di Massimiliano Bonne
I sacerdoti di oggi sanno tutto del sapere tecnico e tecnologico, in modo così profondo rispetto al volgo comune, da riuscire a sbagliare ogni previsione sulla sostanza delle cose.
Il nostro Paese ha avuto la fortuna di ospitare un Maestro spirituale in tempi molto recenti di cui si è scritto poco. Massimo Scaligero per chi ha avuto in passato la fortuna di conoscerlo è stato un Maestro spirituale impareggiabile ma è stato al contempo un uomo semplice, immediato, mite, estremamente concreto e pragmatico. Non comprendere la grandezza di Scaligero equivale a disconoscere la grandezza di Steiner ovvero a non essere stati capaci di cogliere il senso della Scienza Occulta.
Riprendere la sua eredità, sarebbe utile per chi opera oggi in questo contesto avvilente apparentemente senza logica e paradossale. Massimo Scaligero nella sua opera si cimentò riuscendo a trovare una sintesi organica tra gli insegnamenti dell’antica sapienza orientale che aveva egregiamente assimilato e realizzato e gli insegnamenti del Maestro austriaco: in ciò gli fu di grande aiuto un altro grande Maestro nostrano Giovanni Colazza che all’epoca già operava nel Gruppo Ur, uno dei più intimi discepoli di Steiner, che, presentatogli da Evola, divenne il suo Maestro ([i]).
Bastò questo per far riconoscere a Massimo in Steiner il Maestro dei Nuovi Tempi e per fargli comprendere che quelli apparentemente facili esercizi erano la cosa più importante non solo di tutta la vastissima opera di Rudolf Steiner ma di tutto l’esoterismo moderno.
Massimo Scaligero, nella sua personale ricerca interiore, non era assolutamente partito da Steiner e dall’Antroposofia, bensì dall’Oriente. Egli partì dall’Oriente per arrivare all’Occidente come del resto è intuibile dal titolo della Sua autobiografia, “Dallo Yoga alla Rosacroce”. Egli, incontrando le opere di Steiner trovò conferma che le sue intuizioni ed i risultati che aveva conseguito nel suo cammino spirituale erano giusti ; in realtà per comprenderlo ebbe bisogno soltanto di due opere di Steiner, le più importanti: L’Iniziazione e la Scienza Occulta il cui punto di contatto è costituito dal capitolo V del secondo dei testi citati, quello dove Steiner descrive i celebri cinque esercizi.
La Via Spirituale descritta da Massimo nei suoi libri è il risultato di tale sintesi. È una via spregiudicata, asciutta e diretta: essa è priva di alcun ascetismo eremitico, di umido misticismo, di confortanti rifugi in astrazioni mentali, in giochi dialettico- intellettuali e in illusori stati sognanti.
La strada indicata da Massimo è una via alchemica operativa, un lavoro altero e rigoroso e si può essere qualificati come suoi discepoli unicamente avendo abbracciato tale Via di trasformazione attraverso l’esperienza pratica. La Via del Pensiero è dura, lucente e tagliente come la folgore (vajra) della tradizione tantrica tibetana.
Scaligero riprende con coraggio la Scienza Occulta e da l’indicazione della “Via del pensiero” come attitudine teorica e pratica dello sviluppo della personalità che egli, nell’opera Tecniche della concentrazione interiore descrive così:
«L’uomo conosce e in qualche modo domina il mondo, mediante il pensiero. La contraddizione è che egli non conosce né domina il pensiero. Il pensiero permane un mistero a sé stesso. La filosofia, la psicologia, traggono alimento da esso, ma, da quando esistono, non mostrano di aver afferrato il senso del suo movimento, il contenuto ultimo del processo logico, del quale si giovano per le loro strutture dialettiche. Ritengono che il pensiero sia la dialettica, coincida con la dialettica: nasca e finisca come dialettica. Ai fini del Sapere, l’oggettività esteriore sorge come sistema di valori nella coscienza umana, ma questa ignora di istituire il fondamento di quella e di determinare l’oggettività come concetto, prima della consapevolezza dialettica del concetto medesimo. Logicamente, l’uomo sa che cosa è un concetto, ma ignora che cosa esso sia come forza e come nasca e quale il suo potere di compimento nel reale: che è più che il suo apparire dialettico e logico: il potere medesimo della vita» (Massimo Scaligero, Tecniche della concentrazione interiore, Roma, Edizioni Mediterranee, 1975).
Lo scritto considerata da molti lo scritto migliore per iniziare ad approcciare l’opera Massimo Scaligero è La Logica contro l’Uomo. Già il titolo azzera tutte le nostre convinzioni. Essa esamina le difficoltà incontrate dai filosofi e dagli scienziati moderni che utilizzano il pensiero “discorsivo” per spiegare il mistero dell’esistenza umana.
Il pensiero “discorsivo”, che riconduce alla “letteralizzazione” della realtà di James Hillman e che si muove nel solco dei limiti intrinseci del razionalismo e delle presunzioni scientifiche, è visto da Scaligero come una forma di patologia mentale tout-court, ampiamente diffusa nella cultura odierna. In effetti, egli mostra come i membri della comunità scientifica e del mondo accademico – inconsapevoli dell’effetto dell’aderenza del pensiero alle forze corporee – siano spesso essi stessi diffusori involontari di una patologia mentale che cercano di analizzare nelle loro ricerche.
Nella prima metà del libro, “Il mito della scienza”, Scaligero affronta numerosi argomenti, tra cui i modi in cui le opere di Freud e Jung hanno portato all’eliminazione del “sacro” attraverso la “sacralizzazione” dell’inconscio.
Nella seconda parte del libro, “Il sentiero del pensiero”, l’autore sostiene che, per rimediare ai problemi del pensiero moderno, dobbiamo coltivare la percezione dell'”essere” del pensiero – una percezione che è sfuggita a molti pensatori, da Hegel a Krishnamurti, che non sono riusciti a liberare efficacemente il loro pensiero dalla “discorsività”. Massimo Scaligero insiste sulla necessità di generare una “scienza del pensiero” all’interno dell’umanità, un pensiero che trascenda i limiti dell’elaborazione concettuale, una scienza animata continuamente dall’essere vivente da cui nasce. Nell’aiutarci a raggiungere questo obiettivo, Scaligero delinea un percorso pratico basato sulle “tecniche di concentrazione”, in ultima analisi necessarie alla realizzazione dell'”Io Sono”.
Scaligero non concede nulla al nichilismo tipico dei filosofi contemporanei, ma osa riproporre con rinnovata forza i misteri della Tradizione che passano attraverso il riconoscimento della necessità, per lui non più eludibile, di approdare a un pensiero vivente, o «solare», capace di trascendere la dialettica del pensiero riflessivo o «lunare», cioè puramente cerebrale e statico, che porta a scambiare l’apparenza esteriore della realtà per la sua essenza.
Scaligero scrive che la situazione odierna del dialettismo formalmente è la persuasione di esprimere qualcosa che sia pensiero, e perciò assunzione obiettiva di un tema, mentre, al contrario, è l’esigenza del mentale di esprimere la propria possessione da parte di un processo estraneo.
In tal modo l’uomo, secondo Scaligero, mediante un dialettismo illegittimamente formale, viene educato ad accogliere le sollecitazioni rivolte al suo automatismo pensante, il pensiero è ridotto ad un percorso per analogismi, piuttosto che al suo reale pensiero. Il reale pensare diventa sempre più faticoso, mentre la loquela progressiva fondata sui meccanismi discorsivi facilita il pensiero a cui non importi intendere, bensì codificare la propria inerzia.
La coincidenza della massima raffinatezza logica con l’automatismo mentale diviene possibile sulla linea di una tecnica del formalismo discorsivo, priva di effettiva penetrazione del contenuto: che c’è, ammette Scaligero ma solo come alibi. La dialettica diviene veste esatta dell’automatismo mentale, ossia codificazione di una patologia ossessiva.
Scaligero muove una critica senza appello contro l’approccio scientifico dei sacerdoti del nostro tempo. Illusoriamente l’uomo o lo scienziato è entrato in un mondo d’indagini, mediante cui crede di aver acquisito un rapporto più reciso e più autoritario con la realtà fisica, mentre è vero il contrario: questa tende a sfuggirgli come non mai, lasciandogli nelle mani soltanto le strutture tecnico-metodologiche, ossia il cadavere cibernetico della sfera esteriore, in cui egli invero si muove da padrone, mentre perde sempre più terreno con la concretezza della natura e del cosmo.
Nell’uomo dialetticamente automatizzato, secondo Scaligero, l’intelligenza, priva di movimento autonomo, non esprime reale pensiero, bensì contenuto psichico, riguardo all’idea di un mondo reale di là da quello quotidiano e apparente: onde in realtà la paura del mondo sovrasensibile, agendo come inconscia forza della dialettica, organizza e rende valida nelle forme della cultura l’irrealtà del mondo esclusivamente misurabile.
Secondo Scaligero, si sta in realtà costruendo un cosmo cibernetico per l’uomo-macchina. La perdita del potere sintetico è il segno tipico del collasso del pensiero, che si tenta compensare con una diabolica efficienza analitica e la dovizia di apparato critico senza limiti.
Il ritorno alla logica formale in questo tempo è il segno dell’insufficiente coscienza del pensiero, rispetto all’esperienza che compie nel mondo fisico. In realtà, allo scienziato moderno manca la logica della propria esperienza scientifica.
Un contro senso ma manca allo scienziato di questo tempo la coscienza del suo stesso pensiero, che è qualcosa di più che il pensiero conseguente all’esperienza: gli manca la capacità di distinzione tra la logica necessaria alla comprensione e all’ulteriore sviluppo dell’esperienza, una volta compiuta, e l’essenziale pensiero messo in atto dall’intimo dell’anima cosciente nell’esperienza medesima.
Lo scienziato moderno opera mediante i segni astratti della relazione, non con la relazione stessa, ossia opera ormai come un tecnico: un aggiornatissimo tecnico. Egli rimane entro lo stretto limite, che gli consente al massimo la proiezione obiettiva dell’astrattificazione del reale, la produzione meccanica, e annienta ogni volta i suoi sforzi di sperimentare il vivente, che è il piano della relazione da lui resa estranea all’indagine, e illusoriamente posseduta nelle notazioni astratte.
Insomma, crea un vestito con cui dare una forma alla realtà, crea una teoria, e scambia il vestito per la realtà. La teoria asettica diviene la realtà.
Scaligero va un poco oltre gli approcci orientalistici e sostiene che il pensiero è come un flusso di fotogrammi, che però non coglie la sostanza che è dietro il processo del pensare. Non a caso Carmelo Bene asseriva nelle sue opere che bisogna depensare, ma per depensare bisogna prima pensare, andare all’essenza del pensiero. Si dovrebbe andare quindi a ritroso e vedere che c’ è dietro la rappresentazione.
Quando pensiamo ci si dimentica di pensare. Il ricercatore si dimentica perché è rapito dal concetto e non è in contatto con l’essenza, la sostanza che produce il pensiero. Non si riflette alla qualità del pensiero. L’uomo stampa pensieri e ritiene che questo saltare da pensiero a pensiero sia il ragionamento logico che possa descrivere la realtà. Ma non lo è affatto. Per analogia, i pensieri sono come orme, e l’uomo ci cammina sopra e di fatto non contano le idee, perché sono semplicemente orme su un terreno fangoso e senza vita.
La metodologia logica o tecnica diviene così impedimento all’intuizione che necessita ad ogni reale ricerca. Infatti, l’applicazione tecnica più ingegnosa, sino a sviluppi impensati di un determinato principio fisico, non è il prodotto dell’intuizione, bensì della metodologia e della tecnologia che, secondo uno svolgimento progressivo di tipo inferenziale, utilizzano l’originaria intuizione del principio. L’insofferenza per l’elemento intuitivo-immaginativo è chiara.
L’intuizione rimane invece il nucleo vitale di una vera ricerca. La pura attività intuitiva, dove sia ancora possibile, è la garanzia secondo Scaligero del giusto uso di tale logica. Il resto è pensiero pensato che si muove per analogia senza cogliere l’essenza.
Cercare l’essenza (che i fisici chiamano parametro nascosto) nel calcolo delle proposizioni e nelle loro trasformazioni in simboli, è come cercare dentro lo specchio una realtà infinita di immagini riflesse. Come un frattale, non c’è di fatto mai fine all’insaziabile indagine scientifica nel mondo materiale.
Una logica formale pura che non divenga introduzione all’esperienza del pensiero puro, e che perciò non conduca, nella forma di una sopra-coscienza rigorosa, alla mistica e alla metafisica, ma si arresti alle strutture del discorso e alle relazioni tra le parole, è una paralisi del pensiero.
L’essenza del pensiero è invece il nucleo dell’operare umano: è una realtà seria con cui non ci si può baloccare mediante sillogismi presi in prestito dall’analisi matematica, perché è in gioco l’orientamento stesso della cultura umana. Il momento presente è grave, secondo Scaligero, appunto per l’insostenibilità di un reale senso della cultura e per l’insufficienza del pensiero dinanzi ai problemi che assediano non determinate correnti o categorie, ma la struttura e il significato stesso della civiltà e del vero progetto umano.
Secondo Scaligero, non v’è reale pensiero che non implichi azione dell’anima, ossia la lucidità noetica. Il pensiero dialettico non può quindi afferrare veramente il mondo fisico e certamente ancora meno quello metafisico, perché non possiede il processo mediante cui lo conosce, assumendolo come reale fuori di sé: un processo che gli è interiore, come il tantum della realtà fisica o metafisica che riesce a penetrare. Ciò che permane esteriore a tale processo di conoscenza, non è fuori dell’uomo, ma all’interno del pensiero. Dal pensiero, in quanto pensiero riflesso, sorge l’immagine esteriore del mondo e questa immagine esso si trova contrapposta come realtà, che in effetti non è la realtà, ma la sua rappresentazione simbolica.
Lucido, spregiudicato, Scaligero osa sul serio e smaschera l’inganno ed è definitivo quando asserisce che il pericolo di una simile sostituzione di contenuto si deve al fatto che alla cultura di questo tempo manca l’esperienza del concetto: quella che i pensatori del passato ebbero intuitivamente, i moderni potrebbero conseguire per sublimazione del processo logico: processo che oggi invece subisce ben altra elaborazione. In realtà non mancano i concetti, ma in quanto non sono essi a formare il discorso, bensì, al contrario, il discorso li fa suoi e li usa, essi vengono in qualche modo vampirizzati quindi disinnescati e privati di contenuto. Appaiono concetti, senza esserlo veramente. L’intellettuale di questo tempo non pensa veramente quello che dice, ma dà valore di pensiero a ciò che egli è portato a concatenare discorsivamente.
Gli intellettuali di oggi sono in realtà orfani dello Spirito. Lo scienziato, avendo impegnato nel fenomeno il pensiero, senza possibilità di sperimentarlo come sua attività esplicantesi nel fenomeno sino ad assumerlo come vero, ha finito col considerare reale il fenomeno senza la sua attività. Si è privato dell’atto più importante: riconoscere quel che di reale opera di lui nell’esperienza del reale, cioè, ma sua coscienza.
Si immagini un oceanografo che sa tutto di oceani, ma non è mai stato al mare! Un uomo che non ha fatto l’esperienza di conoscere veramente e asSAPorare il mare non potrà mai SAPere tutto veramente sul mare.
In tal senso, avendo accennato sopra alla cibernetica, si può certamente dire che sia un settore utile in specifiche ricerche ma assurge oggi a simbolo della tecnologia integrale, connettendo essa i processi di automazione sorti come sviluppi delle vecchie discipline o attuando l’aggregazione interdisciplinare delle nuove specializzazioni: missilistica, econometrica, biochimica, biofisica, psicocibernetica, ecc.
Si sta quindi costruendo un cosmo cibernetico per l’uomo-macchina che sorriderà con compatimento di chi non lo voglia più riconoscere come uomo: perché tecnologicamente avrà la sua etica, il suo legalismo, il suo spiritualismo, la sua religiosità (sappiamo che in una città italiana sono in atto i centri di automazione e di analisi strutturale per l’esegesi dei testi sacri), persino le sue ricostituzioni tradizionali.
Il tecnologo-ciberneta ora ha tutto: gli manca soltanto il pensiero con cui inizialmente ha avuto a che fare per il fenomeno, perché il fenomeno glielo ha sottratto. Oggi è una logica deduttiva a sancire tale sottrazione!
Dall’altra, scrive Scaligero nel Suo «Dallo Yoga alla Rosacroce», il” Pensiero Vivente”, autentico ricostitutore del rapporto dell’uomo con il reale, « o è un’esperienza o è un nulla». Per questo, senza andare a cercare in ascetismi orientali, nel vecchio motto nostrano Ora et Labora non c’è’ una congiunzione tra i due termini ma ci dice che la meditazione è il Lavoro (da praticare).
Pur nella loro architettura logica, anzi proprio in virtù della loro architettura logica, le Tradizioni non davano verità rivelate ma il moto interiore necessario a cercare la verità, non trasmettevano una concezione del mondo ma conducevano alla fonte dalla quale sgorgano le concezioni del mondo, non costruivano un sistema di pensiero ma rendevano attivo il pensiero in modo che non gli occorresse un sistema!
Il pensiero analogico è la nostra croce ma paradossalmente il discernimento, la mente diviene una chiave di salvezza. In altri termini, il pensiero liberato viene detto vivente, perché è il pensiero che comincia a percepire, in sé e negli enti visibili e invisibili, la Vita: la Luce originaria. La Luce originaria normalmente fluisce sconosciuta, come pensiero pre-dialettico (per esempio un’intuizione), nel pensiero dialettico: che ne è il riflesso, o la parvenza, la maya. La dialettica è bensì indispensabile all’esperienza quotidiana e alla pratica, ma è inservibile alla penetrazione del reale. Anzi è l’ostacolo!
In conclusione, Massimo Scaligero ha svolto in profondità questa intuizione fondamentale che è in parte sfuggita ai più e che viene riproposta invece nel contesto contemporaneo occidentale con originalità assoluta, ma anche nella più rigorosa fedeltà all’indicazione prima, venuta da Rudolf Steiner. Tutta la sua opera tende a risvegliare in chi legge la consapevolezza della potenza cosmica che si nasconde nell’uomo. Un elemento di potenza è la mente, il discernimento quello argenteo rappresentato astrologicamente dal glifo Geminiano, che nella sua vera natura gli resta sconosciuto, perché la coscienza ordinaria ne coglie solo il riflesso, nei pensieri che pensa attraverso il cervello fisico.
Con questo riflesso l’uomo interpreta il mondo, che quindi gli appare a sua volta riflesso, separato da lui, antecedente alla sua esistenza e indifferente al suo intervento, già fatto e concluso, creato o non creato che sia: come appunto viene descritto e classificato nei sistemi filosofici, teologici e scientifici, costruiti a loro volta con pensieri riflessi e «pensati». E’ l’illusione, la « maja », che si scioglie quando si risale dal « pensato » al « pensare », dal riflesso alla fonte luminosa che ne è all’origine: «Il riflesso è l’opposto della Luce. L’arte del cercatore di questo tempo è di risalire dal riflesso alla Luce, dal pensiero morto al vivente».
Come tessuto di parole, la dialettica è priva del potere di penetrazione, proprio al suo momento pre-dialettico: nel quale, soltanto, l’uomo può afferrarsi come Soggetto.
Chiudendo con quanto scritto sopra, non si può non riconoscere la grandezza e l’innovazione tipica degli Iniziati. Massimo Scaligero smaschera l’autoinganno e ci dà le chiavi (e la spada) per abbracciare una coscienza nuova. Ci vuole anche dire che esiste una Sapienza dietro tutto, sempre accessibile in qualsiasi dei mondi possibili che non va cercata in un angolo sperduto dell’universo come vorrebbe farci credere molta cultura scientista e fantascientifica (anche New Age), ma ce l’abbiamo sotto il naso. Qualsiasi teoria tecnica o studio dell’universo che viene approcciato dall‘ego infatti, produce continue difficoltà nella capacità di promuovere la ricerca dell’unita.
Infatti, un metodo approcciato per definire sé stessi e trovare la propria identità non può far altro che specchiare la stessa limitazione dell’ego nella sua funzione di definizione ed autoaffermazione.
E non si parla della validità del metodo o della sua profondità perché gli occhi della definizione creeranno una cortina che impedisce la visione di ciò che è.
Ogni informazione nell’universo è costituente unica di un processo infinito. Questo pone limiti al contorno di ciò che è fatto e finito, ciò che è puntualizzato. L’informazione pertanto può essere e rimanere solo impersonale/ universale.
Massimo Scaligero fu chiaramente intercettato per il valore del suo insegnamento, le sue opere tradotte in molte lingue, tra cui il Tibetano. E chissà a quante guerre dovremmo ancora assistere prima comprendere l’importanza della sua opera.
[i] La peculiarità di questo sodalizio stava nell’essere un momento ed un tentativo di sintesi fra varie correnti di spiritualità esoterica, quindi élitaria, selettiva, non accessibile a tutti. Tale sintesi veniva cercata anzitutto sul piano spirituale, “magico-operativo”, poi anche su quello dell’elaborazione culturale, in termini di dottrina esoterica, quale si esprimeva sulla rivista Ur-Krur. Erano infatti presenti nel gruppo Colazza, Reghini e Parise.
Il fine di Ur, sul piano operativo-spirituale, è dunque quello di evocare una forza metafisica, attirandola col magnete psichico costituito dalla “catena” di Ur e dalle correlative operazioni di catena sulle quali, nella rivista omonima, si leggono precise istruzioni. Questa “forza” doveva poi trovare un suo sbocco, una sua estrinsecazione sul piano dell’azione culturale ed anche su quello politico.
Ur si presenta quindi come una elaborazione critica della spiritualità esoterica tradizionale e, correlativamente, della cultura esoterica sia sul piano tecnico-operativo che su quello dell’esegesi testuale e dell’inquadramento dottrinario. Esso è, al tempo stesso, un momento di confronto pluralistico fra vari indirizzi iniziatici, in modo che il lettore possa scegliere avendo una panoramica generale, una visione d’insieme dei molteplici indirizzi operativi presenti nella spiritualità esoterica della prima metà del Novecento.
nella fotografia Massimo Scaligero