di Silvano Danesi
Alain Finkielkraut (La sconfitta del pensiero, Lucarini), nel condurre un’analisi sul concetto di cultura, introduce i concetti di “cultura” e di “mia cultura”.
Scrive Finkielkraut: “La cultura: il campo in cui si svolge l’attività spirituale e creativa dell’uomo. La mia cultura: lo spirito del popolo al quale appartengo e che impregna sia il mio più alto pensiero e sia i più semplici gesti della mia esistenza quotidiana”.
Oltre alle due culture delle quali scrive Alain Finkielkraut è necessario prenderne in esame una terza: la cultura artificiale della tribù degli apolidi per scelta, i multinazionali delle multinazionali.
Non sono dei rifugiati, dei reietti, dei senza cittadinanza. No. Sono gli apolidi per scelta, sono quelli la cui “persona profonda”, come sostiene Régis Debray, “non è un bene personale ma patrimoniale”; quelli le cui massime universalistiche sono “lussuose astrazioni”; quelli la cui nazione non è il wolksgeist e nemmeno il contratto sociale, ma il contratto da manager, da ceo, da consulente, da ottimate, da competente; quelli la cui patria è la finanza, il business, il successo, il denaro.
Quella degli apolidi per scelta è una tribù nomade e come tutte le tribù nomadi è predatoria.
Quella degli apolidi per scelta è una tribù di individui sedicenti “multiculturali”, che hanno assunto come pensiero il “pensiero calcolante” e la tecnica come forma suprema delle coscienza razionale.
Il loro ambiente di elezione è la tecno-finanza e il loro futuro è transumano, legato alla potenza del pensiero calcolante dell’intelligenza artificiale, i cui algoritmi, ovviamente da loro costruiti, sono spacciati come “oggettivi”, indiscutibili per la plebe.
Il pensiero meditante, l’intuizione, il vasto mondo della conoscenza simbolica, archetipica, mitica è bandito, in quanto non inseribile negli algoritmi con i quali la tribù degli apolidi per scelta intende governare il mondo.
Il mito degli apolidi per scelta è l’Homo Deus come ben descritto da Yuval Noah Harari, riferimento del World Economic Forum e della summa tecnocratica di Palo Alto.
Gli apolidi per scelta sono multinazionali nel senso che le loro nazioni non sono le nazioni-genio e nemmeno le nazioni contratto sociale, ma le multinazionali controllate dai grandi gruppi finanziari e facenti parte integrante della tecno-finanza.
In questo mondo di apolidi per scelta tutto è virtuale, autoreferenziale. Vivono come in un castello feudale, in questo neo-feudalesimo che vorrebbero instaurare, con la politica ridotta a fare lo sceriffo.
La burocrazia è l’esercito degli scherani dello sceriffo, i quali, ai più alti gradi, sono parte della tribù degli apolidi per scelta.
Gli intellettuali al servizio degli apolidi per scelta non sono più interessati alla cultura, perché tutto è ridotto ad una sorta di Hollywood, dove si elaborano i messaggi da propinare alla nuova plebe del neo-feudalesimo.
Alain Finkielkraut affonda il bisturi nei componenti di questa tribù, evidenziandone la vera natura di esseri che hanno interrotto il rapporto tra Io e Sé, per sentirsi dèi transumani, dopo aver eliminato gli déi, ossia gli archetipi, per sostituirli con le proiezioni del loro ego enfatico.
“Un abisso si è aperto – scrive Alain Finkielkraut – tra la morale comune e quel luogo retto dalla idea bizzarra che non vi può essere autonomia senza pensiero, e pensiero senza lavoro su se stesso”.
Se ha eliminato il Sé per diventare solo un Ego che mira a diventare un dio come può l’apolide per scelta lavorare su di sé? Come può rispondere al consiglio apollineo: “Gnoti seauton”, “Conosci il tuo Sé”, se intende trasumanarsi, affidandosi alla tecnica come forma suprema?
Come può la sua coscienza andare oltre il pensiero calcolante nel quale si è rifugiata?
Chiuso nel castello della tecno-finanza, l’apolide per scelta è prossimo alla disperazione quando vede che gran parte del mondo non risponde alle sue follie, perché, in fondo, l’apolide per scelta è infantile.
Gli apolidi per scelta hanno come prova del loro prossimo transumanarsi in dèi, della loro predestinazione, il denaro ed il successo (l’etica protestante fa capolino dietro le quinte) e, dall’alto del loro elitismo hanno elaborato un programma per il quale le plebi devono essere indotte a regolare la loro vita spirituale in base al principio del piacere immediato, che corrisponde con il consumo, cosicché se viene meno il consumo viene meno il piacere e arriva la depressione.
La tecno-finanza di dà il reddito di cittadinanza se ti comporti bene e ti consente di vivere nei pressi del castello. Se ti comporti male, via il reddito di cittadinanza, via la possibilità di consumare, via il piacere, in arrivo la depressione e l’esclusione.
L’umanità-plebe è, scriveva profeticamente nel 1987 (quasi quaranta anni fa) Alain Finkielkraut, un “conglomerato disinvolto di bisogni passeggeri ed aleatori, l’individuo postmoderno ha dimenticato che la libertà è cosa diversa dal poter cambiare canale, e che la cultura stessa è più di una pulsione appagata”.
Alla plebe del feudalesimo del terzo millennio la tribù degli apolidi per scelta propone di essere post moderna, di vivere alla carta, di attenersi alla propria pulsione del momento, di illudersi di essere autrice di se stessa.
La nuova plebe deve lasciare tutto e abbandonarsi all’immediatezza delle sue passioni elementari.
Nel delirio dell’Homo deus, riservato alle élite della tribù degli apolidi per scelta, alla plebe è riservata l’illusione dell’essere autrice di se stessa in una sorta di set holliwoodiano da soap opera.
Il gender così non si ferma solo al decidere se essere maschi o femmine, ma anche gatto o cane. La natura non ha più nessuna importanza. Esiste il percepito, che può cambiare giorno per giorno.
Niente è stabile. Tutto è fluido, destrutturato, frammentato, pronto per essere ri-assemblato in ragione degli input che vuole il castello.
Il puzzle dell’umanità è il nuovo gioco delle élite.
Conclude Finkielkraut, nella sua analisi di quarant’anni fa: “La barbarie è dunque riuscita ad impadronirsi della cultura. All’ombra di questa grande parola cresce l’intolleranza insieme all’infantilismo. Allorché non è l’identità culturale che rinserra l’individuo nella sua appartenenza, e che, pena l’alto tradimento, gli rifiuta l’accesso al dubbio, all’ironia, alla ragione – tutto quello che potrebbe distaccarla dalla matrice collettiva – è l’industria, è l’industria dello svago, questa creazione dell’età tecnica, che riduce le opere dello spirito allo stato di cianfrusaglia (oppure come si dice in America, di entertainement). E la vita con il pensiero cede dolcemente il suo posto al faccia a faccia terribile e derisorio del fanatico e dello zombi”.