IL DIVINO È CAMMINO, CAMMINARE E CAMMINATORE

Feb 24, 2023 | FILOSOFIA

di Silvano Danesi

Riprendo l’interrogativo di Gianfranco Costa: “Cammino, sostantivo o presente indicativo?” al quale l’autore fa seguire una serie di considerazioni riguardanti il cammino iniziatico.

Prima di entrare nel merito di alcune affermazioni di Gianfranco Costa sulla via iniziatica, ritengo opportuno anticipare il tema di questa mia riflessione: “L’Essere o, se si preferisce il Divino, è il cammino, il camminare e il camminatore in perenne cammino”.

Il concetto è espresso nel vocabolo greco Archè, che nei presocratici è il Principio, il perché di tutte le cose: ciò da cui, in cui e per cui le cose sono. Da cui indica il Principio come origine. In cui indica il coesistere del Principio con la sua manifestazione (tutte le cose). Per cui indica il Principio come causa.

Il concetto del Principio come origine, come produttore e come prodotto, ossia della coesistenza dell’essere e del divenire, è espresso da quel: “Deus sive natura” che accomuna Baruch Spinoza e Giordano Bruno.

Spinoza, infatti, evita qualsiasi contaminazione antropomorfica di Dio, cosicché il suo Dio è “Deus sive natura”, “Dio ossia la natura”: “un essere assolutamente infinito, cioè, una sostanza costituita da un’infinità di attributi, ciascuno dei quali esprime un’essenza eterna e infinita”. (Etica). Dio è causa di sé ed è “ciò la cui essenza implica l’esistenza; ossia ciò la cui natura non si può concepire se non esistente”. (Etica). “Intendo per sostanza – spiega Spinoza – ciò che è per sé e per sé si concepisce: vale a dire ciò il cui concetto non ha bisogno del concetto di un’altra cosa dal quale esso debba essere formato” (Etica); a proposito degli attributi scrive. “Intendo per attributo ciò che l’intelletto percepisce della sostanza costituente la sua essenza” (Etica).

Le molteplici cose delle quali è costituita la nostra esperienza per Spinoza sono modi della sostanza.

Di Dio, scrive Spinoza: “Noi diciamo che è un essere di cui tutto si può affermare, cioè un numero infinito di attributi, dei quali ciascuno, nella sua specie, è perfetto infinitamente”.(Breve trattato). “Gli attributi – spiega Arnaldo Petterlini – non sono da intendersi, secondo quanto ci suggeriscono le regole elementari dell’analisi logica, come aspetti qualitativi che si aggiungono al nome inteso come referente principale, come sostantivo, ma sono essi stessi a costituire il sostantivo, a determinare il significato essenziale”.[1]

Dio, dunque, è natura, intesa come natura naturans e natura naturata e la nostra realtà è “il regno dei modi”.

Inoltre, secondo Spinoza, “Dio è causa immanente, e non transitiva, di tutte le cose” (Etica).

“Il produrre di Dio – spiega Arnaldo Petterlini – è dunque un eterno e necessario produrre, in cui ciò che è prodotto non è esterno, ma fa parte dello stesso producente, come l’intelletto produce i concetti, ma i concetti sono momenti dello stesso intelletto”.[2] Infine, riguardo all’essere umano, Spinoza scrive: “L’essenza dell’uomo è costituita da certi modi degli attributi di Dio” (Etica).

Al centro della riflessione bruniana vi è la nozione di infinito, analizzata sia sul piano cosmologico, sia su quello ontologico. A livello cosmologico, Bruno critica il geocentrismo e nega le teorie aristoteliche di un cosmo composto da sfere cristalline concentriche.

Il concetto di infinito raggiunge l’apice in riferimento alla nozione di Dio come intelletto universale, motore dell’universo, fabbro del mondo. Dio è quindi mente al di sopra di tutto (mens super omnia) e mente presente in tutte le cose (mens insita omnibus). Per quanto riguarda il primo aspetto, Dio si configura come radicale alterità rispetto alla natura, trascendente e inconoscibile, e, dunque, oggetto di fede; per il secondo aspetto, invece, è immanente al cosmo e coincide quindi con la natura (da qui la celeberrima formula “Deus sive natura”) ed è accessibile alla mente umana.

Dio, inoltre, è al contempo natura naturans, che dà vita alla natura ed è fonte e causa degli enti, e natura naturata, quindi natura che viene all’esistenza, principio delle cose (inteso questo come l’essere stesso degli enti naturali). Scrive Bruno, nel De causa, principio et uno: “Da noi si chiama artefice interno, perché formula la materia e la figura da dentro: come da dentro del seme o radice manda ed esplica il tronco; da dentro il tronco caccia i rami; da dentro i rami i rami principali; da dentro questi spiega le gemme; da dentro forma, figura, intesse, come di nervi, le frondi, i fiori, i frutti”.

Il Dio-Natura di Bruno non si limita a una mera creazione, ma si comunica in modo incessante all’universo, suo specchio e ritratto, nel quale egli si rifrange in modo infinito e necessario. Dio e l’Universo, dunque, si identificano mediante degli attributi: sono immobili, unici, ingenerati, imperituri, incorruttibili, infiniti, e, in essi, per la coincidentia oppositorum, il massimo e il minimo coincidono. Bruno dimostra ciascuno di questi caratteri nel De la causa, principio et uno: “È dunque l’universo uno, infinito, immobile. Una, dico è la possibilità assoluta […] uno il massimo ed ottimo; il quale non deve posser esser compreso; e però infinibile ed interminabile, e per tanto infinito e interminato, e per conseguenza immobile. Questo non si muove localmente, perché non ha cosa fuor di sé ove si trasporte, attesto che sia il tutto. Non si genera; perché non è altro essere che lui possa desiderare o atteso che abbia tutto lo essere. Non si corrompe; perché non è altra cosa in cui si cange, atteso che lui sia ogni cosa. Non si può sminuire o crescere […] Non è alterabile […]; non si agguaglia, perché non è altro ed altro, ma uno e medesimo; e per ciò che non ha parte e parte, non è composto”.

La speculazione sull’essere-Principio e sul suo divenire ha come riferimento principale il pensiero di un gigante della filosofia come Eraclito, il quale, scrive Giovanni Reale, “rilevò la perenne mobilità di tutte le cose che sono: nulla resta immobile e nulla permane in uno stato di fissità e stabilità; tutto si muove, tutto cambia, tutto trasmuta, senza posa e senza eccezione”.[3]  Il concetto è espresso nel frammento fr. 40 = 12 DK: “Sopra quelli che avanzano il passo entro i medesimi fiumi diverse e sempre diverse scorrono le acque” ed è sintetizzato nel famosissimo “panta rei”.

L’unica permanenza è il divenire, che è continua trasformazione, la quale si determina nel continuo passare di tutte le cose da un contrario al suo contrario.

Il fondamento strutturale della realtà è il cammino e il camminare del camminatore, che è cammino di se stesso e che è continua trasformazione nell’avvicendamento continuo dei contrari.

Il fondamento strutturale della realtà è il conflitto, il polemos, che nella trasformazione determina il perenne pacificarsi dei belligeranti, il conciliarsi dei contendenti, l’armonia dei contrari. Se “le cose hanno realtà solo in quanto divengono, e se il divenire consiste negli opposti che si contrastano, e contrastandosi si pacificano in una superiore armonia, allora è chiaro che nella sintesi degli opposti sta il principio che spiega tutta la realtà”.[4] “E’ evidente – continua Reale -, per conseguenza, che il Dio o il Divino coincide altresì con il principio dell’armonia dei contrari, con l’unità degli opposti”.[5]

Eraclito, per rendere perfettamente evidente il concetto che il Principio è e diviene, individua come Archè il fuoco, che è tutte le cose ed è  in continuo movimento. “Tutte le cose sono scambio equivalente per il fuoco, e il fuoco per tutte le cose, come i beni lo sono per l’oro e l’oro per i beni”. (fr.54 =90 Dk). “Questo ordinamento del mondo, il medesimo per tutti (gli uomini) nessuno degli dèi o degli uomini lo ha fatto, ma è sempre stato, è, e sempre sarà: un fuoco sempre-vivo, che di misura si accende e di misura si spegne”. (fr 51 = 30DK).

“Il motivo per cui Eraclito ha additato proprio nel fuoco la «natura» di tutte le cose – scrive Giovanni Reale -, diventa chiaro non appena si ponga mente al fatto che il fuoco esprime in modo paradigmatico le caratteristiche del perenne mutamento, del contrasto, dell’armonia”.[6]

Il fuoco è l’arché e il lógos eracliteo è la regola secondo la quale tutte le cose si realizzano ed è la Legge che è comune a tutte le cose e che governa tutte le cose. Il lógos è Pensiero, Intelligenza.

Il Principio divino, il fuoco che sempre-vive ha un’intelligenza: il lógos. “La natura umana – afferma Eraclito – non ha intuito, ma la divina sì”. (fr 90 = 78 DK).

Cosicchè, dice Eraclito: “Sapienza è una cosa sola: conoscere il Pensiero (l’Intelligenza) da cui tutte le cose sono pilotate per ogni dove”. (fr 85 = 41DK). E per conoscere il Pensiero è necessario ascoltare: “Se hai udito [e compreso] non me ma il Lógos, è saggio concordare che tutte le cose sono uno”. (fr26 = 50 DK).

E’ quell’ascoltare che Gianfranco Costa suggerisce a quanti intendano “camminare” sul “cammino” iniziatico.

Il rapporto tra camminatore, cammino e camminare esprime lo stesso concetto espresso dallo spinoziano produttore, che è al contempo produzione e prodotto. Il concetto che il Principio è contestualmente il cammino, il camminatore e il camminare è bene espresso anche nel Vangelo di Giovanni (14 -1,11), dove nel Prologo è scritto: “Nel Principio (arché) era il Verbo (lógos, ndr) e il Verbo (lógos, ndr) era presso Dio [theón,ndr] e il Verbo (lógos, ndr) era Dio [théos, ndr]”. Egli [il lógos,ndr] era, nel principio [archè,ndr], presso Dio [theón, ndr]: tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste”.

Lógos è, nelle sue varie accezioni, verbo, vibrazione, relazione e azione ed è theós, il quale, in quanto derivante da theeîn, correre e da theâsthai, vedere, è azione e visione, ossia sguardo che determina l’azione e che ordina, cosicché il cháos (radice indoeuropea cha che interviene in vari gruppi di parole quali chásco, cháino, che significano mi apro, mi dischiudo), nel suo dischiudersi diventa, sotto lo sguardo che agisce e ordina (l’azione osservante), il cosmo (radice indoeuropea kens, latino censeo dal significato di annuncio con autorità, decreto), ossia ciò che si impone.

Essendo il significato principale di lógos relazione, possiamo anche tradurre l’incipit del Prologo di Giovanni in questo modo: “Nel principio (arché) è la relazione (lógos) e la relazione (lógos) è nel principio (arché) presso l’azione (theon) e la relazione (lógos) è azione”.

Nello stesso Vangelo (14-1,11) troviamo anche una definizione puntuale della consustanzialità dell’archè e del lógos, che Giovanni chiama Padre e Figlio.

1 «Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. 2 Nella casa del Padre mio vi sono molti posti. Se no, ve l’avrei detto. Io vado a prepararvi un posto; 3 quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, ritornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io. 4 E del luogo dove io vado, voi conoscete la via».

5 Gli disse Tommaso: «Signore, non sappiamo dove vai e come possiamo conoscere la via?». 6 Gli disse Gesù: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. 7 Se conoscete me, conoscerete anche il Padre: fin da ora lo conoscete e lo avete veduto». 8 Gli disse Filippo: «Signore, mostraci il Padre e ci basta». 9 Gli rispose Gesù: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre. Come puoi dire: Mostraci il Padre? 10 Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me; ma il Padre che è con me compie le sue opere. 11 Credetemi: io sono nel Padre e il Padre è in me; se non altro, credetelo per le opere stesse».

Il lógos è nell’archè e l’archè è nel lógos.

Gianfranco Costa introduce il concetto che intraprendere un cammino è un’esperienza. L’esperienza dell’arché, del Divino, è la Lilā, il gioco del Principio regolatore dell’universo, ossia del lógos. La Lilā è un gioco con nessun altro fine o scopo al di là dello svolgimento del gioco.

“C’è un’antica storia indiana sul dio Brahma. Non esisteva nulla eccetto Brahma, il quale si annoiava. Voleva giocare, ma non c’era nessuno con cui farlo. Perciò creò Maya, una  bellissima dea. Le spiegò il motivo per cui l’aveva creata e Maya disse: «Va bene, faremo un gioco bellissimo, ma tu devi fare ciò che ti dirò». Brama acconsentì, e seguendo le istruzioni della dea creò il cielo, le stelle, la luna, i pianeti e l’intero universo. Poi creò la vita sulla terra: gli animali, l’atmosfera, gli oceani, tutto.

Maya disse: «Com’è bello questo mondo di illusione. Ora dovresti creare un animale tanto intelligente e consapevole da poter apprezzare la tua creazione». Allora Brahma creò gli esseri umani, e quando ebbe terminato chiese a Maya quando sarebbe iniziato il gioco. «Inizieremo adesso», rispose lei. Prese Brahma, lo tagliò in pezzettini minuscoli, e ne mise uno dentro ogni essere umano. Poi disse: «Ora comincia il gioco! Vi farò dimenticare chi sei e dovrai cercare di ritrovarti». Maya creò il sogno, e ancora oggi Brahma sta cercando di ricordare se stesso. Si trova dentro ciascuno di voi, e Maya vi impedisce di ricordare chi siete”. [7]

Gianfranco Costa scrive che per avviarsi nel cammino iniziatico è necessario sbilanciarsi, perdere l’equilibrio, ossia avere la disponibilità a esercitare la propria libertà abbandonando schemi, certezze, sicurezze, per trovare nuovi equilibri, nella consapevolezza che l’equilibrio è dinamico, come la vita.

Per “sbilanciarsi” ci vuole coraggio e il tratto distintivo dell’iniziato è il coraggio, il cor-actum: un atto che va oltre la razionalità, che non sente ragione, ma che obbedisce a un kantiano imperativo categorico, a un lampo che gli rischiara il cammino, a quell’intuizione eraclitea che è di natura divina. Per sbilanciarsi l’essere umano deve riconoscere quel “pezzettino” di Brama che è in lui e deve attivarlo.

Nessuno può e deve essere iniziato se non ha sentito dentro di sé il richiamo dell’araldo, la voce del Sé (il “pezzettino”) che lo chiama; se non è stato colpito dal lampo che per un attimo gli ha rischiarato il cammino della “diritta via”; se non ha accettato di compiere il cor-actum di mettere in discussione le sue certezze e i suoi schemi e di imbarcarsi sul fragile vascello che naviga nel mare aperto della conoscenza, che ha come unico porto Itaca, la Patria dove Odisseo era re e può tornare ad essere re solo dopo aver sperimentato il viaggio.

Odisseo (Ulisse) intraprende un viaggio senza meta, alla scoperta di se stesso, con la sola nostalgia della patria, Itaca, dove la sua anima (la sponsa) tesse di giorno e disfa di notte la tela della vita. Vincerà i proci (ossia la tracotante presenza delle varie certezze del mondo, i legami che vorrebbero condizionare la sua anima: la sponsa in senso junghiano) e riconquisterà la sua anima, la sua Sposa, divenendo di nuovo il re di Itaca, ossia il re di se stesso.

Il suo viaggio senza meta è pervaso dalla nostalgia (nostos algos, il dolore del ritorno) della patria, ossia dell’origine.

Perché ha intrapreso il viaggio se già era il re di Itaca? Per fare esperienza. Ecco il senso della manifestazione: fare esperienza per conoscere se stesso. Vale per il Principio, vale per l’essere umano, che del Principio è quel “pezzettino” del racconto di Maya.

Ulisse intraprende il viaggio per conoscere se stesso, spinto dalla necessitante opera di Nettuno e sorretto dalla protezione di Athena,  abbandonando, con un atto di coraggio, le certezze; accettando di navigare in mare aperto e senza meta e di sottoporsi al canto (melos) delle sirene (il canto dell’inconscio).

Ecco il significato del viaggio iniziatico: piccoli atti di coraggio, non gesti eclatanti, per andare oltre, per tornare da dove si è partiti, ma trasformati dalle esperienze e diventare così il Bagatto, ossia un saggio che sa di essere figlio della terra e del cielo stellato e che ha acquisito gli strumenti che lo rendono abile ad essere cooperatore dell’Universo: la lancia (bastoni) e la spada, la coppa e la pietra (denari); i doni dei Tuatha Dé Danann, arrivati dalle quattro città del Nord, del Polo, del Centro, del Sé, dove i saggi custodiscono la Sapienza. Ad ogni inaspettata tappa del viaggio c’è un punto di domanda, un ignoto, che si può conoscere solo con un cor actum, ossia con un gesto folle, che porta alla conoscenza.

L’iniziando è come il Matto dei Tarocchi: un viandante che parte alla ventura, spronato dal cane psicopompo che gli azzanna i polpacci o, in altra versione più antica (Tarocchi Visconti) un uomo con i piedi nudi che toccano la terra e con le penne d’uccello in testa, non ancora consapevole di quanto apprenderà nel viaggio, che ben è riassunto nella tavoletta orfica di Petelia:

“Io sono un figlio della terra e del cielo stellato,

ma la mia razza è del cielo soltanto.

Questo lo sapete da voi.

Mirate, io sono arso dalla sete e perisco.

Datemi presto l’acqua fredda che sgorga

dal lago della memoria”.

 (Tavoletta orfica rinvenuta a Petelia)

Il percorso dell’iniziato può anche essere assimilato a chi percorre la via dell’intelligenza del cuore. Traggo, a questo proposito, alcune considerazioni dal mio: “I Druidi custodi della Dea”.

Posto che intelligenza deriva dal latino inter legere, dove inter ha il significato di tra, fra, nel mezzo e legere di raccogliere e scegliere e che in rapporto all’essere umano l’intelligenza è il raccogliersi nel proprio mezzo, ovvero nel proprio centro, al fine di scegliersi, cos’è l’intelligenza del cuore?

Per rispondere a questa domanda, proporrei il riferimento ad una favola scozzese e ad un’antica poesia irlandese. Nella favola scozzese dal titolo: “Il fabbro e i folletti”, il protagonista, Alasdair MacEachern, detto Alasdair dal Forte Braccio, sottoposto alle attenzioni, per lui fastidiose, dei folletti, chiede aiuto ad un vecchio, capitato in casa sua. Un vecchio “che aveva una gran reputazione, perché di lui si diceva che conoscesse molte cose e che fosse saggio”. Due qualità, spiega il narratore, che, “come si sa, sono molto differenti”.[8]

Dal commento del narratore traiamo un importante insegnamento: conoscere molte cose non significa essere saggi.

L’antica poesia irlandese è il dialogo tra il file Nede e il suo maggiore Ferchertne, ovvero il “Dialogo dei due saggi”, e in essa si legge:

“Io sono figlio di Poesia,

Poesia, figlia di Riflessione,

Riflessione, figlia di Meditazione,

Meditazione, figlia di Scienza,

Scienza, figlia di Ricerca,

Ricerca, figlia di Grande Scienza,

Grande Scienza, figlia di Grande Intelligenza,

Grande Intelligenza, figlia di Comprensione,

Comprensione, figlia di Saggezza,

Saggezza, figlia dei tre dèi di Dana”.

La poesia ha uno schema ternario, secondo la tradizione druidica, e indica un percorso, che possiamo vedere nello schema, scandito in 3 cicli di 3 onde, più un ciclo finale, oltre la Nona Onda.

Siamo in presenza di tre cicli ternari che rappresentano altrettanti stati di consapevolezza.

Oltre la Nona Onda c’è il mondo degli Dèi, degli Archetipi, di una consapevolezza superiore, che si avvicina al mistero del Nascosto, il Senza Nome.

L’intelligenza del cuore è il raccoglierci in noi stessi per scegliere il percorso che ci conduce al nostro centro, per sceglierci, per comprendere la nostra essenza, la quale è in relazione con il Sé, che risiede sia nel nostro centro, sia nella Coscienza Universale.

L’intelligenza del cuore è la via che ci porta a diventare consapevoli che noi siamo vita, ovvero manifestazione (energia) delle Coscienza universale e questa consapevolezza ci conduce oltre la Nona Onda, nel Regno dei Sidera, al quale ci richiama l’araldo della nostalgia (dal greco nóstos, ritorno, e álgos, dolore), che suscita in noi il dolore (algia) della lontananza dall’Origine e la ricerca della via per ritornare.

Sidus, stella in latino, deriva dalla radice europea sid, che significa splendere, essere terso, dalla quale possiamo far discendere anche Sid o Sidhe, il luogo dei morti viventi e degli Dèi, l’Altro Mondo, il Regno dei Sidera.

L’intelligenza del cuore è la via del coraggio, del cor –actum, che conduce all’Atlantide dell’anima, ossia alla relazione (lógos) con la Coscienza universale.

La via del coraggio è una via che si può percorrere solo a cuor leggero, ovvero innalzando progressivamente la nostra coscienza per essere sempre più in sintonia con l’armonia universale.  A cuor leggero, più leggero delle piuma di Maat, il Neter egizio archetipo dell’equilibrio, della giustizia e dell’armonia, perché a cuor leggero significa superare progressivamente la pesantezza della dimensione materiale, che contiene in sé il concetto di limite (M, da cui materia e mater, è radice indoeuropea che significa limite) per ascendere alla comprensione di dimensioni altre.

A cuor leggero significa innalzare la nostra coscienza ed entrare in contatto con l’Awen «lo spirito che fluisce», l’ispirazione divina.

Il fluido, lo spirito che fluisce, è l’Awen. L’intelligenza del cuore è accogliere l’Awen.

Nella favola “Thomas il rimatore” si narra che il giovane Thomas, innamoratosi della Regina degli Elfi, la seguì nel suo regno. Durante il viaggio si trovarono di fronte a tre vie e la Regina degli Elfi spiegò così la loro presenza: “La via ripida e stretta è chiamata il Sentiero dell’Onestà e pochi viaggiatori hanno il coraggio di seguirla. La strada ampia e piacevole che si stende attraverso il prato, è il Sentiero della Malizia, per quanto sembri così bella e piena di luce. E la graziosa stradina che serpeggia fra le siepi di arbusti è il sentiero che porta alla Terra degli Elfi …”.[9]

Il Sentiero dell’Onestà è quella della Conoscenza, che porta la nostra mente a conoscere le regole del mondo e della Natura e a rispettarle.

Il Sentiero della Malizia è quello che percorrono coloro i quali, volendo ingannare gli altri, ingannano se stessi e rimangono nell’ignoranza e nel limite.

Il Sentiero che porta alla Terra degli Elfi è quello di chi intraprende la via della conoscenza che passa attraverso la permanenza nell’inconscio, per conoscerne i contenuti, affronta l’incognito e le prove, dimora in altre dimensioni, non ha paura di uscire dal limite.

L’intelligenza del cuore è la via dell’eroe, del coraggio, del cor-actum, in quanto è solo con l’azione coraggiosa che è possibile superare le prove, ovvero passare le soglie dei vari livelli di comprensione della complessità della manifestazione, approssimando la consapevolezza al Cuore, ovvero, alla Coscienza universale.

L’intelligenza del cuore è seguire l’Oracolo di Delfi, il quale dice al nostalgico degli astri, dei sidera, simboli dell’Origine: “Oh tu che desideri sondare gli Arcani della natura, se non riuscirai a trovare dentro te stesso ciò che cerchi, non potrai trovarlo nemmeno fuori. Se ignori le meraviglie della tua casa, come pretendi di trovare altre meraviglie? In te si trova occulto il Tesoro degli Dèi. Oh Uomo, conosci te stesso e conoscerai l’Universo e gli Dèi”.

Anche Eraclito ritiene che la fonte di ogni conoscenza sia dentro di noi. Famoso è il suo: “Interrogai me stesso” (fr 15 = 101 DK), riguardo al quale Diogene Laerzio conferma: “Fin dalla fanciullezza apparve sorprendente, perché, essendo ancora giovinetto, disse che non sapeva nulla, invece, giunto a maturità dichiarò che sapeva tutto. Non fu discepolo di nessuno, ma disse che aveva investigato se stesso, ed aveva appreso tutto da se medesimo”. [10]

L’intelligenza del cuore è la via dell’iniziato, il quale, come suggerisce Mircea Eliade,[11] è “colui che sa” e in quanto tale è colui che si ricorda dell’inizio; più esattamente, “colui che è diventato contemporaneo della nascita del mondo, quando l’esistenza e il tempo si sono manifestati per la prima volta”.[12]

Il percorso dell’iniziato è simile a quello delineato dal “Dialogo dei due saggi”. L’ispirazione, lo stimolo di Brighit, il richiamo dell’araldo, il dolore della lontananza, danno origine ad un’attività creativa (Poesia), che implica un tuffo nell’inconscio (Riflessione, morte iniziatica, incontro con la Morrigan) e la conoscenza di sé stessi (Meditazione), con l’armonizzazione (accordo) e il riportare al centro, al cor dare,  le varie potenzialità conoscitive proprie dell’uomo. Il primo ciclo ternario: Poesia, Riflessione, Meditazione, attiva un ciclo settenario di armonizzazione.

Al cor data la conoscenza di noi stessi, conosciamo la nostra Natura, ossia la nostra vibrazione nel concerto della Natura naturata ed entriamo consapevolmente nell’orchestra naturale. Sentiamo l’Amor (A-mors), ovvero la Vita scorrere in noi e ci riconosciamo nella Vita. Siamo parte della grande orchestra della Natura naturata. Le pietre, gli alberi, gli animali, gli altri esseri umani sono nostri essenziali colleghi di lavoro nella realizzazione del grande Progetto dell’Architetto dell’Universo. Ogni strumento è necessario e va rispettato e ammirato (guardato con meraviglia) nel suo suonare in sintonia; rispettato e aiutato a risvegliare il suo suono; rispettato nel suo essere “sconcertato” e aiutato a ricomporsi nel concerto; rispettato nella sua volontà di essere muto; rispettato, ma non tollerato, quando volontariamente, pervicacemente, disturba il concerto o, addirittura, distorce il lavoro armonico dell’orchestra.

Qui l’A-mors (Vita, Amore) assume il nome di Libertà.

Scrive Gianfranco Costa che” muoversi, viaggiare, è prima di tutto libertà”.

L’uomo di desiderio, colui che ha tolto lo sguardo dalle stelle, (de-sidera significa togliere lo sguardo dalle stelle, ovvero dal Sid o Sidhe, il luogo dei morti viventi e degli Dèi, l’Altro Mondo, il Regno dei Sidera), ha perduto la consapevolezza dell’Origine, ma il desiderio, la perdita della via degli astri, è la causa del nóstos – álgos, il dolore del ritorno, che trasforma il desiderio nel suo contrario, nella volontà di vedere, nella brama della ricerca.

La libertà, nella dimensione umana del limite, è la condizione necessaria affinché lo stimolo del ritorno si esplichi e dia inizio alla ricerca.

Libertà è la condizione di chi non è soggetto a costrizioni, non è prigioniero (aggiungiamo: se non di se stesso, ovvero della perdita della vista degli astri).

Conculcare la libertà propria o altrui significa, pertanto, essenzialmente, impedire la scaturigine del  nóstos – álgos, della nostalgia: l’araldo che attiva la possibilità del ritorno; significa condannare sé stessi o gli altri nel limite. Questo il motivo per il quale conculcare la libertà propria o altrui era per i druidi ed è, ancora, il delitto più grave.

Il sottile confine che separa il rispetto della propria libertà da quella altrui non è nella consapevolezza del sapiente, ma del saggio. Ed è alla saggezza che aspira l’iniziato, come condizione per andare oltre, verso l’Origine.

Colui il quale ha al cor dato i suoi strumenti di conoscenza, ha scoperto la sua Natura, ha capito che è collegata al concerto della Natura naturata.

Dopo aver superato le prove dell’inconscio, l’iniziato libero e per questo nostalgico, mette volontariamente in moto l’atto del cuore, getta la sua conoscenza oltre, capisce che il suo cuore è il simbolo (una parte che rinvia ad altro) di un cuore che conduce all’origine e cerca il nesso, si avventura sulla via delle prove del Sé.

L’iniziato acquisisce fiducia, fede, si lascia persuadere (dalla radice *beidh, presente nel greco peíto = io persuado), guidare. Acquisisce così la Grande Scienza, che lo conduce sulla via dell’illuminazione, attraverso la comprensione della Regola, del Ritmo, e giunge al ricordo, al ritorno nel Cuore della Coscienza Universale, il Campo che contiene tutte le informazioni che l’energia, la Virgo Brighit, Brihat-Ritam, la Natura naturans, manifesta nelle forme dei mondi.  L’iniziato ri-corda e va oltre, oltre la Nona Onda.

Approdo finale dell’iniziazione è l’acquisizione di una “nuova vita”.

“L’individuo – scrive in proposito Joseph Campbell – attraverso discipline psicologiche prolungate, si libera da ogni attaccamento alle proprie limitazioni personali, alle proprie idiosincrasie, speranze e paure, non si oppone più al proprio annullamento, indispensabile per rinascere alla conoscenza della verità, ed è finalmente pronto alla grande conciliazione. Annientate le proprie ambizioni personali, egli non cerca più la vita, ma spontaneamente si abbandona a tutto ciò che può accadergli; diventa, per così dire, una  cosa anonima. La Legge  vive in lui con il suo consenso incondizionato”.[13]

L’iniziato, giunto alla Saggezza, entrato nel Regno degli Archetipi, è simile agli Dèi, semnoteo, ed è immortale, perché ha la piena consapevolezza che la sua essenza non è di questo mondo e che in questo mondo questa essenza esiste nel campo delle forme e della materia, ma che da queste non è più limitata, perché l’iniziato si è ri-cordato e sa.

“Coloro che sanno che l’eterno vive in loro e che essi, e tutte le cose, sono realmente l’eterno – scrive Joseph Campbell – abitano il bosco degli alberi miracolosi, bevono la rugiada dell’immortalità ed odono ovunque la silenziosa musica dell’eterna concordia”.[14] L’ostacolo maggiore alla saggezza è la presunzione, l’anticipare (praesumere), il sentirsi arrivato, quando si è solo ad una tappa di un cammino senza fine.

© Silvano Danesi


[1] Arnaldo Petterlini, Spinoza, in Storia del pensiero occidentale, Mondadori

[2] Arnaldo Petterlini, Spinoza, in Storia del pensiero occidentale, Mondadori

[3] Giovanni Reale, introduzione a Eraclito, Bompiani

[4] Giovanni Reale, introduzione a Eraclito, Bompiani

[5] Giovanni Reale, introduzione a Eraclito, Bompiani

[6] Giovanni Reale, introduzione a Eraclito, Bompiani

[7] Don Miguel Ruiz, La padronanza dell’amore, Edizioni il Punto d’Incontro

[8] Elfi e streghe di Scozia – Arcana

[9] Elfi e streghe di Scozia – Arcana

[10] Citazione in: Giovanni Reale, introduzione a Eraclito, Bompiani

[11] Mircea Eliade, Miti, sogni e misteri, Rusconi

[12] Mircea Eliade, Miti, sogni e misteri, Rusconi

[13] Joseph Campbell, L’eroe dai mille volti, Guanda

[14] Joseph Campbell, L’eroe dai mille volti, Guanda

Silvano Danesi

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