di Paolo Boccuccia
Il mito della creazione della prima coppia umana narrato in Genesi, come ognuno sa, presenta due versioni: una detta javeista in cui il dio creatore dopo aver confezionato Adamo con del terriccio e dopo avergli dato vita soffiando (o sputando) su di esso, trovò che l’essere così animato si annoiava tutto solo nel giardino in Eden dove l’aveva alloggiato; ed infusogli un gran sonno, provvide ad estrargli una costola con la quale confezionò una copia femminile di lui: copia che, resa a sua volta vivente, ricevette il nome di Eva, che significa appunto “vita” (in senso generico), presentandola così ad Adamo.
La tradizione haggadica specifica che sulla scala dei valori estetici, nei confronti di Dio, il primo uomo pareva una scimmia e che la prima donna nei confronti di Adamo presentava lo stesso svantaggio: circostanza questa, che tuttavia non impedì al primo uomo di accettare e conoscere (in senso biblico, appunto) la sua compagna, e successivamente generare con lei figli e figlie.
L’altra versione, quella eloista, reputata dagli esegeti dei testi vetero scritturali la più antica, narra invece, che Elhoim li creò insieme a sua immagine e somiglianza ponendoli nell’Eden. Così, mentre la prima versione, di derivazione ascrivibile alla regione meridionale dell’area ebraica (il regno di Giuda) reca una decisa impronta maschilista, la donna come copia imperfetta dell’uomo, quella eloista, di derivazione settentrionale, il regno di Samaria, appare nettamente più equilibrata nella considerazione dei generi.
Accanto a queste due versioni, però, ce n’è pure una terza, un racconto extrascritturale giunto a noi attraverso la scuola cabalistica e contenuto nel Sefer-ha-Zoar (Libro dello Splendore), scritto in aramaico (lingua non più parlata dalle comunità ebraiche della dispersione sin dall’VIII secolo dell’era nostra), e divulgato in ebraico in Spagna tra il 1280 ed il 1290 da Moshè bar Shem Tov ha Leon.
Tale ponderosa opera, è composta da diversi Midrashim (commenti), trattati più o meno monografici, uno dei quali, redatto da Sholem bar Sirah (figlio di Sirah) detto il Siracide, narra la storia della creazione della prima coppia umana in maniera nettamente diversa dalle redazioni di Genesi.
Secondo questa versione, la prima moglie di Adamo, creata insieme a lui secondo il modello eloista, non fu Eva ma Lilith la quale, peraltro, ricevette da Dio un favore non piccolo al momento del suo animarsi, perché fu a lei e non ad Adamo che Elhoim sussurrò il suo nome segreto, che dava poteri straordinari a chi lo avesse pronunciato.
Questa figura di Lilith, le classi sacerdotali ebree la appresero durante la cattività babilonese insieme alle tradizioni sulla creazione del primo Uomo e la estrapolarono dal nome mesopotamico Lilithu. La Lilithu babilonese era una epifania della grande Dea Isthar e veniva descritta nei testi cuneiformi come un’inviata della dea dell’amore che aveva il compito (del tutto positivo e salutare) di sedurre gli uomini e spingerli a cercare compagnie femminili.
Quando Adamo e Lilith consumarono il primo rapporto sessuale, furono entrambi pervasi da esplosioni di sensazioni estatiche, ragion per cui Lilith volendo essere partecipe a tutti i piaceri relativi al sesso, cominciò a dimostrarsi insofferente di assumere sempre una posizione che serviva solo per il sollazzo ad Adamo (voleva stare sopra, essere attiva e condurre essa stessa il gioco). Adamo invece, voleva imporre la sua superiorità in quanto uomo, e non acconsentì ai desideri di Lilith, per cui l’idillio tra loro finì e Lilith fuggì nel Mar Rosso.
Vedendo che Adamo era rimasto solo, Elhoim tentò di richiamarla ma, di fronte al rifiuto di lei, gli confezionò una nuova compagna traendola dalla sua costola e la chiamò Eva. Ad una tale coppia, vietò di cogliere i frutti di due alberi: quello della Conoscenza, che avrebbe dato loro, una volta gustato, la coscienza del bene e del male, e quello della Vita che avrebbe dato l’immortalità
Adamo ed Eva vivevano nell’Eden una vita di tipo zoologico (giravano completamente nudi) priva di coscienza e della responsabilità legata al “conoscere”; ma questo stato di cose cessò quando il Serpente suggerì ad Eva di cogliere il frutto dell’Albero della Conoscenza e di farne assaggiare anche al compagno Adamo. Ebbene, quel serpente non poteva essere una bestia qualsiasi, anche se Genesi annota che era “il più astuto fra tutti gli animali”, e non aveva motivo di tentare la coppia edenica.
In realtà il Tentatore per il Siracide era Lilith, che in tal modo sapeva di provocare l’ira di Elhoim contro Adamo e la sua nuova compagna: piano che le riuscì benissimo, in quanto i protoparenti per il loro atto di disubbidienza, furono cacciati dall’Eden e condannati l’uno a guadagnarsi da vivere con il sudore della fronte e l’altra al travaglio del parto.
Quella di Lilith-Serpente sembra quindi doversi considerare una vendetta di Lilith contro la prima coppia, provocata dal comportamento arrogante di Adamo e da gelosia nei confronti di Eva. Ma a ben guardare, cosa avrebbe provocato l’indotta disubbidienza al divieto divino di acquisire la conoscenza se non il passaggio della specie umana, rappresentata dalla coppia dei protopatenti, ad uno stadio di superiore coscienza? Tanto è vero che il Dio di Genesi di fronte al loro atto si adira non solo e non tanto a causa della loro ribellione all’ordine ricevuto, ma perché teme che le sue creature, mangiando anche il frutto del secondo dei due alberi proibiti, diventino uguali a lui. E quindi li caccia dall’Eden non solo per infliggere loro una punizione, ma soprattutto per impedire che gustando anche il frutto dell’Albero della Vita non conoscano mai la morte.
In quest’ottica, l’atto del Lilith-Serpente tentatore va visto non come rappresaglia messa in atto contro Adamo ed Eva, ma come un attacco alla supponenza di Elhoim, che l’aveva respinta come compagna reputandola indegna.
Nei confronti di Adamo e di Eva l’azione di Lilith può essere invece, vista come un atto altruistico di liberazione, che rende i due, e dopo di loro l’intero genere umano, coscienti della realtà e quindi in grado di decidere autonomamente dei loro destini.
Naturalmente, questo punto di vista intorno alla personalità e le azioni di Lilith non poteva essere accettato dagli estensori dello Zoar, che accolsero sì il mito della Prima Moglie ma lo stravolsero senza però cancellarlo, descrivendola come l’incarnazione stessa del male che accoppiandosi con i demoni del deserto genera un’orda di spiriti malvagi, uccide i neonati e fa abortire le donne gravide.
Quello che il pio estensore non potè però tacere fu la stravolgente bellezza di Lilith unita alla sua sensualità, per cui essa non solo rifiutava di sottostare (in senso fisico oltre che morale) al marito, ma pretendeva di godere essa stessa dalle gioie del sesso, invece che servire passivamente al sollazzo di Adamo.
Il nome stesso della Prima Moglie venne desunto in epoca esilica (VII-VI secolo avanti l’era nostra) da quello del demone mesopotamico Lilithu, anche se il personaggio ed il suo mito sono da connettere con le tradizioni siro-cananee sulla creazione dell’Uomo.
In ambito ebraico post-esilico, Lolith si trasforma in un demone che di notte aggredisce sessualmente i maschi e sugge loro con polluzioni ripetute il vigore e la ragione, sino a divenire nel medioevo est-europeo il prototipo del vampiro. Lilith è golosa di seme d’uomo, sta sempre in agguato dove il seme può andare sparso specialmente fra le lenzuola, e tutto il seme che non va a finire nella vagina della donna è suo, insieme a tutto il seme che ogni uomo ha sprecato nella sua vita per sogni o vizio o adulterio.
In ambito cristiano l’icona della donna-serpente che tenta Eva nell’Eden, attorcendosi all’albero della scienza, invase le arti figurative a partire dalla fine del sec. XIII e sino all’epoca della Riforma luterana, ossia subito dopo la redazione del 1280-’90 del Libro dello Splendore, per cui è innegabile una transizione immediata dalla Qabbalah ebraica all’arte cristiana del motivo mitico stesso.
Questo stilegma figurativo culminò con le rappresentazioni della tentazione di Eva nelle opere di pittori quali Jeronimus Bosch, Luca Cranach, Michelangelo e Raffaello, per poi spegnersi in seguito all’inaridirsi delle tematiche religiose nell’ambito dell’Europa protestante ed all’affermarsi nell’occidente cattolico della pittura religiosa di tipo controriformistico, strettamente sottoposta al controllo concettuale del clero.
E’ notevole a questo proposito il fatto che in molte raffigurazioni bassomedievali la testa della donna-serpente ( Lilith ) che tenta Eva, appaia coronata in segno di una divina regalità, spiegabile con la dignità di quasi uguale a Dio che le conferiva il possedere il Nome segreto.
In ambito cabalistico non si può non considerare l’Albero Sefirotico e analizzare quella misteriosa, invisibile, Undicesima Sefira che è chiamata Dà’at che vuol dire Conoscenza. In molti brani della Bibbia, a cominciare da quello della storia del peccato di Adamo, il termine Dà’at, “conoscenza” ha l’accezione di una vera e propria unione sessuale tra uomo e donna (…e Adamo conobbe Eva sua moglie…) ( Giuseppe andò ad abitare con Maria, ma non la conobbe; Mt;1,24).
D’altra parte il rapporto sessuale è il paradigma più riuscito della potenza unificatrice di Dà’at, capace di costituirsi come ponte tra qualunque coppia di opposti e mettere in equilibrio le Sfere Kochmah e Binah.
Nel mito di Genesi, Lilith segna il passaggio non solo dal genere ominide a quello Sapiens, ma pure da quell’istinto sessuale, meramente legato alla sfera zoologica, in un più evoluto istinto legato all’erotismo, come d’altra parte, in modo chiaro, Michelangelo ci dà nel suo dipinto: è sufficiente voltare la testa di Eva di 180° per comprendere di quale “Albero” si tratti e di quale “frutto” Eva si sia cibata.
In definitiva, Lilith ci spinge a uscire da uno stato di immacolata innocenza, per farci incamminare alla conquista della piena coscienza, passando attraverso le sponde della cruda esperienza; e i mezzi che userà per raggiungere questo scopo possono essere di qualsiasi tipo. L’importante è che riesca a farci rompere i blocchi che ci impediscono di avviare questo processo. Solo aprendoci a queste esperienze, in piena libertà, la nostra coscienza può crescere, e dal mondo dell’illusorio, rompendo i veli, sarà possibile raggiungere la Realtà.






