di Silvano Danesi
Per avere un’esperienza simile, con tutte le opportune differenze, a quella del cantiere massonico medievale, dobbiamo spostarci in Egitto, a Deir-el-Medineh, Pa Demi in egiziano antico, nei pressi della Valle dei Re e della Valle delle Regine, nel tempo del Nuovo Regno.
Pa Demi è la città dei costruttori delle tombe dei faraoni, denominate “Sede della Verità”.
Sul fatto che in Egitto fosse presente un’associazione di costruttori ha dato un’importante testimonianza l’archeologo francese Bernard Bruyère.
Delle scoperte di Bruyere ci riferisce Chirstian Jaq, il quale scrive che per “Bernard Bruyère, si impone un’evidenza: la confraternita di Deir el-Medineh è un’autentica Franc-Maçonnerie avant la lettre”.
“I membri di queste molto antiche società – aggiunge Jacq, si chiamavano «Servitori nel luogo della verità e dell’armonia»”. [1]
Jacq aggiunge alcuni dettagli interessanti: “Dopo la sua costituzione la collettività è divisa in logge o hutte, che sono delle officine dove si ripartono i compiti. Fatto curioso, le prime logge dei Massoni tedeschi, durante il Medio Evo, sono ugualmente chiamate «huttes». Ogni iniziato porta il titolo di «Colui che ascolta il Maestro», ma esistono tre gradi: apprendisti, compagni e maestri”. [2]
“Una delle leggende tra le più appassionanti che a noi consegna Deir el-Medineh – scrive Christian Jacq – concerne l’assassinio di un Maestro di nome Neferhotep da parte di un operaio che voleva usurpare la sua funzione. Il nome del maestro è formato da due parole egizie che significano «la perfezione nella bellezza» e «la pace, la pienezza»”.[3]
Ritroviamo in questa antica leggenda il mito di Hiram, il maestro massone ucciso da tre compagni.
Sempre Christian Jacq, nel suo testo sul messaggio segreto delle cattedrali, riporta un rituale che risale all’antico Egitto e usato dai Compagnon.
Colui che deve essere elevato al grado di Maestro d’Opera, viene sottoposto a molte domande sulla conoscenza del mestiere e dei simboli e, dopo che ha risposto correttamente, “il nuovo Maestro – scrive Jacq – munito di un vaso di terracotta nuovo riempito di noci, lo rompe contro il muro, poi entra. Questo rito «della rottura del vaso» è conosciuto dall’Egitto antico. E’ mettere fine alle forze contrarie che «strozzano» la facoltà della maestria; la noce, immagine del pensiero creatore, è così liberata”.[4]
Come ci testimoniano Enrichetta Leospo e Mario Tosi, nel loro: “Vivere nell’antico Egitto – Deir el Medina, il villaggio degli artefici delle tombe dei re” (Giunti edizioni), il villaggio di Deir-el-Medina, in Egitto nei pressi dell’odierna Luxor, il cui nome in egizio era Pa demi, ossia “la cittadina”, costituisce uno dei tre esempi noti di “villaggio operaio” (gli altri sono quello di Tell el-Amarna, l’antica Akhetaton, e di El-Kahum, nei pressi di el-Lashur) ospitante gli artigiani e, in genere, le maestranze preposte alla realizzazione e manutenzione delle tombe degli antichi Re della XVIII, XIX e XX dinastia. Si tratta, in questo caso, delle tombe della Valle dei Re.
I numerosi reperti ritrovati a Pa Demi e la tomba del capo della squadra Kha e di sua moglie Merit, ritrovata intatta e conservata a Torino, consentono di avere un’idea precisa dell’organizzazione del cantiere.
“L’organizzazione del lavoro nella necropoli reale – scrivono Enrichetta Leospo e Mario Tosi – era particolarmente precisa e accurata. Al vertice c’erano i capisquadra (due persone) e gli scribi della tomba (due); seguivano gli idenu (due), gli uomini della squadra (gli operai, da quaranta a sessanta), i guardiani della tomba (due), i custodi della porta della tomba (due) e i servi della tomba”. [5]
I capisquadra erano i membri più autorevoli del tribunale della corporazione artigiana, la qenebet, del quale erano i presidenti.
“Gli operai – aggiungono i due autori – formavano una squadra suddivisa in parte a destra e in parte a sinistra, e ciascuna parte aveva un capo….Un capo operaio era in grado di fare un progetto per la stele del sovrano. Il suo titolo (hery ist, capo squadra) era limitato alle iscrizioni geroglifiche sui monumenti in pietra e nelle tombe; nei documenti amministrativi il suo equivalente era aa en ist, grande di squadra”. [6]
Gli scribi registravano le attività e la parte amministrativa. Della squadra facevano parte anche i meneh, adolescenti, cioè apprendisti. La promozione di un adolescente a uomo della squadra era decisa dal visir su proposta dello scriba. Anche i servi erano divisi tra parte destra e sinistra e dipendevano dagli scriba.
I custodi della porta della tomba, il cui titolo era iry – aa (appartenenti alla porta) erano due, uno per ogni parte della squadra; non facevano parte della squadra e fungevano da messaggeri tra la squadra e le autorità esterne.
“Gli idenu, come rappresentanti dei lavoratori – scrivono Leospo e Tosi – erano intermediari tra questi e i capi; essi ricevevano dagli scribi della tomba le varie forniture destinate alle squadre, come pani, pesce, stoppini, legno, carboncini, gesso”. [7]
I guardiani della tomba non facevano parte della squadra e avevano il compito di custodire il magazzino della necropoli.
Non è chi non veda molte somiglianze con alcune funzioni previste negli antichi statuti massonici e negli Statuti Generali ottocenteschi, ancora in vigore, anche se alcune di esse (esempio: i serventi) sono cadute in disuso.
Il declino dell’Egitto faraonico comportò anche il declino delle corporazioni. “Un rapporto della corporazione degli incisori di geroglifici della città di Ossirinco, risalente al secondo secolo d.C. , lamenta il declino delle vecchie tradizioni: la gilda contava soltanto cinque membri, e non aveva apprendisti che portassero avanti al professione”. [8]
L’attività di queste maestranze si è svolta per oltre quattro secoli, dal 1540 a.C. al 1070 a.C.
Le maestranze, suddivise in squadre da 60 unità ciascuna (con termine marinaro chiamate “iswt”), raggiungevano il luogo di lavoro percorrendo un sentiero (ancora oggi esistente e percorribile) e prestavano servizio per una “settimana” di dieci giorni.
Secondo Enrichetta Leospo e Mario Tosi doveva trattarsi di una comunità abbastanza cosmopolita, tanto che, su una popolazione maschile lavorativa di circa 100 unità, sono stati riscontrati 30 nomi palesemente stranieri e ben 16 fra templi e cappelle dedicate a divinità locali.
Considerato che gli uomini erano costantemente lontani dal villaggio per gran parte dell’anno, Deir el-Medina doveva essere una comunità principalmente femminile.
È interessante rilevare che il livello “scolastico” di tale comunità era elevato: di certo si doveva prevedere, oltre ai normali lavori domestici, il mantenimento del villaggio nel suo insieme anche dal punto logistico e di approvvigionamento cui era intimamente collegato il discorso economico. Sono note, inoltre, le professioni di alcune di tali donne, che spaziano dalle “cantatrici” alle “sacerdotesse” dedicate a vari culti e doveva essere alta anche l’alfabetizzazione riscontrabile dai molteplici “ostraka” rinvenuti ed identificabili come messaggi inviati ai mariti lavoratori alla Valle dei Re. Anche il livello di emancipazione doveva essere garantito, se Naunakhe, vedova dello scriba Kenhekhepeshef, poteva disporre dei beni del marito per la distribuzione ai suoi figli di quanto di spettanza.
Interessante vedere non solo le modalità del lavoro, ma anche le giustificazioni che erano addotte per assentarsi, a dimostrazione che l’Egitto non era, come è spesso descritto, un mondo di schiavitù.
Come si evince dal testo di Enrichetta Leospo e Mario Tosi, agli inizi della XVIII dinastia (circa 1540/1530 a.C.), gli operai lavoravano per 9 giorni, con un giorno di riposo. Il mese egizio era di 30 giorni, diviso in 3 decadi, ciascuna di 10 giorni.
Ulteriori ricerche hanno permesso di scoprire documenti da cui risulta che i giorni di riposo erano 3: gli ultimi due giorni di ogni decade, più il primo giorno della decade successiva, cioè 3 giorni consecutivi di riposo (una specie di settimana corta…).
Gli operai pertanto verso la metà della XVIII dinastia e poi nella XIX e nella XX dinastia, lavoravano 7 giorni per 8 ore al giorno: 56 ore.
Otto ore di lavoro: 4 al mattino, breve sosta e 4 al pomeriggio, secondo una valida ipotesi formulata dallo studioso Jaroslav Ĉeinỳ’ e basata sul consumo degli stoppini[9] per le lampade utilizzati dagli operai della squadra, parte destra e parte sinistra (ciotola di terracotta, stoppini di lino, olio di semi, sale).
Se prendiamo in esame un mese di lavoro, gli Egizi lavoravano 8 ore al giorno per 7 giorni ogni decade, per tre decadi al mese, cioè 21 giorni, esclusi i giorni di riposo, e pertanto risulta un totale di 168 ore lavorate mensilmente.
I lavoratori egizi non avevano le ferie, tuttavia le feste religiose e civili (visite del sovrano, del “visir = primo ministro” e altre autorità sul cantiere e nel villaggio) erano parecchie ed inoltre erano svariate le assenze sul lavoro documentate sugli ostraca [10], o sul “Giornale della Necropoli” a volte con i motivi dell’assenza.
Nelle assenze per motivi di salute, la malattia non era mai precisata, es: “Nebnefer assente, perché malato”; unica eccezione il caso di morsicature di scorpione, esempio: “Ptahhotep malato, punto dallo scorpione”.
Alcune assenze si protraevano per parecchi giorni. Il caso di Merisekhnmet è particolarmente significativo. Merisekhmet fu assente per 17 giorni, comprese le giornate festive perché troppo debole.
Erano tollerate assenze per motivi di famiglia: “Nakht era alla sua festa con la figlia” – “Kham era alla sua festa” – “Neferhotep faceva la birra” o anche “faceva la birra con la sua festa” – “l’operaio Tenermontu (=Montu è valoroso) era assente: si è picchiato con sua moglie.
Un ostracon, Cairo 25779, riporta che un operaio particolarmente irascibile si assentò dal cantiere, a causa di un litigio, per 6 giorni.
Nella XX dinastia compaiono anche i primi scioperi, cioè astensioni dal lavoro per protesta: primo caso di sciopero, anno 29° di regno di Ramesse III, fine agosto; tali notizie sono riportate anch’esse sul “Giornale della Necropoli”.
I lavoratori di un tempo[11] si recavano invece nel recinto di qualche tempio funerario minacciando di interrompere i riti ed i sacerdoti avvisavano subito il visir a Tebe, che inviava i suoi funzionari o si recava lui stesso, quale rappresentante del re, ad ascoltare le lamentele degli uomini della squadra.
Così nel 2° mese d’inverno, anno 29° di Ramesse III, gli operai si sedettero nel recinto del tempio di Thutmosi III, attendendo che i funzionari del Visir venissero ad esortarli a riprendere il lavoro; essi venuti a confronto con questi personaggi dissero di aver fame e di voler comunicare con il sovrano.
Il giorno successivo, gli operai si spostarono in un altro tempio, quello di Ramesse II, penetrando nell’edificio. Essi dissero ai funzionari e allo scriba reale: “Siamo venuti qui per la fame e per la sete. Non ci sono vesti, né unguenti, né pesce, né verdure. Informatene il faraone, il nostro buon signore e informatene il visir, nostro superiore, cosicché si possa provvedere al nostro sostentamento”. Sembra che le razioni del primo mese siano state consegnate quasi subito.
Nell’ostracon 16991 Oriental Institute Chicago, anno 28° di Ramesse III, il tono usato dallo scriba Neferhotep al visir Ta è drammatico: ” … noi manchiamo di tutto: le provviste che erano nel tesoro, nel granaio e nei magazzini sono finite …. Che il nostro padrone ci dia i mezzi per sopravvivere perché stiamo morendo, in verità non viviamo più. Che ci venga data la possibilità di assicurare la nostra vita con qualsiasi cosa”.
I lavoratori ricevevano le loro razioni (sacchi) di grano e orzo ed erano pagati il 28 di ciascun mese.
Un ostracon S 5642 del Museo Egizio di Torino, Scavi Chiaparelli nella Valle delle Regine, datato anno 23° del regno di Ramesse III, 2° mese dell’inondazione, giorno 25- circa 13 settembre 1163 a. Cr. – riferisce di una visita del visir al cantiere; su 108 giorni effettivi di cui si ha notizia, vi sono stati 36 giorni di lavoro e 72 di riposo.
Pa Demi, grazie agli studi di Bernard Bruyère, di Christian Jacq, di Enrichetta Leospo e Mario Tosi, ci restituisce un quadro di grande interesse per quanto riguarda le radici della Massoneria, la quale, nei suoi rituali, rivendica apertamente le sue origini nell’antico Egitto.
[1] Christian Jacq, La Franc Maçonnerie, Jailu
[2] Christian Jacq, La Franc Maçonnerie, Jailu
[3] Christian Jacq, La Franc Maçonnerie, Jailu
[4] Christian Jacq, Le message de constructeurs de chatédrales, J.ailu
[5] Enrichetta Leospo-Mario Tosi, Vivere nell’antico Egitto, Giunti
[6] Enrichetta Leospo-Mario Tosi, Vivere nell’antico Egitto, Giunti
[7] Enrichetta Leospo-Mario Tosi, Vivere nell’antico Egitto, Giunti
[8] Gerard Russel, Regni dimenticati, Adelphi
[9] Cfr. E.Leospo – M.Tosi, “Vivere nell’Antico Egitto”, Deir el Medina, il villaggio degli artefici delle tombe dei re”, ed. Giunti, Firenze, 1988, pp. 35÷58, “L’organizzazione della comunità operaia” e p.130, nota 45 e seguenti.
[10] Ostracon (plur.ostraca), cioè scheggia di calcare bianchissimo, scritta con inchiostro nero, in ieratico.
[11] Nel “Papiro dello Sciopero” si riporta spesso che la squadra aveva “saltato il muro”, non si sa quale confine o limite si riferisse, forse il recinto della tomba reale in costruzione, ma sicuramente doveva essere il primo passo dello sciopero.