IL GREMBIULE MASSONICO, LA NEBRIDE E IL PASSAGGIO NELLA PELLE

Mar 19, 2023 | MASSONERIA

di Silvano Danesi

Il richiamo ad antiche spiritualità misteriche è presente nella ritualità massonica sin dai primi passi lungo il cammino iniziatico.

Il grembiule che viene consegnato all’Apprendista era originariamente in pelle d’agnello ed evocava la nebride, la pelle di cerbiatto, vestimento di Dioniso e dei suoi seguaci.

I riti dionisiaci sono, come sostiene Paul Foucart, collegati a quelli eleusini, i quali, a loro volta, non sarebbero altro che la traduzione ellenica dei riti isiaci e osiriaci.

Paul Foucart[1] scrive di una connessione tra Grecia ed Egitto, per quanto riguarda le ritualità misteriche sin dalla XII dinastia. Connessioni intensificatesi al tempo della XVIII. Nel IV secolo a.C. era attivo al Pireo un tempio dedicato a Iside e Osiride.

Paul Foucart, con il suo puntuale studio sulle corrispondenze greche ed egizie, giunge alla conclusione che Demetra e Dioniso siano le stesse divinità di Iside e Osiride. Le tombe di Iside e Osiride si trovano a Nysa, nella valle del Giordano e gli inni omerici affermano che Dioniso è nato a Nysa.

“Nei periodi più antichi – scrive Plutarco – Dioniso era adorato con Demetra”. [2]

In merito alla derivazione della ritualità eleusina Paul Foucart scrive che molti autori, dopo Erodoto, hanno ripetuto che “Demetra e Dioniso erano le medesime divinità di Iside e Osiride; nessuno lo ha contestato, e gli Egiziani dell’epoca tolemaica hanno accettato questa identificazione”. [3]

Concludendo la sua analisi Foucart scrive: “Nello svolgere dal loro apparato mitologico le leggende che abbiamo esaminato e controllandole in base alle scoperte moderne, ci troviamo in presenza di un certo numero di fatti che hanno valore storico. A un’epoca contemporanea del Faraoni della XXII dinastia [VIII sec. a.C.], dei coloni egizi si stabilirono nel golfo di Atene, a Eleusi, che era il punto di migliore approdo della costa e l’intersezione della strada della Grecia del Nord e del Peloponneso. Con essi portarono le colture della vigna e dei cereali, fino ad allora conosciute, e il culto di Iside e Osiride, ai quali essi attribuirono quelle due arti e che erano gli dèi nazionali dell’intero Egitto. Senza enfasi, così come senza resistenza, gli indigeni fecero buona accoglienza alla coppia divina che apportò loro tali benefici; essi adorarono Osiride e Iside con il nome di Dio e Dea e, più tardi, con quello di Dioniso e Demetra”. [4]

Anche la Thesmoforia, festa il cui oggetto era glorificare l’unione di Dioniso e Demetra e la fecondità della terra, secondo Erodoto, era di origine egiziana, poiché furono le figlie dei Danai che le fecero conoscere i Pelasgi.

Scrive in proposito Plutarco: “Il fatto che Osiride si identifichi con Dioniso chi meglio di te lo può sapere, Clea? E con ragione, tu che sei la prima delle Tiadi di Delfi e che ai riti di Osiride sei stata consacrata dal padre e dalla madre. Se però vogliamo che anche gli altri ne sappiano qualcosa, si dovranno addurre delle prove. Lasciamo da parte le cose che è vietato far conoscere a tutti, e analizziamo invece i riti che i sacerdoti compiono davanti alla folla quando portano alla sepoltura il corpo di Apis su una zattera: ci si accorgerà che non vi è alcuna differenza con le nostre cerimonie bacchiche. Anche questi sacerdoti infatti si legano addosso una pelle di cerbiatto e agitano i tirsi e si mettono a gridare e a dimenarsi, proprio come gli invasati durante i riti orgiastici di Dioniso. Del resto, anche molti Greci rappresentano Dioniso in forma di toro; e in Elide, oltretutto, le donne invocano il dio pregandolo di «venire a loro con piede bovino». Gli Argivi, poi, danno a Dioniso l’epiteto «figlio di bue»: e lo chiamano con le trombe perché risorga dalle acque, e intanto gettano nel profondo un agnello come offerta al Custode delle Porte. E le trombe vengono nascoste nei tirsi, come ricorda Socrate nel suo scritto I Devoti. Anche le storie dei Titani e le Feste Notturne, del resto, hanno caratteristiche simili ai racconti che parlano dello smembramento di Osiride, della sua resurrezione e della sua nuova nascita. E lo stesso accade con le leggende sulle sepolture del dio. Come si è detto, gli Egiziani hanno tombe di Osiride un po’ dappertutto; ma anche i cittadini di Delfi sostengono che le spoglie di Dioniso si trovano nel loro territorio, vicino all’oracolo: e quando le Tiadi risvegliano Dioniso Licnite, anche i Devoti celebrano un sacrificio segreto nel penetrale di Apollo. Per dimostrare che i Greci ritengono Dioniso signore e creatore non solo del vino, ma dell’elemento umido in generale, basta la testimonianza di Pindaro: Degli alberi il gregge Dioniso festoso moltiplichi, sacro splendore d’autunno”.[5]

Nei riti egizi ci sono i misteri della rinascita vegetale, dove Osiride è descritto come un dio della vegetazione e, in particolare del grano, e i misteri della rinascita animale, i quali introducono l’idea dell’avvolgimento nella pelle.

Oggi sappiamo che Iside, rivolgendosi a Osiride esclama: “Io ti saluto: ecco la pelle (mesket), il luogo ove il tuo divino ka rinnova la sua vita”. [6]

Il tema della nascita e della rinascita “richiama il rito misterioso del «passaggio per la pelle»; ogni trent’anni, il giubileo reale dell’Heb-Sed condanna a morte il vecchio uomo, poi lo resuscita dopo tre giorni di incubazione nella pelle di un toro bianco. Allora il re, le cui forze vengono riattivate, può essere di nuovo consacrato e ricevere lo pschent, la doppia corona”. [7]

Interessante notare come echi del rito dell’Heb-Sed si trovino anche nei numeri riguardanti la narrazione evangelica relativa alla vita, alla morte e alla resurrezione di Gesù. A trent’anni e fino ai trenta tre, dopo aver ricevuto il battesimo da Giovanni, il Nazareno conduce una vita pubblica di predicazione che lo condurrà alla morte e alla resurrezione dopo tre giorni.

Il nome della pelle, mesket, è composto da mes (nescere) e da Ka, il doppio fluidico che nasce con l’individuo e cresce con lui fino all’aspetto di adulto, ma si sottrae alla curva discendente.

Il passaggio per la pelle ha il significato di un processo di individuazione, con l’uscita dal Nun, l’indifferenziato abisso delle acque primordiali, per acquisire un’individualità eterna.

Il Ka è spesso definito come il corpo astrale e astrale deriva da a-steron, non fisso, vagante, quindi fluido, il ché lo evidenzia come un corpo caratterizzato da una vibrazione ondulatoria attribuita ad un piano non materiale come quello del corpo.

Possiamo pensare al Ka come ad una campo elettromagnetico che determina e mantiene un campo di forma, con una propria vibrazione e una propria frequenza.

In questo senso la “soglia” è ipotizzabile come un cambio di frequenza.

Nell’antico Egitto il guardiano della soglia era il dio Bes, nome dal quale deriva anche Besw, dal significato di iniziare qualcuno a qualche cosa.

Troviamo il dio Bes anche nell’equivalente egiziano di mistero: bes sheta.

Oltre che come nano, l’immagine di Bes è anche quella di un pesce con gambe umane, il ché richiama la capacità di muoversi nella corrente astrale.

Va considerato che la nascita dell’essere umano è davvero un passaggio per la pelle, in quanto il formarsi dell’embrione dalla morula avviene con la creazione di tre foglietti embrionali: ectoderma, mesoderma ed endoderma.

L’ectoderma dà origine al sistema nervoso, all’epidermide e ai suoi annessi e derivati.

Il mesoderma dà origine allo scheletro, alla muscolatura, ai costituenti di tessuto connettivo, all’apparato cardiovascolare e renale.

Dall’endoderma derivano il sistema gastrointestinale e respiratorio.

Tuttavia, il vocabolo egizio meska ci induce a focalizzare l’attenzione su una pelle che ha a che fare con il Ka, più che con il corpo materiale, ossia con quel corpo fluidico che avvolge il corpo materiale. La meska si propone come una “pelle” fluidica, un campo elettromagnetico, come quella “magnesia” della quale scrive Fulcanelli.

Nel linguaggio ermetico degli alchimisti, dediti all’Opera, la rugiada celeste, ros, è l’anima, la vita metallica che dà vita ai corpi; è quella “magnesia”, “calamita filosofica” che ha la virtù attrattiva e che oggi potremmo definire luce come campo elettromagnetico che attrae e forma la materia corporea.

La “magnesia” sorge dall’Occulta Fontana (Libethra) accanto alla quale c’è un’altra sorgente chiamata La Roccia.

“Ambedue – scrive Fulcanelli – scaturivano da una grossa roccia la cui forma assomigliava ad un seno di donna; di modo che l’acqua sembrava colare da due mammelle come se fosse latte. Ora, noi sappiamo che gli antichi autori chiamavano la materia dell’Opera la nostra Magnesia e che il liquore estratto da questa magnesia è chiamato Latte della Vergine”.[8]

La Magnesia dei filosofi è definita calamita, dal greco airen, ciò che attira, dal verbo airo: prendere, cogliere, trascinare, attirare. Il ferro è aran o iran, termine assonante, secondo la cabala fonetica con airen. Inoltre il ferro o la calamita sono anche espressi dal vocabolo sideros, che esprime anche gli spazi siderali e le stelle.

Siamo figli delle stelle, come dicono le laminette orfiche e degli spazi siderali, attratti alla vita dalla magnesia, ossia da una calamita, da un metallo magnetico, che nel linguaggio argoatico ha il significato di campo elettromagnetico.

Il vocabolo metallo, infatti, deriva dal greco metallon, miniera, ma anche, secondo alcuni, da meta (infra, in mezzo) e allon dalla radice *al (sanscrito *ar) dal significato di andare, muovere (verbo alomai = vado errando o elaô = metto in movimento).

Il metallo, adatto ad essere forgiato, è qualcosa che viene dal profondo, estratto dalle oscurità della miniera, che possiamo simbolicamente assimilare all’Arché ed è un infra-movimento, un movimento intermedio: luce che condurrà alla materia.

Il vocabolo greco φῶς (phaos/phōs), la cui radice corrisponde a quella del verbo phainō, che significa “mostrare”, “rendere manifesto” (phainesthai), è anche in origine non solo la luce come mezzo per vedere, ma anche la luce che emana la verità raggiunta tramite la conoscenza.

Phōs, la luce della verità (aletheia), ossia l’informazione cosciente istantanea che si svela alla conoscenza, si volge verso i mondi, si mostra, si rende manifesta come luce fotonica, dove fotone deriva anch’esso da ϕῶς.

Ed ecco che calamita, metallo, stella, spazi siderali, ci portano ad un’unica conclusione: luce stellare, ossia campo elettromagnetico che agisce nel campo spazio-temporale o gravitazionale.

Magnesia, metallo, sideros, sono le parole con le quali si esprime il concetto di una luce fotonica che condurrà alla materia, secondo quella che ormai è la teorizzata trasformazione di energia in materia in base alla formula di Einstein M=E/c2.

L’anima, si pone come un “«tessuto di poteri» intermedi fra quelli del corpo e dello spirito” [9], un campo elettromagnetico che il mito di Arianna e del Minotauro ci consegna nella chiave criptata dell’argot.

Un campo elettromagnetico è un campo di luce, non necessariamente visibile.

Nel Medioevo, con il linguaggio del tempo, ci furono filosofi e teologi che si occuparono di quello che oggi potremmo definire come il nesso tra campo di forma e campo elettromagnetico e tra luce come onda e luce come particella.
Dalla mistica della luce alla teoria dei quanti, nonostante i secoli intercorsi, il passo sembra breve.

Il fotone è il quanto di energia della radiazione elettromagnetica, chiamato anche quanto di luce quando nel XX secolo si capì che in un’onda elettromagnetica l’energia è distribuita in pacchetti discreti e indivisibili. Il fotone è onda e particella ed è una sorta di Giano bifronte, di ponte relazionale tra energia e materia. Lo è tanto più da quando tra bosoni e fermioni è stato dimostrato sperimentalmente che lo scambio può essere reciproco, ossia che due fotoni che collidono danno origine ad un elettrone e viceversa, che due elettroni che collidono danno vita ad un fotone.

Nel secolo XII le opere dello pseudo-Dionigi ebbero un impatto rilevante e nello stesso secolo venne tradotto Euclide e la sua geometria consentì di assimilare più facilmente la dottrina della causalità geometrico-luminosa esposta nel De radiis di Alkindi.
La dottrina ilemorfica (ogni sostanza è composta di materia e di forma) del Fons vitae di Avicebron offrì l’essenziale presupposto ontologico (ciò che riguarda l’essere degli enti, ciò che riguarda la conoscenza dell’essere) alla metafisica della luce, permettendo di individuare nella lux la prima forma di ogni realtà materiale.

Il principale rappresentante della metafisica della luce fu Roberto Grossatesta.

Principio ontologico basilare della metafisica della luce è che essa costituisce la componente strutturale essenziale di ogni essere fisico, animato e inanimato.
La lux prima forma è la corporeità. Non lo è in se stessa, essendo priva di dimensioni, ma lo è al momento in cui si unisce alla materia, anch’essa indeterminata. Moltiplicandosi indefinitamente a partire da un punto a-dimensionale, la luce, unita alla materia, genera il corpo, determinato e quantificato.

Il corpo dell’universo è determinato in quanto si manifesta, ‘appare’, essendo la sua forma prima, cioè la lux, auto-manifestativa. Esso è quantificato dal momento che la materia, non potendo espandersi all’infinito, arresta la spinta di espansione infinita della lux.
Nella prospettiva grossatestiana, il lumen celeste ha la capacità di penetrare all’interno dei corpi naturali (dottrina dell’incorporazione della luce), determinando in tal modo un cambiamento di stato e la relazione con altri corpi, in particolare la possibilità della sensazione.

La luce ha una funzione operativa, è il medium attraverso il quale l’anima agisce sul corpo permettendogli di muoversi e di avere sensazioni.
Il nucleo centrale del pensiero metafisico e teologico grossatestiano, che sarà sviluppato in Bonaventura, si articola intorno all’assunto che Dio è luce, e non in senso metaforico.

La luce di Dio non è né spirituale, come quella dell’intelletto angelico e umano, né corporea come quella che costituisce gli enti naturali: è indefinibile e completamente trascendente. Tuttavia è luce, e poiché tutto ciò che è creato è a somiglianza di Dio, ogni ente è aliquod genus lucis (una specie di luce).
Dunque anche sul piano teologico si avvalora l’assunto che ogni esistenza è una forma della luminosità.

La metafisica della luce sottende anche il Memoriale rerum difficilium, attribuito ad Adamo Belladonna (Adam Pulchre mulieris), dove la sostanza prima, identificata con una intelligenza, è luce, e da essa deriva tutta la catena dell’essere.
Lo pseudo Pietro Ispano, un autore che scrive attorno al 1240 un commentario al De anima di Aristotele, ci presenta una teoria dell’incorporazione della luce molto simile a quella di Grossatesta: ogni corpo composto, afferma, ha in sé una natura celeste che è come una luce incorporata, attraverso la quale il corpo si conserva e compie le sue operazioni.

In Ruggero Bacone la tematica luminosa ha rilevanza soprattutto in ambito di filosofia naturale. Bacone elabora il concetto di species come forma corporea di natura spirituale, una sorta cioè di radiazione immateriale proveniente da ogni ente, che, propagandosi per auto-moltiplicazione in tutte le direzioni secondo linee rette, imprime la sua azione sugli enti circostanti.

Poiché ogni ente risulta tanto produttivo quanto ricettivo di species, queste ultime sono in grado di spiegare ogni nesso causale fra le cose.
In Bonaventura la luce è la prima forma di tutti i corpi, “che hanno l’essere in modo più vero e più degno nei gradi degli enti secondo la maggiore o minore partecipazione ad essa”.

Oggi la fisica mette la relazione tra energia soggiogata alla gravità e energia non soggiogata alla gravità nella formula di De Broglie mc2=hf, che stabilisce l’equivalenza tra la massa per la velocità della luce al quadrato e la frequenza moltiplicata per la costante di Planck, che rappresenta l’azione minima possibile o elementare dell’anergia quantizzata.

Quando prendiamo in esame la formula di De Broglie apprendiamo l’equivalenza della natura corpuscolare e di quella ondulatoria dell’energia, ossia, in altri termini, tornando al mito, tra la vita dominata dalla pesantezza, la massa (sono figlio di Greve) e quella dove domina la leggerezza (sono figlio del Cielo stellato).

Cosa significa, a questo punto, il grembiule massonico che veste l’Apprendista? Significa che l’essere umano profano, che prima di essere iniziato era concentrato sulla propria corporeità materiale, ora è ri-nato passando per la pelle fluidica, ossia per la meska, la pelle di Ka: primo passo per andare oltre l’orizzonte corporale materiale e rivestirsi di luce lungo un cammino che porterà, progressivamente, ad approssimarsi sempre di più a al proprio Sé, così come ci invita a fare Apollo con quel gnoti seauton che è perfettamente tradotto da Angelo Tonelli con: “Conosci il tuo Sé”, ossia la tua vera essenza, della quale la tua persona (maschera) è un avatar terrestre.

 

 

 

 

 

 

[1] Paul Foucart, Les Mystères d’Eléusis, Pardès.

[2] Plutarco, Frammenti, citato in Paul Foucart, Les Mystères d’Eléusis, Pardès

[3] Paul Foucart, Les Mystères d’Eléusis, Pardès

[4] Paul Foucart, Les Mystères d’Eléusis, Pardès

[5] Plutarco, De Iside et Osiride, Adelphi

[6] Riportato in Boris de Racheviltz, Egitto magico religioso, Fratelli Melita Editori

[7] René Lachuad, Nell’Egitto dei faraoni, Mediterranee

[8] Fulcanelli, Il mistero della cattedrali, Mediterranee

[9] Patrik Conty, Labirinti, Piemme

Silvano Danesi

Silvano Danesi

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