di Silvano Danesi
“Il dubbio è scomodo,
ma la certezza è
assurda”.
Voltaire, Dalla lettera a Federico II Di Prussia del 6 aprile 1767
In un mondo contemporaneo prono ad un pensiero unico, proposto come certezza, il dubbio assume la forza di un’azione fecondante, non solo la ricerca di nuovi orizzonti di conoscenza, ma anche di quell’orizzonte spirituale che è dotato di senso e orienta.
Una società materialista, che si occupa ormai solo ed esclusivamente del corpo e ha dimenticato di confrontarsi con l’Essenza, non vuole dubbi, ma dogmi, certezze anche se fasulle e i dogmi e le certezze creano immobilità, assuefazione, coazione a ripetere.
Il dubbio, al contrario, introduce movimento, libertà di pensiero, tensione verso la verità.
Il pensiero unico che si propone, con i suoi dogmi e le sue certezze, come verità è l’inganno più diabolico, in quanto divisivo, lacerante la complessità dell’essere umano, che è ridotto a cosa, a oggetto e, in quanto oggetto, manipolabile a piacere.
E’ necessario ripristinare l’essere umano nella sua completezza, mettendo al centro la sua essenzialità, recuperando una spiritualità che è andata scemando e che è conculcata da una deriva consumistica e materialista.
Mala tempora currunt, ma alla deriva dell’inganno va opposta, con coraggio, la forza salvifica del dubbio, che è uno dei portati di una coscienza iniziatica, la quale è costantemente sulla via della ricerca di significati e della verità.
Cosa contraddistingue la coscienza iniziatica?
Ciò che contraddistingue la coscienza iniziatica è, sostiene Emilio Servadio, “ la consapevolezza: in parole povere, il sapere ciò che avviene, perché avviene, e a che scopo avviene: il che si contrappone in modo pressoché totalitario a tutto ciò che può ricomprendersi sotto l’etichetta di «coscienza alterata». […]. Ne consegue che l’iniziazione debba essere in qualche modo «programmata», e cioè: 1) che essendosi riconosciute nell’aspirante alcune «disposizioni» o doti idonee (così come si deve riconoscere una certa disposizione per la musica a chi volesse entrare in un Conservatorio), essa debba avvenire nell’ambito di una organizzazione tradizionale; 2) che sia il conferimento di un’influenza illuminante tramandata ab antiquo secondo una trasmissione ininterrotta; che colui al quale l’iniziazione è stata conferita ne realizzi gradualmente i possibili sviluppi, operando anche individualmente, ma non senza l’aiuto che può venirgli tanto dalle indicazioni di qualcuno che sia già avanti sulla via iniziatica, quanto dalla compartecipazione di altri che si trovino più o meno nelle sue condizioni, e nella cui «catena» egli sia venuto ad inserirsi”. [1]
“Metaforicamente – scrive Servadio – ho paragonato l’albeggiare di una coscienza iniziatica all’entrata consapevole in un territorio nuovo e diverso: un territorio in cui si può acquistare vero sapere, e autentica libertà”. [2]
I Greci – scrive Patricia S. Churchland – non avevano l’equivalente della parola coscienza […]. La parola coscienza fu introdotta, in seguito, dai Romani. In latino il prefisso con significa «in comune» e scientia significa «conoscenza». Dunque, con-scientia significa, grossomodo, «conoscenza delle norme sociali»”. [3]
Tutto qui? Sicuramente no. Indubbiamente avere conoscenza delle norme sociali è un passo importante, ma la coscienza è ben altro.
Cosa sia la coscienza non è facile da definire, tuttavia va considerato che la coscienza implica una conoscenza di ciò che è moralmente giusto o sbagliato in base ad una sensibilità che va oltre le norme sociali consolidate.
Socrate si riferiva ad una voce interiore, ma quanto è affidabile questa voce?
Potremmo, ragionevolmente, accedere all’idea di una voce del Sé, ossia della nostra essenza, di quel nucleo di intelligenza che gli Egizi chiamavano Sa-Hu e gli indiani Atman e che è la nostra individualità essenziale in contatto e relazione con il Tutto.
Relativamente alla coscienza sono in campo varie teorie.
Una di queste afferma che la coscienza ha sede nel cervello ed è una funzione cerebrale.
Un’altra sostiene che la coscienza è presente in ogni risultato dell’evoluzione; una sorta di “Nel principio è la coscienza” e noi siamo quanti di coscienza.
Una terza prevede come principio della coscienza quello di incontro, di relazione.
Mia pare di poter dire che le tre teorie andrebbero integrate e coordinate, essendo in ciascuna di esse un elemento di verità.
Come possiamo declinare questa latina con-scientia in modo che non sia soggetta semplicemente alle norme sociali, ai sentimenti, ai giudizi storicamente e ambientalmente determinati in un dato tempo e in un dato luogo?
La via possibile è quella dei simboli, ossia del linguaggio degli archetipi, che è la lingua che maggiormente si approssima a quel linguaggio universale che appartiene all’energia intelligente, informata, significante e cosciente che chiamiamo Tutto o Archè, o Grande Architetto dell’Universo o, nelle declinazioni di molte religioni, Dio o, ancora: Tao, Brahman.
Una delle caratteristiche più significative del nostro essere “umani” è la capacità di pensare, di simbolizzare, di creare significati.
Siamo per lo più esseri audio-visivi e siamo dotati di intelligenza simbolica e del potere di immaginare . [4]
Bessel Van Der Kolk afferma che “gli esseri umani sono creature che creano significati”. [5]
Cosa è l’immaginazione?
E’ mettere un’informazione in un’immagine; è tradurre un’idea, un pensiero in immagine.
E un pensiero cosa è?
E’ informazione in azione.
Immaginare è, dunque, mettere l’informazione in azione in un corpo luminoso.
Nel verbo immaginare si annida il segreto della nostra essenza racchiusa in un corpo di luce.
Siamo nella nostra essenza immagini simiglianti, non uguali. Immagini del Tutto, simili al Tutto, in quanto determinazioni del Tutto, ma individui e in quanto immagini, photo-grammi, esseri di luce: nuclei di energia informata, intelligente, significante e cosciente in un corpo di luce, ossia in un’immagine.
E qui arriviamo al punto cruciale relativo al simbolo.
Cosa è un simbolo?
E’ un’immagine polisemica, ossia un’immagine che contiene più informazioni, una sorta di scrigno pieno di tesori.
Le immagini simboliche possono essere poste innanzi a noi dalla realtà circostante o emergere alla coscienza dall’inconscio.
Christopher Bollas scrive che il mondo orientale “mantiene una sfiducia nei confronti della comunicazione verbale, mentre investe immensa energia in parole-immagini che contengono il sé”.[6]
“Gli psicolinguisti – ci ricorda Patricia S. Churchland – hanno dimostrato che i nostri concetti abituali hanno una struttura radiale. Con ciò si intende che al cuore del concetto troviamo esempi sui quali siamo tutti d’accordo; attorno a questo nucleo unanime, vi sono altri esempi in qualche modo simili a quelli centrali, ma che non tutti giudicheranno riconducibili a quel concetto”. [7]
Potremmo, seguendo la spiegazione degli psicolinguisti, risalire, come il salmone, la corrente e passare dalla periferia al centro.
Nelle culture antiche era consuetudine usare un linguaggio simbolico, a volte enigmatico, giocato sull’analogia, l’omofonia, la sovrapposizione dei significati. Non solo. Miti, leggende, fiabe portano con sé, nei secoli, nuclei di significato che possono essere distillati e riportati in evidenza.
La stessa tradizione orale, anche se codificata nella scrittura in tempi più recenti, ha mantenuto inalterate nei secoli, come è stato chiarito da molti studiosi, le narrazioni.
Questo fatto consente di poter dare ai resoconti scritti della tradizione orale una datazione ben più antica di quella della stesura.
Da queste necessariamente brevi considerazioni consegue la possibilità di fare come il salmone, ovvero di risalire la corrente, superando ostacoli, per arrivare alla fonte.
La via del salmone, pertanto, in primo luogo è un percorso di ricerca delle antiche fonti.
La via del salmone è anche un percorso psicologico, che dal molteplice conduce agli archetipi attraverso un processo di semplificazione-purificazione che è intima comunicazione con se stessi e con altri: è comunicarsi e comunicare.
La via del salmone, infine, è un’ascesi della materia (il limite) verso lo spirito (il senza limite), nella coscienza che l’uno e l’altro sono due aspetti della stessa unica realtà.
La cerca è la virtù del salmone: dalle paludi del delta o dai molteplici affluenti risale verso la fonte. Fuor di metafora, quello del salmone è un percorso intellettuale, emotivo, spirituale, corporeo che comporta una prova interiore spietata, da cui esce uomo superiore o folle.
Il salmone, simbolo della saggezza, dal fenomenico-molteplice risale verso l’originaria unità, ovvero la sorgente dalla quale scaturisce l’energheia, la virgo, il cui archetipo è la Dea Madre Universale.
Risalire dal molteplice al semplice è liberarsi dagli schemi e la semplificazione è anche una prurificazione e “l’iniziato – scrive Jules Boucher – deve poter spezzare il «guscio mentale», cioè evadere dallo sterile razionalismo, per arrivare alla trascendenza; solo spezzando questo guscio è possibile accedere alla vera iniziazione. Tutti i simboli «aprono delle porte» a condizione di non attenersi, come generalmente avviene, alle sole definizioni morali”. [8]
L’archetipo è un prototipo ideale, un’idea modello ed è un aspetto dell’Essenza.
Il simbolo è la parte emergente di un archetipo, che rinvia costantemente a ciò che emerso non è ed è il linguaggio degli archetipi.
“Il simbolo – scrive Jean C.M. Travers – si scopre come un essere sensibile, avente consistenza propria, ma attraverso il quale si scorge una relazione di significato. Prima di significare, possiede già di per se stesso la sua propria natura. Dapprima si presenta come un essere sconosciuto per sé stesso, e solamente dopo, come un essere avente una relazione di significato con un altro termine”. [9]
“Lo stesso autore cita queste parole di Brunetièr: «Il simbolo è immagine, è pensiero… Esso ci fa cogliere, tra noi e il mondo, alcune di quelle affinità segrete e di quelle leggi oscure che possono oltrepassare la portata della scienza, ma che non sono, per questo, meno certe. Ogni simbolo è in questo senso una specie di rivelazione». Il simbolismo è, infatti, una vera scienza che ha le sue regole precise e i cui principi emanano dal mondo degli Archetipi”. [10]
“La conoscenza e l’intelligenza del divino – dice Giamblico (De Misteriis, II, II) – non basta per unire i fedeli a Dio, altrimenti i filosofi, con le loro speculazioni, realizzerebbero l’unione con gli dei. E’ la esecuzione perfetta e superiore all’intelligenza di atti ineffabili, è la forza inesplicabile dei simboli che dà l’intelligenza delle cose divine”. [11]
In fondo anche noi siamo simboli, immagini, pensiero che rinviano all’ulteriore, all’Arché, all’archetipo fondamentale, e a noi stessi nella nostra essenzialità.
Se non riscopriamo la nostra essenza saremo schiavi della materialità: oggetti manipolabili.
I quattro livelli del simbolo
Nel suo “Il codice segreto dei Templari”, Tim Wallace Murphy, citando Jhon Baldock (The Elements of Christian Symbolism, Shaftesbury, Element Books, 1997), dà una definizione del rapporto con il simbolo di estremo interesse.
“Il primo approccio col simbolo – scrive Murphy – ha una valenza meramente esterna, superficiale e non mostra un significato più profondo e nascosto. Penetrando il secondo livello, si va oltre, grazie anche alla nostra sempre più raffinata conoscenza introspettiva del simbolo. Il testo comincia ad essere letto non soltanto con gli occhi, ma con la mediazione di una percezione che esula dai sensi, capace di affrancarlo dal dominio e dalla servitù dello spazio e del tempo. Approdati al terzo livello di interpretazione si deve procedere con grande cautela, perché, purtroppo, si corre sovente il rischio di informare di noi, delle nostre aspettative e in ragione della nostra sensibilità, il significato autentico del simbolo, attribuendogli un senso personale, che scaturisce dalla formidabile stimolazione cui va incontro la mente in questi frangenti. Invece la mente deve aprirsi e restare in questa condizione, per consentire alla valenza interiore del simbolo di dare il via a quel lavorio psicologico che lo mette in correlazione sul piano dello spirito con l’idea e l’immagine che vuole rappresentare, fino a condurlo all’interno della nostra personale esperienza di vita. A questo livello il simbolo acquisisce una speciale rilevanza per il soggetto che diventa più consapevole di sè e sviluppa una relazione intima e trascendentale con il resto del creato. Tuttavia, anche in questo momento si corre un rischio potenziale, vale a dire quello di far vibrare la propria accresciuta consapevolezza in un senso troppo personale ed egoistico, invece di assumere questa nuova crescita come un valore positivo, capace di permettere altri ed ulteriori proficui sviluppi spirituali. Relativamente al quarto livello, Murphy riporta testualmente quanto scrive Baldock. “Al quarto livello, quello anagogico [esprime valori e verità trascendenti, ndr]…. l’importanza che prima veniva ascritta all’aspetto fisico e materiale del simbolo scompare, per fondersi in una nuova, inedita forma di conoscenza … il simbolo stesso si dissolve e ciò che rappresenta incomincia ad occupare in modo totale ed assoluto la mente della persona. Dalla visione personale ci si eleva così a un’altra che va ben oltre la comprensione della mente razionale; è una condizione in cui sembra più corretto dire che invece di pensare è il pensiero stesso che entra in noi e ci permea. Questo è lo stadio in cui si innescano la contemplazione o la meditazione”.
“La meta del processo di trasformazione – scrive Anselm Grün – [12] consiste nell’unificazione degli opposti, nell’autorealizzazione dell’uomo. Il contrasto di fondo di fronte a cui si trova l’uomo è la tensione tra spirito e istinto. Si tratta allora di far passare l’energia degli istinti a un’altra forma, “per esempio ad una forma di pensiero o di sentimento (idea e valore); ciò sulla base e con l’aiuto di un archetipo preesistente… Il fascino che parte dall’archetipo fa si che l’energia dell’istinto (libido) devii dal percorso originale e si aggrappi al corrispondente spirituale”[13] La trasformazione degli istinti avviene dunque, secondo Jung, a causa dell’azione dell’archetipo. Ma gli archetipi vengono attivati tramite riti e simboli, e portati alla conoscenza. Jung chiama i simboli “trasformatori”. Come una centrale di energia idrica trasforma l’energia dell’acqua in energia elettrica, così i simboli trasformano l’energia biologica in energia spirituale”.
“I simboli – scrive Jung- funzionano come trasformatori, in quanto trasferiscono la libido da una forma inferiore a una forma superiore”. [14]
Oggi più che mai abbiamo bisogno di “trasformatori” per non soggiacere ai manipolatori.
[1] Emilio Servadio, Passi sulla via iniziatica, Edizioni Mediterranee
[2] Emilio Servadio, Passi sulla via iniziatica, Edizioni Mediterranee
[3] Patricia S. Churchland, Coscienza – Ponte delle Grazie
[4] Edward o. Wilson, Le origini della creatività, Cortina
[5] Bessel Van Der Kolk, Il corpo accusa il colpo, Crotina
[6] Christopher Bollas, La mente orientale: Psicoanalisi e Cina, Cortina
[7] Patricia S. Churchland, Coscienza – Ponte delle Grazie
[8] Jules Boucher, La simbologia massonica, Atanòr
[9] Jules Boucher, La simbologia massonica, Atanòr
[10] Jules Boucher, La simbologia massonica, Atanòr
[11] Jules Boucher, La simbologia massonica, Atanòr
[12] Anselm Grün, Il coraggio di trasformarsi, San Paolo edizioni
[13] La citazione di Anselm Grün è riferita a C.G. Jung, Lettere, 20
[14] Jung, Opere, Vol V, Boringhieri, Torino