di Filippo Maria Leonardi
Antoine Fabre d’Olivet (1767-1825) può essere considerato come il maggiore rappresentante della teoria fonosemantica ma allo stesso tempo anche il meno conosciuto. Nonostante le sue notevoli competenze linguistiche, a causa della sua stravaganza intellettuale, fu per lo più ignorato dalla comunità scientifica. Per esempio Gérard Genette non lo prese in alcuna considerazione nel suo approfondito studio sulla storia del fonosimbolismo. Eppure il noto linguista B. L. Whorf, che insieme al suo maestro E. Sapir ha introdotto il principio della relatività linguistica, rimase affascinato da Fabre d’Olivet e lo definì «un metafisico mistico e religioso che mescolò questo lato della sua natura con i lavori di uno dei più potenti intelletti di ogni epoca».
Fabre d’Olivet nacque a Ganges nel 1767, fu membro del Club dei Giacobini durante la Rivoluzione francese, fondò il giornale politico “L’invisibile” sostenendo di poter assistere ai lavori del Corpo Legislativo grazie ad un anello magico che gli conferiva il potere dell’invisibilità, occultista sui generis e colto filologo, pubblicò un romanzo in stile trovadorico, un romanzo cosmogonico in cui descrisse gli usi degli abitanti di Atlantide e un trattato sui giochi di società. Fu condannato per aver cospirato contro Napoleone ma fu salvato per l’intervento del senatore Lenoir-Laroche, compose delle liriche in dialetto della Linguadoca attribuite per finzione a un poeta medievale, si innamorò di una ragazza che morì prematuramente e che poi gli apparve ripetutamente come fantasma durante i sogni, occupò la carica di funzionario del Ministero della Guerra, curò un sordomuto con l’ipnotismo, fondò il culto teodoxico universale, cercò invano la sua amata defunta pensando che si fosse reincarnata in un’altra donna, morì improvvisamente a Parigi nel 1825 colpito da un colpo apoplettico mentre celebrava un rito. Saint-Yves d’Alveydre diffuse la leggenda che si fosse suicidato con un pugnale rituale per celebrare un sacrificio cosmico. Le sue spoglie riposano nel cimitero del Père-Lachaise, lo stesso dove è sepolto Jim Morrison, il cantante del gruppo musicale The Doors che prese il nome dal libro di Aldous Huxley del 1954 “Le porte della Percezione”. Oggi la tomba di Jim Morrison è meta del pellegrinaggio di fan e turisti, mentre quella di Fabre d’Olivet appare quasi abbandonata e ricoperta di erbacce, eppure questo personaggio meriterebbe ben altra considerazione.
L’opera principale di Fabre d’Olivet è La langue hébraïque restituée, pubblicata nel 1815, composta da una Grammatica ebraica, un Vocabolario radicale dell’Ebraico e una traduzione dei primi dieci capitoli del Libro della Genesi. Si tratta di un’opera che potremmo definire “eretica” dal punto di vista scientifico ancorché religioso, ma considerando la sola trattazione sul linguaggio, Whorf la ritiene innovativa e «molto in anticipo sui tempi». Il presupposto fondamentale della fonosemantica è che il rapporto tra significante e significato non sia arbitrario o convenzionale. Al riguardo Fabre d’Olivet assume una chiara posizione: «Se il linguaggio umano è una convenzione, come si è stabilita questa convenzione senza linguaggio? Leggete con attenzione Locke e Condillac, il suo discepolo più laborioso; assistereste, se volete, alla decomposizione di una macchina ingegnosa, potreste ammirare forse la destrezza del dissezionatore; ma restereste ignoranti come lo eravate prima, sia sull’origine di questa macchina, sia sullo scopo che si è proposto il suo autore, sia sulla sua intima natura, sia sul principio che ne fa muovere le molle. Che voi riflettiate da soli, o un lungo studio vi abbia insegnato a riflettere sull’opinione degli altri, vedreste comunque nell’abile analista soltanto un ridicolo operatore, che volendo spiegarvi come e perché un tale attore danza nel teatro, prende lo scalpello e disseziona le gambe di un cadavere».
Fabre d’Olivet mostra un evidente disprezzo per l’empirismo e il convenzionalismo linguistico: «Bisogna essere, in effetti, posseduti dallo spirito sistematico per ammettere simili idee; e soprattutto marcire in una singolare ignoranza degli elementi primari del linguaggio, per pretendere come Hobbes, poiché è dietro a lui che tutti i nostri eruditi moderni l’hanno preteso, che non ci sia niente che non sia arbitrario nell’istituzione della parola».
Fabre d’Olivet non rifiuta l’idea che il mondo sia una macchina, ma se da una parte ne ammira il creatore, dall’altra ne disprezza l’indegno analizzatore, che non ne comprende la complessità. Charles de Brosses aveva già dimostrato di poter spiegare il carattere imitativo del linguaggio in termini di meccanica fisiologica, ma nel frattempo c’era stato anche Antoine Court de Gébelin che aveva travalicato la dimensione strettamente materialista, attribuendo alle lettere il valore di simboli universali. Fabre d’Olivet riprende questa idea e la porta alle estreme conseguenze pratiche, considerando il linguaggio umano, dal punto di vista grammaticale ma anche lessicale, come scomponibile in elementi primari non arbitrari, fondati sulla natura essenziale delle cose: «Sì, se non mi sono sbagliato per la debolezza del mio talento, farò vedere che le parole che compongono le lingue, in generale, e quelle della lingua ebraica, in particolare, lungi dall’essere tirate a caso, e formate per l’impeto di un capriccio arbitrario, come si è preteso, sono al contrario prodotti da una ragione profonda; proverò che non ce n’è una che non si possa, per mezzo di una analisi grammaticale ben fatta, ricondurre a degli elementi fissi, di una natura immutabile nell’essenza, benché variabile all’infinito per le forme. Questi elementi, che possiamo qui esaminare, costituiscono quella parte del discorso che io chiamo Segno. Comprende, come ho detto, la voce, il gesto e il carattere tracciato».
Ciò vale in senso universale per ogni lingua, ma sicuramente in modo particolare per la lingua ebraica, che fissandosi nelle Sacre Scritture, si è conservata nella sua struttura originaria e non è stata corrotta da variazioni accidentali. Tuttavia la lingua ebraica, per Fabre d’Olivet, non rappresenta la lingua originaria dell’umanità: «Si è dedicato un gran numero di fantasticherie a questa Lingua, e il pregiudizio sistematico o religioso che ha guidato la penna degli storici, ha talmente oscurato la sua origine, che oso appena dire qual è, per quanto è semplice quello che devo dire. Questa semplicità potrà tuttavia avere il suo merito; poiché se non l’esalto fino a dire come i rabbini della sinagoga o i dottori della Chiesa, che essa ha presieduto alla nascita del mondo, che gli angeli e gli uomini l’hanno appresa dalla bocca di Dio stesso, e che questa lingua celestiale, ritornando alla sua origine, diventerà quella che i beati parleranno nel cielo; non dirò neanche come i filosofi moderni che è il gergo miserabile di una orda di uomini maliziosi, ostinati, diffidenti, avari, turbolenti; dirò invece, senza alcuna faziosità, che l’ebraico racchiuso nel Sepher è il più puro idioma degli antichi Egiziani» .
Di lì a poco François Champollion lo avrebbe clamorosamente smentito, riuscendo a decifrare la scrittura geroglifica sulla base di una ipotesi migliore: che la scrittura copta avesse «trasmesso la stessa lingua egiziana in quasi tutta la sua integrità», ipotesi già sostenuta da Athanasius Kircher nel 1636, sebbene il gesuita a sua volta fosse caduto nell’errore di considerare la scrittura geroglifica come esclusivamente ideografica o simbolica. Fabre d’Olivet identificò erroneamente l’ebraico con la lingua dell’antico Egitto. Ma almeno non commise l’errore di sopravvalutarla, né di sottovalutarla: «No, la lingua ebraica non è né la prima né l’ultima delle lingue; non è l’unica delle lingue madri, come ha creduto erroneamente un teosofo moderno che d’altronde stimo molto, perché non è la sola che abbia generato delle meraviglie divine; è la lingua di un popolo potente, saggio, religioso; di un popolo contemplativo, profondamente istruito nelle scienze morali, amante dei misteri; di un popolo la cui saggezza è stata giustamente ammirata. Questa lingua, separata dal suo tronco originario, allontanata dalla sua culla per effetto di una emigrazione provvidenziale di cui è inutile riferirne ora, divenne l’idioma particolare del popolo ebraico; e come un ramo fecondo che un abile agricoltore abbia trapiantato su un terreno preparato appositamente, per fruttificarvi molto tempo dopo che il tronco inaridito da cui è stato tratto è scomparso, esso ha conservato e portato fino a noi il deposito prezioso delle conoscenze egiziane».
Riguardo alla definizione di “segno” Whorf puntualizza: «Rifiutando di identificare le lettere della scrittura ebraica con gli attuali elementi fonetici e quindi percependo che questi elementi non sono solamente dei suoni, ma dei suoni stereotipati, codificati e semanticamente modellizzati, egli giunge ad una concezione del fonema, che denomina “segno” o “segno vocale” in contrasto con la terminologia ma mostrando una reale attinenza con la linguistica attuale». E ancora: «Il segno vocale (fonema) è un gesto altamente specializzato o atto simbolico, il linguaggio è uno sviluppo del comportamento somatico complessivo che diventa simbolico e quindi devia il suo simbolismo sempre di più nel canale vocale, tale è il suo insegnamento espresso nel linguaggio moderno».
Fabre d’Olivet attribuisce ad ogni lettera dell’alfabeto ebraico una specifica valenza semantica che apparentemente non sembra motivata in modo fonosimbolico. In realtà, ancor prima di analizzare singolarmente le 22 lettere, le riassume in 15 gruppi in base al tipo di articolazione fonetica, perciò implicitamente ammette che tale caratteristica influisce sul significato, poiché le lettere foneticamente simili, implicano anche significati simili.
Fabre d’Olivet si ispira dichiaratamente a Court de Gébelin ma implicitamente a Caspar Neumann che per primo attribuì alle singole lettere dell’alfabeto ebraico uno specifico significato simbolico, riferendosi al loro carattere geroglifico piuttosto che alla loro pronuncia. Eppure, qua e là, in Fabre d’Olivet troviamo dei chiari riferimenti al valore fonosimbolico. Per esempio, riguardo alla lettera Zain: «Questo carattere appartiene, in qualità di consonante, al tipo sibilante e si applica, come onomatopea, a tutti i rumori sibilanti, a tutti gli oggetti che fendono l’aria e vi si riflettono. Come simbolo rappresenta il giavellotto, il dardo, la freccia, tutto quello che tende a un obiettivo: come segno grammaticale è il segno dimostrativo, immagine astratta del legame che unisce le cose».
L’atteggiamento di Fabre d’Olivet nei confronti del fonosimbolismo denota una certa trascuratezza. Per quanto sia implicito che il suono debba corrispondere al Segno in modo non arbitrario, Fabre d’Olivet sembra rifuggire una trattazione troppo meccanicistica come quella di Charles De Brosses, preferendo considerare ogni Segno come un archetipo astratto di cui il suono è soltanto una delle forme espressive. La giustificazione del valore semantico del Segno si trova piuttosto nella scomposizione del vocabolario ebraico in radici e delle radici nei singoli segni che le compongono. Fabre d’Olivet ha il merito di aver evidenziato il meccanismo combinatorio tipico della fonosemantica, perfezionandolo rispetto a Caspar Neumann. Whorf ne parla in modo ammirato: «Ha mostrato come molti termini ebraici possano essere scomposti in frazioni significative, come ad esempio in Inglese si possono scomporre allo stesso modo le parole flash, flicker, clash, click, clak, crack, crash, lick, lash». Tuttavia Fabre d’Olivet era talmente in anticipo sui tempi, o forse talmente in ritardo rispetto alla subentrante modernità, che lo stesso Whorf non si rese conto della reale portata del meccanismo combinatorio. Infatti lo paragona all’uso dei fonestemi della lingua inglese, sebbene tale fenomeno costituisca un caso molto particolare di fonosimbolismo, talvolta anche di tipo convenzionale. Nell’esempio di Whorf, d’altra parte, sono indicate per lo più delle onomatopee, che dunque hanno una valenza molto specifica e limitata, non rappresentativa della fonosemantica in generale.
L’intuizione di Fabre d’Olivet va molto più in profondità. Non solo rivela il significato connaturato al singolo segno, ma a tratti mostra anche l’interconnessione naturale fra i vari segni, che sottintende una vera e propria struttura fonosemantica di tutto l’alfabeto. Per esempio, riguardo al segno SH dice che «questo carattere deriva dal suono vocale I passato allo stato di consonante» mentre Ĥ «è il segno W considerato nelle sue relazioni puramente fisiche». Tali collegamenti, che si realizzano tramite la condivisione di una qualche caratteristica fonetica, si riflettono anche sul piano semantico. Ne abbiamo un chiaro esempio nella serie delle gutturali, per le quali si intravede chiaramente una progressione che va dalla più lieve alla più marcata, in parallelo con la progressiva materializzazione del significato: «Ê, CH. Questo carattere intermedio fra H e K che designano l’uno la vita e l’esistenza assoluta, l’altro la vita relativa e l’esistenza assimilata, è il segno dell’esistenza elementare: ci dà l’immagine di una sorta di equilibrio e si riferisce alle idee di sforzo, fatica e azione normativa e legislativa».
«K. KH. Segno assimilativo. E’ una vita riflessa e passeggera, una sorta di stampo che riceve e restituisce tutte le forme. Deriva dal carattere CH che a sua volta deriva dal segno della vita assoluta H. Così, attinente da un lato alla vita elementare, aggiunge al significato del carattere CH quello del segno organico G di cui è, del resto, una specie di rafforzamento».
«Q. Segno estremamente compressivo, astringente e tagliente: immagine della forma agglomerante o repressiva. E’ il carattere K interamente materializzato e applicato agli oggetti puramente fisici».
In definitiva «ecco la progressione dei segni: H la vita universale, CH l’esistenza elementare, lo sforzo della natura; K la vita assimilata attinente alle forme naturali; Q l’esistenza materiale che conferisce il mezzo delle forme».
Anche in questo caso Fabre d’Olivet dimostra di aver colto, prima degli altri, un altro dei principi fondamentali della fonosemantica: la caratterizzazione degli elementi fonetici, con relativi significati, secondo uno schema di reciproche corrispondenze e opposizioni.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:
– Charles de Brosses, Traité de la formation méchanique des langues et des principes physiques de l’étymologie, Saillant, Vincent & Desaint, Paris, 1765.
– Antoine Court de Gébelin, Monde primitif, analysé et comparé avec le monde moderne, Vol. III, Origine du language et de l’écriture, Paris, 1775.
– Antoine Fabre d’Olivet, La langue hébraïque restituée, Paris, 1815 > L’Age de l’Homme, Paris, 1985.
– Benjamin Lee Whorf, A linguistic consideration of thinking in primitive communities, 1936 > Language, Thought and Reality: Selected Writings of Benjamin Lee Whorf, Martino Publishing, Mansfield Centre CT, 2011.
– Gérard Genette, Mimologique: Voyage en Cratylie, Editions du Seuil, Paris, 1976.
– Alexandrian, Storia della filosofia occulta, Mondadori, Milano, 1996 < Histoire de la philosophie occulte, Editions Seghers, Paris, 1983.
– Filippo M. Leonardi, La Fonosemantica secondo Antoine Court de Gébelin, academia.edu, 2016.
– Filippo M. Leonardi, La Fonosemantica secondo Antoine Fabre d’Olivet, academia.edu, 2017.
– Filippo M. Leonardi, La Fonosemantica secondo Caspar Neumann, academia.edu, 2018.