastanza esteso, anche se certamente non esaustivo.

Ovviamente, chi scrive non si attribuisce meriti creativi, in quanto tutto ciò che troverete come spiegazione al testo proviene dai mille e mille grandi intelletti che da secoli studiano lo Zohar, per cui non mi riconosco neppure la diligenza nell’avere copiato le loro considerazioni.

Inoltre, poiché l’Alter Rebbe che fu uomo geniale, ispirato da D-o e coltissimo autore del Tanya, nella sua somma umiltà si definì meramente un “compilatore”, a chi scrive non si può neppure attribuire tale titolo …[9]

Viste queste premesse si devono tenere presenti i seguenti punti.

In primo luogo, va ribadito che lo Zohar non è per tutti, come gli studiosi di Kabbalah ben sanno, tanto che la tradizione sconsiglia di avvicinarsi a questo testo prima dei quarant’anni.

In seconda istanza, anche i soggetti appartenenti alla ristretta schiera di coloro che teoricamente possiedono gli strumenti per comprendere lo Zohar, non dovrebbero appoggiarsi più di tanto sui commenti altrui, anche su quelli di ottimo livello, ma dovrebbero seguire il proprio percorso e trovare la propria chiave interpretativa personale a livello metafisico per divinare i significati occulti contenuti nel testo stesso.

Infine, poiché questa meditazione è assai efficace e dotata di risvolti operativi di notevole ampiezza, non voglio assumere responsabilità per le pratiche che gli individui volessero intraprendere utilizzando il testo dello Zohar qui proposto.

Sempre in relazione alla parte operativa di questa meditazione, vorrei sottolineare anche che i risultati pratici possono variare molto da persona a persona ed anche nel tempo per un medesimo soggetto.

Non si pensi però che non esistano esperienze confrontabili. Alcune visioni suscitate da questa meditazione sono state condivise nel tempo da vari soggetti, soprattutto da quelli che erano all’oscuro di tali esperienze prima di averle sperimentate. Come accadde a chi scrive durante il suo primo soggiorno a Tzfat, quando di queste cose non sapeva nulla.

In definitiva, vale la pena di pubblicare questo testo malgrado esistano tutte le difficoltà ermeneutiche cui ho accennato? A mio parere la risposta rimane positiva, in quanto si tratta di una fonte che costituisce una colonna portante delle pratiche esoteriche occidentali e ritrovarla in tutta la sua magnitudine e profondità non può che essere giovevole per quei cercatori dello Spirito che in buona fede percorrano il sentiero della reintegrazione.

Le eventuali asperità nella comprensione di questo documento non ci spaventino né ci fermino nel cammino verso le Verità che esso nasconde.

Lo Zohar ha costituito per secoli la base di partenza per l’esplorazione degli Hekhalot (Palazzi Celesti).

La meditazione sulla candela rappresenta proprio uno dei modi tradizionali per ascendere verso tali altissimi luoghi dello Spirito, uno dei massimi traguardi cui può aspirare un Kabbalista.

Come accade per ogni porzione dello Zohar, quella qui proposta va letta non una ma mille volte, meditata, riletta ogni volta che si voglia procedere con la meditazione sulla candela e poi meditata ancora una volta al fine di cogliere qualsiasi indicazione, intuizione o messaggio che possa arrivare alla nostra Chokmah, a quella parte di noi capace di ricevere ciò che la parte razionale non è in grado di comprendere.

Infine, vorrei permettermi un piccolo avvertimento proprio in chiave ermeneutica.

Il linguaggio dello Zohar[10] è poetico, allegorico e fortemente simbolico.

La Kabbalah continuamente impiega metafore basate sulla nostra esperienza per spiegare l’inspiegabile e farci vedere l’invisibile.

Se parliamo di luce non ci riferiamo al fenomeno fisico ma ad uno metafisico che può essere compreso attraverso tale termine.

Ciò non toglie che attraverso le metafore e le immagini allusive usate dalla Kabbalah non sia possibile arrivare ad una ricostruzione assai accurata sia del microcosmo che del macrocosmo.

Per quanto attiene al microcosmo, vediamo cosa scrive Paul Levy nel suo saggio “Light Hidden in the Darkness: Kabbalah and Jungian Psychology”:

“Quando Sigmund Freud fu introdotto per la prima volta alla Cabala, esclamò: “È oro!”. Carl Jung espresse un’eccitazione simile, arrivando a dire che gli scritti cabalistici del rabbino Baer di Mesiritz “hanno anticipato tutta la mia psicologia del XVIII secolo”. L’eccitazione di Freud e Jung nasce da un paradosso centrale con cui la Cabala lotta: il male, che per definizione è diametralmente opposto al bene, è allo stesso tempo la sua stessa fonte.

Articolata in modo creativo da Isaac Luria, il mistico del XVI secolo i cui scritti costituiscono la spina dorsale della Kabbalah contemporanea, questa idea della luce nascosta nell’oscurità è anche un’idea psicoanalitica di base, che ha a che fare con il rendere cosciente l’inconscio e con il collegare i complessi scissi all’interezza del Sé. Se non riconosciamo e non paghiamo il nostro tributo all’oscurità, questa si prenderà il suo tributo alle sue condizioni, come il ritorno del represso freudiano, con vendetta. Ecco un punto di partenza per capire che cosa può significare che il male sia la fonte del bene: solo uno stato di cose rotto e disordinato come quello che abbiamo oggi nel mondo può fornire l’ambiente ottimale all’interno del quale l’umanità può esercitare le più grandi virtù spirituali, morali, estetiche e intellettuali che ci rendono veramente un riflesso di Dio. Gli effetti discordanti, non assimilati e antagonisti dei nostri complessi personali e del male dell’universo fanno emergere le nostre più alte potenzialità. È simile al modo in cui una prova su strada per un’auto comporta l’essere sottoposta alle condizioni più difficili per spingerla al limite e far emergere i limiti delle sue capacità prestazionali. Questo mondo è un regno perfetto per la “prova su strada” delle nostre anime. Le più alte virtù dell’umanità sono chiamate a confrontarsi con il male.”

La psicologia, pseudoscienza in cui molti credono ciecamente, ha profonde radici Kabbalistiche, di cui pochi sono consci e ancora meno sono coloro che possono spiegare tali connessioni con una certa accuratezza.

Così va il mondo … con la giusta propaganda[11] si viene considerati attendibili al punto di rendere perizie valide anche in tribunale, mentre altri vengono considerati degli illusi che si occupano di fiabe.

Per quanto riguarda la relazione tra Kabbalah e macrocosmo, fondamentali restano alcune opere di Aryeh Kaplan[12], nonché i saggi di Eduard Shyfrin, di Hyman M. Schipper e quelli sotto citati del Dr. Alexander Poltorak.

Nelle opere di questi illustri studiosi sono state esplorate le possibili relazioni tra Kabbalah e scienze fisiche, con particolare riferimento agli aspetti più complessi della fisica quantistica.

La lettura delle idee espresse in quelle opere procura stupore e meraviglia e apre interrogativi incredibili cui, forse, si può dare una risposta solo ammettendo che la Sapienza possa essere conseguita anche con modalità che la Ragione respinge.

 

[1] Forma specifica di meditazione kabbalistica alla scoperta del sod il significato segreto della Torah e per estensione dell’Universo, di cui la Torah costituisce il progetto. Mediante la Yichud il Kabbalista comprende come strutture tra loro differenti e a volte apparentemente opposte, vadano a concorrere all’Unità del tutto. Nel nostro caso specifico la comprensione del sod deve essere unita al tentativo di comprendere come la Kabbalah cristiana e quella ebraica si completino e si relazionino tra loro senza scadere nel sincretismo (che è il contrario della Yichud in quanto pretende di assimilare tutto in una falsa eguaglianza).  Ma di ciò si vedrà meglio oltre.

[2] Il Sefer Zohar (“Splendore” o “Radianza2) rappresenta un pilastro della letteratura kabbalistica. Il nucleo principale è costituito dal commento sugli aspetti mistici della Torah, nonché materiale sul misticismo, la cosmogonia mitica e la psicologia mistica. Sulle complesse vicende legate alla sua composizione si veda appresso.

[3] Ma vedi sotto per la traduzione in ebraico ad opera del Baal HaSulam. Secondo la dotta opinione di Gershom Scholem e altri studiosi moderni, l’aramaico dello Zohar sarebbe un lessico artificiale basato in gran parte su una fusione linguistica tra il Talmud Bavli (babilonese) e il Targum Onkelos, il principale targum (traduzione) in aramaico ebraico della Torah, accettato come testo pienamente autorevole del Pentateuco, probabilmente composto all’inizio del II secolo d.C.

Sempre secondo questi stimati studiosi, tale linguaggio sarebbe stato reso più complicato a causa delle manchevolezze linguistiche di Moses de León, del suo vocabolario limitato e dal suo ricorso a parole in prestito, anche da lingue medievali contemporanee. Inoltre, l’autore (sempre che sia stato davvero Moses de León), per suscitare nel lettore un senso di occulta e misteriosa conoscenza avrebbe utilizzato sequenze di termini volutamente incomprensibili e senza alcun senso. Senza minimamente voler sminuire questi illustrissimi accademici, è qui che casca figurativamente il somaro. Per uno studioso che segua un certo set di regole derivanti dallo sviluppo scientifico occidentale, certe cose appaiono senza senso, tanto da sospettare addirittura un intento malizioso e ingannatorio nel presunto autore dello Zohar. Insomma, se ti occupi di metafisica sei sempre un po’ ciarlatano. Per un Kabbalista, magari dotato di un paio di nozioni di gematria, ovvero di tecniche di meditazione mediante permutazione delle lettere, le cose che apparentemente appaiono prive di significato possono assumerne uno perfettamente intelleggibile, forse occultato volontariamente per renderlo incomprensibile … ai positivisti dell’accademia.

Dalle opere di Isacco d’Acri e altri grandi Kabbalisti sappiamo che il testo originale dello Zohar era scritto parte in ebraico e parte in aramaico. All’epoca della prima edizione a stampa (1558) il testo era interamente in aramaico, con l’eccezione del Midrash haNe’elam, dove spesso vengono utilizzate parole e frasi in ebraico.

[4] Yehuda Ashlag (Varsavia, 24 settembre 1884 – Gerusalemme, 7 ottobre 1954) fu un autorevole esponente dell’ebraismo ortodosso e profondo conoscitore della mistica ebraica. Nato a Varsavia in una famiglia di studiosi legati alle dinastie chassidiche di Porisov e di Belz, Rabbi Ashlag visse a Gerusalemme dal 1922 fino alla sua morte, avvenuta nel 1954. Oltre al suo commento allo Zohar, l’altro suo lavoro principale, il Talmud Eser Sefirot rappresenta un importante testo di studio per molti studenti di Kabbalah. Influenzato sicuramente dall’atteggiamento Chassidico nei confronti della conoscenza Kabbalistica, ritenne che lo scopo della sua esistenza fosse quello di avvicinare alla comprensione dello Zohar il maggior numero possibile di anime in modo da portarle più vicine alla Luce Divina.

[5] Nel linguaggio della Kabbalah, la forma in cui la luce arriva a noi è chiamata “associazione della qualità della misericordia nel giudizio”.  Come osserva Laitman La correzione nelle tre linee è la capacità di differenziare l’influenza della Luce, il desiderio di dare (linea destra), l’influenza del desiderio di ricevere (linea di sinistra), e la capacità di essere in mezzo a loro, per accoppiarle e connetterle tra loro nella linea di mezzo. Se una persona lavora al di sopra della ragione, al fine di connettere i suoi vasi di ricezione con la forza della dazione che esiste in lui, ciò significa che egli si trova nella linea di mezzo, nel suo punto di mezzo e sta facendo correzioni nelle tre linee. In questo caso, non usa la sua Malchut reale, ma solo Malchut che sale a Yesod. Significa che esamina i vasi, che saranno nella connessione corretta e la partecipazione di Malchut e Binah. La correzione nelle tre linee è possibile solo dopo la seconda restrizione (Tzimtzum Bet) quando è chiaro che Malchut non è in grado di ricevere alcuna Luce in sé stessa, ma solo a condizione che salga al livello di Binah. (Nella spiritualità la salita simboleggia la correzione). Nel momento in cui Malchut sale a Binah, esse in parte si connettono. Malchut chiarisce quali delle sue qualità può utilizzare per essere in contatto con la Luce, con Keter. Al fine di essere simile a Keter e dare come Keter, è necessario connettersi con Binah e diventare simile a lei, uguale a Binah. Nel momento in cui Binah si espande da cima a fondo, vuole essere simile a Keter con tutta la profondità della sua grossolanità (Aviut). Una corretta unione tra Malchut e Binah porta Malchut alla posizione nella linea di mezzo. Di tutto ciò meglio innanzi nel commento al versetto 255.

[6] Illustre Kabbalista e maestro del celebre Ramban, Moshe ben Nachman Girondi, noto anche come Nachmanide.

[7] Ma anche la metafisica Sufi, non a caso vivissima nello stesso ambito spaziotemporale, si collocava su posizioni analoghe, come insegna la straordinaria vicenda di Muhammad ibn ʿAlī ibn Muhammad ibn al-ʿArabī (1165 – 1240) e dei suoi allievi che danno un’interpretazione strutturata del concetto di waḥda, che significa “unità”, e che genera due approcci apparentemente diversi, ma le cui differenze appaiono prevalentemente semantiche: la Waḥdat al-wujūd, che significa letteralmente “Unicità di Esistenza” o “unicità dell’essere” e la Waḥdat al-shuhūd, che significa “Unicità della testimonianza” o “apparentismo”, che sostiene che Dio e la sua creazione sono completamente separati. Che ci si trovi in ambito Kabbalistico o in quello Sufi queste posizioni possono essere definite panenteistiche. Il panenteismo sostiene che l’Essere Supremo sia immanente nell’universo, ma che allo stesso tempo lo trascenda. Si distingue dal panteismo, che sostiene che Dio coincida invece con l’universo materiale. Già il filosofo greco Eraclito nel V secolo a.C. aveva suggerito una definizione del Logos molto simile alle posizioni panenteistiche.

Particolarmente interessanti sono le confraternite islamiche dei Bektashi e soprattutto degli Aleviti, i quali hanno stemperato il panenteismo Sufi in chiave umanistica con risultati francamente affascinanti in chiave evolutiva.

Anche in altre culture, quali quella induista ci sono correnti panenteistiche.

[8] Shneur Zalman Borukhovich, meglio conosciuto come Shneur Zalman di Liadi (1745 – 1812), è stato un rabbino, filosofo e scrittore fondatore del movimento Chabad-Lubavitch e primo Rebbe dei Chassidim della Chabad.

Conosciuto presso i suoi seguaci e nelle altre dinastie chassidiche con vari appellativi (Alter Rebbe, RaZaSh, Baal HaTanya vehaShulchan Aruch, Rabbeinu HaZokein, Rabbeinu HaGodol, GRaZ o Rav), Shneur Zalman visse nell’attuale Bielorussia, dove fondò la scuola chassidica detta Chabad, inizialmente basata a Liadi, nell’Impero russo. Autore di molte opere filosofiche e religiose: le più famose sono lo Shulchan Aruch HaRav, il Tanya e il suo Siddur Torah Or, compilato secondo la Nusach AriNusach significa innanzitutto “testo” o “versione”, la formulazione corretta di un testo religioso o di una liturgia. Così, il nusach tefillah è il testo delle preghiere, in generale o in una particolare comunità. Rabbi Schneur Zalman decise di intraprendere il compito di compilare un libro di preghiere che amalgamasse gli insegnamenti cabalistico-chassidici (compresi i suoi) con quella che egli considerava la versione più corretta del rito sefardita lurianico.

[9] Per onestà intellettuale ammetto senza problemi che la mia personale formazione kabbalistica, essendo avvenuta principalmente tra i Chabad di Tzfat, risente moltissimo di tale impostazione. Vorrei anche sottolineare, però, che gran parte della Kabbalah vivente va ricercata proprio nella Chassidut.

[10] Non intendo qui affrontare il pur affascinante problema della paternità di questa opera così famosa.

Oltre alle celebri tesi di Gershom Scholem si vedano anche le opere del suo grande allievo Yehuda Liebes secondo le quali, sulla scorta proprio di quelle dello Scholem, sarebbe da rifiutare la tradizionale attribuzione dello Zohar alle fatiche dei discepoli di Shimon bar Yochai in Israele (II secolo). Secondo Scholem-Liebes un gruppo di cabalisti spagnoli del XIII secolo, tra cui Moses de León, compose l’opera, ognuno riflettendo il proprio approccio alla Kabbalah. Liebes sostiene anche che il Ketem Paz sullo Zohar e l’inno cabalistico piyyut, “Bar Yochai,” strettamente connessi nella tradizione allo Zohar, furono scritti da due autori diversi con nomi simili, e non da Shimon Lavi che è tradizionalmente accreditato come autore di entrambe le opere. Il Ketem Paz è un ampio commento allo Zohar, esistente solo sul libro della Genesi. Scritto da Rabbi Shimon (ibn) Lavi, un leader dell’ebraismo libico del XVI secolo, mostra un’indipendenza intellettuale dalle influenti scuole cabalistiche di Tzfat, dimostrando invece l’influenza della Kabbalah e della filosofia spagnola precedenti. Le caratteristiche principali includono la terminologia filosofica, l’interpretazione metaforica e la sua visione dello studio dello Zohar come percorso di meditazione su D-o.

Esaurito il compitino di sapore accademico vorrei aggiungere che:

  • Come indicato da alcuni studiosi, nessuno può sapere quanto risalenti nel tempo fossero i contenuti utilizzati dai kabbalisti spagnoli, anche nell’ipotesi che a loro si debba la redazione a noi nota del Sefer Zohar.
  • L’intera narrativa che lega Shimon bar Yochai allo Zohar rappresenta uno dei misteri più grandi della Kabbalah. Questa complessa struttura, che comprende elementi diversi, quali la tomba santuario di Rabbi Shimon e di suo figlio a Meiron, o il fatto che il gruppo dei grandi Kabbalisti di Tzfat si sia fatto seppellire in un cimitero posto sul fianco scosceso della collina sulla quale si posa la città, in modo che le tombe siano in linea diretta di vista proprio di Meiron.
  • La stessa figura di Rabbi Shimon risulta atipica, favolistica rispetto ad altre grandi figure dell’Ebraismo come rabbi Akiva, maestro di Rabbi Shimon.
  • I rituali profondi, complessi e ricchi di mistero che coinvolgono il santuario di Meiron, dal primo taglio di capelli ai bambini alla meravigliosa festa del Lag B’Omer, con l’accensione dei falò.
  • La pretesa, poi ritirata dopo le violentissime proteste da parte dei rabbini di Gerusalemme, del gruppo dei grandi kabbalisti di Tzfat di aver trovato, forse a Meiron, il mezzo/giustificazione per poter nuovamente procedere all’iniziazione integrale dei rabbini, persa da molti secoli assieme al segreto delle ceneri della vacca rossa.
  • La presenza in quel cimitero di Tzfat di una casa o quasi-cenotafio del profeta Elia.
  • La tradizione, rinnovata e mutata, che situerebbe oggi in Tzfat (e non a Gerusalemme) la grotta ove Melchidesech avrebbe impartito i suoi insegnamenti ad Abramo e Isacco. Quest’ultimo punto, che comporta corollari incredibili, quanto logicamente comprensibili se connessi a quanto sopra esposto, rappresenta forse la chiave di lettura principale di tutta la questione.

Per chiudere, l’accademia, giustamente, ci aiuta a comprendere alcune verità storiche che a volte contrastano con la tradizione, ma le tradizioni a loro volta spesso vengono raccontate in certo modo al fine di nascondere altre verità che non possono essere rivelate a tutti. Sta di fatto che già ai tempi di Pompeo il Kadosh Kadoshim (Santo dei Santi) del Tempio era stato svuotato, come constatò con fastidio il condottiero romano che aveva insistito a profanare il luogo più santo di Israele … A proposito, a Pompeo tale gesto sacrilego e molto poco romano non portò grande fortuna.

[11] “Propaganda” è il titolo di un libro pubblicato nel 1928 da Edward Bernays, considerato uno dei padri fondatori delle moderne tecniche di manipolazione profonda delle masse. L’opera è famosa per il suo approccio innovativo all’uso della comunicazione per influenzare il pensiero e il comportamento, e per il suo legame con il concetto di “ingegneria del consenso”. Bernays, nipote di Freud, contribuì moltissimo all’attribuzione alla psicologia dello status di disciplina “affidabile,” malgrado le implicite incertezze ed i limiti evidenti.

[12] Fisico brillante oltre che grande Kabbalista. In relazione al tema del macrocosmo si veda, fra gli altri, il suo commento alla fondamentale opera del rabbino padovano Moses Chaim Luzzatto (RaMCHaL) il Derek Hashem.

Segue

Silvano Danesi

Silvano Danesi

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